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Capitolo completo del Lungo Esilio
& La grande migrazione (neoplatonica)
Non si
erano allontanati molto, quando si imbatterono in qualcosa che ricordò
cupamente loro a quale destino sarebbero andati incontro se fossero rimasti un
attimo più a lungo sull’aereo. Il velivolo giaceva nei pressi del Tsangpo,
annerito dal fumo e in pezzi, come un enorme uccello morto. Per diversi giorni,
appresero, nessuno aveva osato avvicinarvisi. Ora si vedevano centinaia di
tibetani spostarsi sul versante della montagna, come colonne di formiche,
portandone via dei frammenti ai loro villaggi. Altri, arrampicatisi sopra il
relitto, valutavano quali pezzi valesse ancora la pena salvare. Un valligiano,
trovando che ima delle radio del B-24 era troppo pesante per portarla via, era
intento a tagliarla in due con un’ascia.
Il viaggio
a Lhasa comprendeva la salita, faticosa e irta di pericoli, lungo il passo
Gokar coperto di ghiaccio. Gli aviatori e la scorta tibetana cavalcavano in
fila lungo cenge strettissime, con uno spaventoso strapiombo da un lato: i
pony, inciampando spesso proprio sul ciglio, lasciavano cadere sassi che si
frantumavano nell’abisso, facendo salire agli americani il cuore in gola.
Dovevano anche stare attenti ai sintomi di congelamento, per evitare i quali
ogni tanto scendevano di sella e proseguivano a piedi per riattivare la
circolazione, mentre l’aria povera d’ossigeno provocava - persino ai pony -
difficoltà di respirazione.
Avvicinandosi
a Lhasa, trovarono che i funzionari cinesi, di cui in quella guerra erano
alleati, avevano allestito una tenda alle porte della città, dove avevano
preparato una cerimonia di benvenuto. Furono fatti sedere e finirono per bere
una gran quantità di brandy per via dei numerosi brindisi. Brindarono dapprima
ai loro ospiti; poi al Tibet, alla Cina e all’America; poi al Dalai Lama, a
Chiang Kai-shek e al presidente Roosevelt, e infine a New York e ai loro Stati
di provenienza. I cinesi li informarono che li avrebbero portati nella città
santa dove ad attenderli c’era un banchetto presso la missione cinese.
Mentre si decideva il loro futuro, sarebbero stati ospitati nell’unica casa occidentale della capitale - la missione britannica retta dagli Sherriff. Passarono a Crozier una breve nota da parte del capitano Sherriff, nella quale questi dava loro il benvenuto a Lhasa. Terminava con le parole: ‘Sono certo che i vostri problemi sono quasi finiti’. Ma tale rassicurazione si rivelò prematura.
La missione
cinese si trovava nel cuore della città vecchia e per raggiungerla, tuttora brilli
per gli effetti del brandy, gli americani dovettero passare a cavallo per un
labirinto di stradine e vicoli infangati, disseminati di rifiuti e affollati di
persone, yak e pony. Nessuna casa aveva vetri alle finestre. Tutto era molto
più primitivo di qualsiasi cosa avessero mai visto in India o in Cina. Giunti
alla missione cinese, smontarono da cavallo e furono fatti entrare in una
piccola sala dei banchetti. Lì, seduti intorno a un tavolo, gli ospiti
sorridenti offrirono loro una serie di piatti cinesi. Fu a metà del pasto che
si accorsero che nella piazza antistante erano in corso dei disordini.
Prima che
avessero tempo di chiedersi il perché, un sasso colpì l’edificio con un tonfo
pesante. Fu seguito da grida di rabbia e dall’intensificarsi del clamore all’esterno.
Ad un tratto, i cinesi si allontanarono, ma solo per portare i pony davanti all’entrata
principale, come gli americani compresero poco dopo. I loro ospiti cinesi
spiegarono ai cinque americani che sarebbero dovuti uscire di corsa. Ancora non
avevano ricevuto nessuna spiegazione in merito a cosa stesse accadendo.
Apparvero altri cinesi, e gli aviatori furono portati all’ingresso che si
apriva sulla piazza. Crozier stimò che ci fossero circa diecimila tibetani
furibondi.
Appena vide gli americani, la folla iniziò a ondeggiare in avanti. Una pietra colpì uno degli aviatori, fortunatamente senza conseguenze. Per tutta risposta, i cinesi, che erano saliti in sella ai loro pony, cavalcarono dritti in mezzo alla folla, menando frustate a destra e a manca senza alcun riguardo. A loro si unì immediatamente un gruppo di tibetani, all’apparenza poliziotti o soldati. Con bastoni e fruste anche costoro si misero a colpire chiunque si avvicinasse. Uno dei più attivi era un funzionario vestito con una sorta di toga che aveva in mano una sola arma ma dagli effetti devastanti. Si trattava di una pesante chiave di metallo, legata al polso da una cinghia di cuoio, che brandiva spaccando crani a destra e a sinistra. Insieme costrinsero la folla a indietreggiare quanto bastava per consentire agli americani di salire sui pony e passare in mezzo alla calca. Alla fine, grazie alla risolutezza della loro scorta, essi riuscirono ad allontanarsi indenni. Altre pietre iniziarono a volare in aria, ma gli americani spronarono i pony e presto furono fuori dalla portata della folla, dove poco dopo vennero raggiunti dalla scorta e dai loro ospiti. Fu solo una volta al sicuro nella missione britannica, a circa tre chilometri di distanza, che appresero dal capitano Sherriff il motivo della furia popolare.
‘Eravate
più in alto di lui, capite’ Sherriff spiegò. ‘C’è del risentimento tra la
popolazione. Lo avete toccato con mano, quando la folla vi ha preso a sassate’.
Per calmare la popolazione, le autorità avevano diffuso l’idea che, a mo’ di
punizione, l’aeroplano era stato strappato giù a forza dal cielo. ‘Ma il punto
è’ aggiunse Sherriff ‘che il governo vuole che partiate il più in fretta
possibile’. Nel frattempo, le autorità stavano organizzando una carovana, con
una piccola scorta di soldati tibetani. Finché non fosse pronta, dovevano
restare nel recinto della missione. Dopo quanto era accaduto, non ci sarebbe
stata nessuna visita della città santa. Gli americani erano comunque ben
contenti di riposarsi, prima di imbarcarsi nel lungo e faticoso viaggio verso
casa attraverso i passi coperti di neve che portavano a sud. Ma ascoltarono
affascinati i racconti degli Sherriff su quella strana terra medioevale.
Incontrarono anche l’unico altro occidentale che viveva a Lhasa, Reginald Fox,
l’operatore radio britannico, che si era sposato con una donna tibetana. Gli
promisero che una volta arrivati sani e salvi in India, se mai avessero volato
di nuovo dalle parti del Tibet lo avrebbero chiamato via radio per scambiarsi
notizie.
Come la
Svizzera fornì un rifugio ai soldati alleati che riuscivano a fuggire dai campi
di prigionia dell’Europa occupata, così il Tibet neutrale divenne un rifugio
per due austriaci che riuscirono a fuggire dall’India britannica passando per l’Himalaya.
La storia di Heinrich Harrer e Peter
Aufschnaiter, che affamati, vestiti di stracci e con i piedi sanguinanti
alla fine giunsero a Lhasa nel gennaio 1946, è probabilmente troppo nota
perché metta conto ripeterla qui. Ai due, entrambi rinomati alpinisti nel
periodo tra le due guerre, fu concesso asilo politico a Lhasa finché non furono
costretti a scappare dall’invasione cinese del 1950. Harrer, inoltre, divenne tutore e confidente del giovane Dalai
Lama, che introdusse alla scienza e alla storia moderne.
(P. Hopkirk, Alla conquista di Lhasa)
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