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& Un grave errore e non solo politico (8)
Maturato il ritiro (otium) e ufficializzata la dissociazione dal potere (secedere), Seneca (Lettera 7, 1-3) lancia il suo j’accuse: la folla (turba) ci toglie l’armonia interiore (turbatur); la frequentazione degli uomini (conversatio multorum) ci corrompe; il popolo (populus) ci disumanizza:
Quanto più numeroso è il popolo con cui mi mischio, tanto più grande è il pericolo [...] Torno a casa più avido di beni, di cariche, di lusso, più crudele e più disumano, perché sono stato in mezzo agli uomini.
Alla stabilità (constantia) e autonomia (autárkeia) del saggio, Seneca contrappone l’instabilità (inconstantia) e la volubilità (levitas) della folla. In verità, in questo giudizio Seneca era stato preceduto da Orazio, il quale aveva definito il populus Romanus una belva dalle molte teste (Epistole 1, 1, 76 belua multorum es capitum), alla continua caccia dei cives-vittime; anche Lucrezio identifica il popolo con quel vulgus che ha animo ingrato e cuore empio (2, 622 ingratos animos atque impia pectora volgi) e che rifugge dalla dottrina epicurea, giudicata troppo severa e ostica (tristior).
Identificato con l’óchlos greco, vale a dire la massa informe e manovrabile, corrotta e corruttrice, che vuole consolazione e non verità, il populus con il Principato aveva compiuto la sua parabola semantica.
Quando si capovolge un sistema politico, si capovolgono anche le parole. E viceversa.
Nonostante i pochi decenni trascorsi, ormai appare lontano il populus ciceroniano (La repubblica 1, 39), inteso come comunità (coetus) tenuta insieme dal riconoscimento del diritto (consensus iuris) e dal bene comune (communio utilitatis), che in coppia col Senato (Senatus Populusque Romanus) costituiva uno dei due organi legislativi e l’architrave della Res publica; quello stesso populus che di lì a poco sarà ridotto al silenzio.
E lontanissimo appare quel populus che nel 510 a.C., riacquistata dopo 244 anni la libertà a seguito della cacciata di Tarquinio il Superbo, instaura la Res publica giurando solennemente che i cittadini ‘non avrebbero mai più tollerato re a Roma’ (Livio 2, 1, 9 neminem Romae passuros regnare).
Ma la storia si è incaricata di smentire quel solenne giuramento, perché dopo quasi sei secoli il populus Romanus rinuncerà alla sua autonomia e nobiltà, e si consegnerà ai nuovi e numerosi Re di Roma.
Quel populus – parole del Coro della Fedra di Seneca – ormai ‘non si fa scrupolo di affidare il potere al peggiore, / e ne gode’ (vv. 983 sg. tradere turpi fasces populus / gaudet).
Questi brevi frammenti dedicati ai peggiori!
Ma davvero il piacere è principio e fine della vita felice e le virtù vanno ricercate in vista del piacere, e non per se stesse? Davvero la virtù è inseparabile dal piacere?
Ben altra concezione della felicità aveva lo Stoicismo.
Seneca affronta il tema della felicità diffusamente nelle sue opere, ma soprattutto in un dialogo specifico, La vita felice (De vita beata). Seguendo la dottrina stoica, egli poneva il culmine del bene (summum bonum) nel vivere secondo natura (secundum naturam vivere):
io do il mio assenso alla natura (3, 3 rerum naturae adsentior), un ideale da intendere sia come adesione alla ragione universale sia come perfezione individuale, e da conseguire attraverso due qualità immortali, la sapienza e la virtù (Lettera 98, 9 sapientia et virtus: hoc unum contingit immortale mortalibus), le quali rendono l’uomo simile a dio (homóiosis tõ theõ).
In ottemperanza al principio di identità tra vivere felicemente e vivere secondo natura (La vita felice 8, 2 idem est ergo beate vivere et secundum naturam), la sapientia ci induce a servirci della natura come guida (8, 1 natura enim duce utendum est) e a uniformarci alla sua legge e al suo esempio (3, 3 ad illius legem exemplumque formari sapientia est). In questa riduzione delle ragioni soggettive dell’individuo a quelle necessarie del cosmo lo Stoicismo identificava fatum e voluntas, physis e ratio, microcosmo e macrocosmo (15, 5 non patiens tantum sed etiam volens).
Tuttavia per Seneca la felicità si identifica non solo con la sapientia, con la conoscenza del bene, ma anche con la virtus, la pratica del bene (16, 1 in virtute posita est vera felicitas). In questo modo, egli smentisce l’intellettualismo etico socratico, che identificava virtus e veritas (vd. Lettera 71, 16) e specularmente peccato e ignoranza (hamartía e amathía); si allinea alla concezione applicativa della virtus tipicamente romana e ciceroniana (La repubblica 1, 2 nec vero habere virtutem satis est quasi artem aliquam nisi utare, ‘non basta possedere la virtù come un’arte, se non te ne servi’; vd. sopra, p. 9); e dichiara che l’azione, al pari della contemplazione, è momento essenziale della virtù (Lettera 94, 45 in duas partes virtus dividitur, in contemplationem veri et actionem) e dello stesso destino nostro (La vita ritirata 5, 1 natura nos ad utrumque genuit, et contemplationi rerum et actioni).
Adottando la concezione anti-innatistica dei maestri stoici (Crisippo, vol. III, fr. 223 Arnim), Seneca ritiene che la virtù non è dono della natura (phýsis) ma frutto dell’educazione (téchne), dell’esercizio spirituale, dell’ascesi (áskesis): non la si eredita, ma la si apprende (Lettera 90, 44 non enim dat natura virtutem; ars est bonum fieri; 123, 16 discenda virtus est).
Tale virtù rende il sapiens felice anche nelle avversità, persino in mezzo ai supplizi. La conclusione è paradossale: ‘non aver bisogno della felicità è la vostra felicità’ (La provvidenza 6, 5 non egere felicitate felicitas vestra est) e ‘il vero piacere consiste, dunque, nel disprezzo dei piaceri’ (La vita felice 4, 2 vera voluptas erit voluptatum contemptio). Virtus e voluptas sono ‘diverse’, cioè stanno agli opposti (7, 1 diversa; 7, 3 dissimila, immo diversa), sono incompatibili (12, 3 inconvenientia). La virtù va perseguita per se stessa, perché è valore assoluto: essa è ricompensa di se stessa (9, 4 ipsa pretium sui) e non riconosce altro paradiso che se stessa.
Dunque: cos’è la felicità, qual è una vita felice per il saggio stoico? La vita felice è un animo libero e fiero, senza paura e ben saldo (4, 3 nos beatam vitam dicere liberum animum et erectum et interritum ac stabilem), collocato fuori dal timore e dal desiderio (4, 3 extra metum, extra cupiditatem positum).
La via maestra è coltivare la virtù prima del sapiens, la constantia, la stabilità, e rifuggire il vizio primo del populus, la levitas, la volubilità. Il saggio, infatti, non cambia né luogo (locus), né parere (sententia); egli non subisce i ricatti né della paura (metus) né del desiderio (cupido).
La felicità senecana si iscrive e si compie nell’orizzonte del presente ed esclude il futuro e l’attesa (expectatio), e quindi la speranza (spes), perché in essa si annidano i turbamenti e i disvalori della cupido e del timor che minacciano l’ideale dell’impassibilità (apátheia), il corrispettivo dell’imperturbabilità epicurea (ataraxia). Il saggio vivrà non sperando né temendo (nec spe nec metu), chiuso nella sua visione ciclica del mondo e del tempo: in un eterno ritorno.
‘Dimmi, epicureo, cos’è che rende l’uomo felice?’ (dic, Epicuree, quae res facit beatum?), ‘il piacere del corpo’ (voluptas corporis); ‘dimmelo tu, stoico’ (dic, Stoice), ‘la forza dell’animo’ (virtus animi); ‘e tu, cristiano?’ (dic, Christiane), ‘il dono di Dio’ (donum Dei).
Agostino nel Sermone 150 traccia in poche battute il discrimine preciso e profondo tra felicità pagana e felicità cristiana: alla voluptas e alla virtus della sapientia classica – ricapitolata nelle due opposte dottrine dell’Epicureismo e dello Stoicismo – egli contrappone il donum della grazia di Dio.
Questa la risposta a quanti si ostinano a credere che l’idea stoica e in particolare senecana di felicità consuoni o addirittura si imparenti con quella cristiana.
Proprio all’inizio del suo trattato La vita felice (De beata vita 1, 1) Agostino dice che nella traversata della nostra vita per approdare al porto della filosofia (philosophiae portus) e di lì alla terra della felicità (beatae vitae regio) noi, erranti e ignari della via del ritorno, non possiamo giovarci né della nostra ragione (ratio) né della nostra volontà (voluntas), ma solo affidarci ad una tempesta casuale (aliqua tempestas), la quale ci riconduce a destinazione contro la nostra volontà e nonostante la nostra resistenza (invitos contraque obnitentes). Questa non meglio definita tempesta – motivo che di norma in tutta la letteratura classica rappresenta un elemento ostile e negativo – sta qui a significare l’intervento divino provvidenziale e salvifico. Ecco dunque che la felicità per Agostino si configura non come conquista dell’uomo ma come imprevisto e imprevedibile dono di Dio (1, 5 Dei donum vocandum) e addirittura come possesso di Dio, come deum habere (2, 11 Deum igitur [...] qui habet, beatus est).
Non convergenza dunque, non continuità, né tanto meno dipendenza o parentela, ma divaricazione massima tra pagani e cristiani, tra Stoicismo e Cristianesimo, tra Seneca e Agostino.
In Seneca il sapiens, in uno sforzo volontaristico e ascensionale, tenta l’assalto al cielo e vuole rendersi simile a Dio (homóiosis tõ theõ), anzi superiore a Dio, perché egli può anche soffrire: ‘Dio è al di fuori della sofferenza, voi siete al di sopra’ (La provvidenza 6, 6 ille [deus] extra patientiam malorum est, vos supra patientiam). Tutto è possibile alla virtus stoica: reggere lo Stato, sperimentare la massima libertà nel suicidio, superare persino Dio.
In Agostino, Dio, con un moto gratuito e discendente, si fa simile all’uomo (homóiosis tõ anthrópo). Alla prospettiva etica e antropocentrica pagana e stoica si sostituisce la prospettiva teologica e cristocentrica; all’etica autonoma classica, in cui l’uomo fa legge a se stesso, si sostituisce l’etica eteronoma del cristiano, in cui l’uomo fa i conti con l’Altro. Mentre gli occhi del contemplante pagano sono catturanti – per dirla con Gianfranco Contini –, gli occhi del contemplante cristiano sono catturati.
Ancora: il dio pagano è un deus potens, quello cristiano è un deus patiens. Alla potentia del fulmine di Giove si contrappone la patientia della croce di Cristo (Agostino, Commento ai Salmi 40, 13 non descendebat [sc. de cruce] [...], non potentiam demonstrabat, sed patientiam docebat): una patientia più potente di quella delle armi (La città di Dio 18, 54 usque ad mortem pro veritate certare non armata potentia, sed potentiore patientia).
Il dio di Seneca è un dio impatiens, apathés, extra patientiam; il dio di Agostino è un deus patiens. È lo scandalo del Cristianesimo.
La patientia cristiana è la virtù non solo della sopportazione nel presente ma anche dell’attesa e della speranza della dimora futura, sconosciute a Seneca; sopportando, rimaniamo in attesa (patienter expectemus) esorta Agostino, confortato dalla lettera Ai Romani (8, 25), dove Paolo dice: ‘noi speriamo attraverso l’attesa’ (per expectationem speramus). La patientia per il cristiano non è, come per lo stoico, fine a se stessa e non è il paradiso, ma ne è la via.
[Prosegue con il racconto completo della Domenica]
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