giuliano

martedì 6 aprile 2021

(un caso di perdita d') ORIENTAMENTO (3)

 











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Capitolo completo del Lungo Esilio


& La grande migrazione (neoplatonica)


...Il Viaggio prosegue (4/5)








Non si erano allontanati molto, quando si imbatterono in qualcosa che ricordò cupamente loro a quale destino sarebbero andati incontro se fossero rimasti un attimo più a lungo sull’aereo. Il velivolo giaceva nei pressi del Tsangpo, annerito dal fumo e in pezzi, come un enorme uccello morto. Per diversi giorni, appresero, nessuno aveva osato avvicinarvisi. Ora si vedevano centinaia di tibetani spostarsi sul versante della montagna, come colonne di formiche, portandone via dei frammenti ai loro villaggi. Altri, arrampicatisi sopra il relitto, valutavano quali pezzi valesse ancora la pena salvare. Un valligiano, trovando che ima delle radio del B-24 era troppo pesante per portarla via, era intento a tagliarla in due con un’ascia.

 

Il viaggio a Lhasa comprendeva la salita, faticosa e irta di pericoli, lungo il passo Gokar coperto di ghiaccio. Gli aviatori e la scorta tibetana cavalcavano in fila lungo cenge strettissime, con uno spaventoso strapiombo da un lato: i pony, inciampando spesso proprio sul ciglio, lasciavano cadere sassi che si frantumavano nell’abisso, facendo salire agli americani il cuore in gola. Dovevano anche stare attenti ai sintomi di congelamento, per evitare i quali ogni tanto scendevano di sella e proseguivano a piedi per riattivare la circolazione, mentre l’aria povera d’ossigeno provocava - persino ai pony - difficoltà di respirazione.




 Alla fine, dopo due notti passate in altrettanti villaggi lungo la strada, si trovarono a guardare dall’alto Lhasa, ancora distante quindici chilometri, nel mezzo di un’ampia valle. Agli occhi degli esausti americani, deve essere parsa una sorta di Shangri-La. Il gruppo si fermò mentre i cinque aviatori osservavano a bocca aperta i tredici piani del Potala. Quando uno della scorta raccontò che conteneva mille stanze, uno degli americani commentò scherzando che non gli sarebbe piaciuto essere l’addetto a lavare le finestre.

 

Avvicinandosi a Lhasa, trovarono che i funzionari cinesi, di cui in quella guerra erano alleati, avevano allestito una tenda alle porte della città, dove avevano preparato una cerimonia di benvenuto. Furono fatti sedere e finirono per bere una gran quantità di brandy per via dei numerosi brindisi. Brindarono dapprima ai loro ospiti; poi al Tibet, alla Cina e all’America; poi al Dalai Lama, a Chiang Kai-shek e al presidente Roosevelt, e infine a New York e ai loro Stati di provenienza. I cinesi li informarono che li avrebbero portati nella città santa dove ad attenderli c’era un banchetto presso la missione cinese.




Mentre si decideva il loro futuro, sarebbero stati ospitati nell’unica casa occidentale della capitale - la missione britannica retta dagli Sherriff. Passarono a Crozier una breve nota da parte del capitano Sherriff, nella quale questi dava loro il benvenuto a Lhasa. Terminava con le parole: ‘Sono certo che i vostri problemi sono quasi finiti’. Ma tale rassicurazione si rivelò prematura.

 

La missione cinese si trovava nel cuore della città vecchia e per raggiungerla, tuttora brilli per gli effetti del brandy, gli americani dovettero passare a cavallo per un labirinto di stradine e vicoli infangati, disseminati di rifiuti e affollati di persone, yak e pony. Nessuna casa aveva vetri alle finestre. Tutto era molto più primitivo di qualsiasi cosa avessero mai visto in India o in Cina. Giunti alla missione cinese, smontarono da cavallo e furono fatti entrare in una piccola sala dei banchetti. Lì, seduti intorno a un tavolo, gli ospiti sorridenti offrirono loro una serie di piatti cinesi. Fu a metà del pasto che si accorsero che nella piazza antistante erano in corso dei disordini.




 All’inizio si sentiva poco più di un mormorio. Ma mentre il pranzo andava avanti, il vociare divenne sempre più forte. A un certo punto, Crozier si girò verso uno degli ospiti e chiese che cosa stesse accadendo. ‘Si è radunata una gran folla’ fu la risposta. Immaginando che la loro presenza a Lhasa suscitasse curiosità ed eccitazione,  Crozier non diede alcun peso alla faccenda. Gli effetti del brandy, comunque, erano tali che in quel momento né lui né i suoi compagni ritenevano di avere il benché minimo problema. Al momento di ringraziare i loro ospiti cinesi e prepararsi per andare alla missione britannica, tuttavia, scoprirono la verità. Ad attenderli fuori c’era una folla di tibetani inferociti.

 

Prima che avessero tempo di chiedersi il perché, un sasso colpì l’edificio con un tonfo pesante. Fu seguito da grida di rabbia e dall’intensificarsi del clamore all’esterno. Ad un tratto, i cinesi si allontanarono, ma solo per portare i pony davanti all’entrata principale, come gli americani compresero poco dopo. I loro ospiti cinesi spiegarono ai cinque americani che sarebbero dovuti uscire di corsa. Ancora non avevano ricevuto nessuna spiegazione in merito a cosa stesse accadendo. Apparvero altri cinesi, e gli aviatori furono portati all’ingresso che si apriva sulla piazza. Crozier stimò che ci fossero circa diecimila tibetani furibondi.




Appena vide gli americani, la folla iniziò a ondeggiare in avanti. Una pietra colpì uno degli aviatori, fortunatamente senza conseguenze. Per tutta risposta, i cinesi, che erano saliti in sella ai loro pony, cavalcarono dritti in mezzo alla folla, menando frustate a destra e a manca senza alcun riguardo. A loro si unì immediatamente un gruppo di tibetani, all’apparenza poliziotti o soldati. Con bastoni e fruste anche costoro si misero a colpire chiunque si avvicinasse. Uno dei più attivi era un funzionario vestito con una sorta di toga che aveva in mano una sola arma ma dagli effetti devastanti. Si trattava di una pesante chiave di metallo, legata al polso da una cinghia di cuoio, che brandiva spaccando crani a destra e a sinistra. Insieme costrinsero la folla a indietreggiare quanto bastava per consentire agli americani di salire sui pony e passare in mezzo alla calca. Alla fine, grazie alla risolutezza della loro scorta, essi riuscirono ad allontanarsi indenni. Altre pietre iniziarono a volare in aria, ma gli americani spronarono i pony e presto furono fuori dalla portata della folla, dove poco dopo vennero raggiunti dalla scorta e dai loro ospiti. Fu solo una volta al sicuro nella missione britannica, a circa tre chilometri di distanza, che appresero dal capitano Sherriff il motivo della furia popolare.




 Nella calma ordinata di Dekyi Lingka, mentre bevevano un drink circondati da vecchie copie del Times, Sherriff spiegò loro che, senza volerlo, avevano commesso un atto di blasfemia contro il Dalai Lama. ‘Immagino sappiate’ fece notare ‘che siete stati i primi in assoluto a volare sopra Lhasa’. In questo modo avevano fatto una cosa che a nessun tibetano, e ancor meno a uno straniero, era mai stato consentito di fare. Avevano guardato dall’alto il Dalai Lama.

 

‘Eravate più in alto di lui, capite’ Sherriff spiegò. ‘C’è del risentimento tra la popolazione. Lo avete toccato con mano, quando la folla vi ha preso a sassate’. Per calmare la popolazione, le autorità avevano diffuso l’idea che, a mo’ di punizione, l’aeroplano era stato strappato giù a forza dal cielo. ‘Ma il punto è’ aggiunse Sherriff ‘che il governo vuole che partiate il più in fretta possibile’. Nel frattempo, le autorità stavano organizzando una carovana, con una piccola scorta di soldati tibetani. Finché non fosse pronta, dovevano restare nel recinto della missione. Dopo quanto era accaduto, non ci sarebbe stata nessuna visita della città santa. Gli americani erano comunque ben contenti di riposarsi, prima di imbarcarsi nel lungo e faticoso viaggio verso casa attraverso i passi coperti di neve che portavano a sud. Ma ascoltarono affascinati i racconti degli Sherriff su quella strana terra medioevale. Incontrarono anche l’unico altro occidentale che viveva a Lhasa, Reginald Fox, l’operatore radio britannico, che si era sposato con una donna tibetana. Gli promisero che una volta arrivati sani e salvi in India, se mai avessero volato di nuovo dalle parti del Tibet lo avrebbero chiamato via radio per scambiarsi notizie.




 Alla fine, il 19 dicembre 1943 - a mezzogiorno, di modo che tutti potessero vederli andare via -, i cinque americani e la loro scorta partirono a cavallo da Lhasa. È quasi l’ultima notizia che abbiamo di loro. Sappiamo da Crozier che il suo giovane motorista di bordo non sopravvisse alla guerra. Sappiamo anche che lui e il suo equipaggio furono nuovamente assegnati alla Gobba e che mantennero la promessa fetta a Fox - o almeno ci provarono. Sebbene, infatti, cercassero molte volte di chiamare la stazione AC4YN, non riuscirono mai a ottenere una risposta. E così, tranne che per i loro ricordi, persero ogni contatto con il Tibet.

 

Come la Svizzera fornì un rifugio ai soldati alleati che riuscivano a fuggire dai campi di prigionia dell’Europa occupata, così il Tibet neutrale divenne un rifugio per due austriaci che riuscirono a fuggire dall’India britannica passando per l’Himalaya. La storia di Heinrich Harrer e Peter Aufschnaiter, che affamati, vestiti di stracci e con i piedi sanguinanti alla fine giunsero a Lhasa nel gennaio 1946, è probabilmente troppo nota perché metta conto ripeterla qui. Ai due, entrambi rinomati alpinisti nel periodo tra le due guerre, fu concesso asilo politico a Lhasa finché non furono costretti a scappare dall’invasione cinese del 1950. Harrer, inoltre, divenne tutore e confidente del giovane Dalai Lama, che introdusse alla scienza e alla storia moderne.

 

(P. Hopkirk, Alla conquista di Lhasa)







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