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& altri racconti della domenica: ovvero NEVER IN MY NAME
Benton si
alzò e raggiunse la porta. Come tutte le altre, anche quella si spalancò al suo
tocco, e lui passò negli Uffici Controllo. Mentre la porta si chiudeva alle sue
spalle, il Controllore urlò piuttosto rabbiosamente: — Non so cosa lei stia
combinando, ma sa qual è la pena per chi altera la Stabilità!
— Temo che
la Stabilità sia già alterata — rispose Benton, e proseguì.
Gli Uffici
erano giganteschi. Guardò giù dalla passerella su cui si trovava: sotto di lui,
mille uomini e donne si affaccendavano attorno a macchine sibilanti,
efficienti. Inserivano nelle macchine risme di schede. Molti lavoravano alle
scrivanie; battevano a macchina fogli di informazione, compilavano grafici,
sistemavano schede, decodificavano messaggi. Sulle pareti, grafici stupendi
venivano modificati in continuazione. L’aria stessa vibrava della vitalità del
lavoro che veniva condotto lì, del ronzio delle macchine, del ticchettare delle
macchine per scrivere, e il mormorio delle voci si fondeva in un suono
tranquillo, soddisfatto. E quell’enorme macchina, il cui funzionamento
quotidiano costava innumerevoli dollari, aveva una sola parola d’ordine:
Stabilità!
Lì, la cosa che teneva assieme il loro mondo viveva. Quella stanza, quelle persone che lavoravano sodo, gli uomini infaticabili che riordinavano le schede nel mucchio contrassegnato dall'etichetta ‘da esaminare’, funzionavano tutti assieme, come una grande orchestra sinfonica. Una sola persona stonata, una sola persona fuori tempo, e l’intera struttura avrebbe tremato. Ma nessuno incespicava. Nessuno si fermava o commetteva errori. Benton scese una rampa di scale, fino alla scrivania dell'addetto alle informazioni.
— Mi dia
tutte le informazioni disponibili su un’invenzione brevettata da Luigis Robert Benton, 34500-D — disse. L’impiegato
annuì e lasciò la scrivania. Tornò pochi minuti dopo con una scatola di metallo.
— Contiene
i progetti e un modellino funzionante dell’invenzione — disse. Mise la scatola
sulla scrivania e la aprì. Benton fissò il contenuto. Al centro c’era un
piccolo macchinario molto complesso. Sotto, uno spesso mucchio di fogli di
metallo sui quali erano incisi schemi.
— Posso
prenderla? — chiese Benton.
Dall’uscita
laterale sboccò in una delle vie sotterranee più ampie, un turbinio di luci e
veicoli. Individuata la propria direzione, si mise a cercare un’auto pubblica
che lo riportasse a casa. Ne arrivò una, e lui salì a bordo. Dopo qualche
minuto di viaggio, cominciò a sollevare con cautela il coperchio della scatola,
e guardò dentro. Guardò lo strano modellino.
— Cosa ha
con sé, signore? — chiese l’autista robot.
— Mi piacerebbe saperlo — rispose Benton, meditabondo. Due volatori apparvero al suo fianco e gli fecero cenni di saluto. Danzarono nell’aria per un secondo, poi svanirono.
— Per tutti
i voli — mormorò Benton. — Ho dimenticato le mie ali.
Era troppo
tardi per tornare a prenderle. L’automobile aveva cominciato a rallentare
davanti a casa sua. Pagato l’autista, Benton entrò e chiuse a chiave, cosa che
faceva di rado. Il posto migliore per studiare il contenuto della scatola era
la sua stanza ‘da riflessione’, dove trascorreva il tempo libero quando non
volava. Lì, fra i suoi libri e le sue riviste, avrebbe potuto osservare con
comodo l’invenzione.
La serie di
schemi fu per lui un completo enigma, e il modellino ancora di più. Lo scrutò da
ogni angolo, da sotto, da sopra. Tentò di interpretare i simboli tecnici degli
schemi, ma inutilmente. Non gli restava che una via. Trovò l’interruttore di
accensione e lo premette.
Stava
cadendo nello spazio come se si fosse trovato in un tunnel sterminato. Prese a
contorcersi freneticamente, agitando le mani nelle tenebre in cerca di qualcosa
a cui aggrapparsi. Precipitò per un tempo interminabile, impotente, spaventato.
Poi atterrò, completamente incolume. Nonostante ciò che era parso a lui, la
caduta non poteva essere stata troppo lunga. I suoi abiti di metallo non
avevano una sola piega fuori posto. Si tirò su e si guardò attorno.
Il luogo
dove era arrivato gli era sconosciuto. Era un campo… Non credeva che ne
esistessero ancora. Acri di grano ondeggiavano, smossi dal vento, a perdita d’occhio.
Eppure, Benton era certo che in nessun luogo di Terra crescesse ancora grano
naturale. Sì, ne era sicurissimo. Si schermò gli occhi e guardò il sole, che
però aveva lo stesso aspetto di sempre. Si incamminò.
Dopo un’ora, i campi di grano terminarono, ma al loro posto subentrò un’ampia foresta. Dai suoi studi, Benton sapeva che su Terra non esistevano più foreste. Erano morte anni prima. Dove si trovava, allora?
Riprese a
camminare, questa volta più in fretta. Poi si mise a correre. Davanti a lui si
alzava una piccola collina. Vi arrivò in cima. Guardò giù sul lato opposto e
rimase esterrefatto. Non c’era nulla, soltanto una grande desolazione. Il
terreno era completamente pianeggiante e spoglio. Non c'erano alberi o altri
segni di vita sino a dove arrivava il suo sguardo; solo quella terra di morte,
inaridita.
Si avviò
sul fianco della collina, verso la pianura. Il terreno era secco e caldo sotto
i suoi piedi, ma continuò ad avanzare lo stesso. Gradualmente, il terreno
cominciò a dargli fastidio ai piedi, perché non era abituato alle lunghe
camminate, e si stancò. Ma era deciso a continuare. Un sussurro esile nella
mente lo costringeva a mantenere il passo senza rallentare.
— Non raccoglierlo — disse una voce.
— Invece lo
raccoglierò — mormorò Benton, come fra sé e sé, e si chinò. Una voce! Da dove
giungeva? Si guardò attorno, ma non c’era niente da vedere. Eppure la voce già
aveva parlato, e per un attimo lui aveva avuto l’impressione che le voci uscite
dal nulla fossero una cosa perfettamente naturale. Esaminò l’oggetto che stava
per raccogliere. Era un globo di vetro, grande all’incirca quanto il suo pugno.
—
Distruggerai la tua preziosa Stabilità — disse la voce.
— Niente
può distruggere la Stabilità — rispose automaticamente lui. Il globo di vetro
era fresco e gradevole nella palma della mano. Conteneva qualcosa, ma il calore
emanato dall’astro in cielo traeva riflessi danzanti dal globo, e Benton non
era in grado di capire esattamente cosa ci fosse all’interno.
— Stai
lasciando che la tua mente venga controllata da cose malvage — gli disse la
voce. — Rimetti giù il globo e vattene.
— Cose malvage? — chiese lui, sorpreso. Faceva caldo, e cominciava ad avere sete. Fece per infilare il globo in una tasca della giacca.
— Non farlo
— ordinò la voce. — È proprio questo che vuole da te.
Appoggiato
contro il suo petto, il globo gli dava una sensazione gradevole. Gli
trasmetteva un senso di frescura che lo proteggeva dal calore assillante del
sole. Cosa stava dicendo la voce?
— Sei stato
richiamato nel tempo da quella cosa — spiegò la voce. — Adesso le obbedisci
senza porti domande. Io sono il suo guardiano. La custodisco da quando è stato
creato questo tempo-mondo. Vattene, e lascia il globo come lo hai trovato.
Sì, nella
pianura faceva davvero troppo caldo. Benton avrebbe voluto andarsene. Adesso,
il globo lo stava sollecitando a ripartire, ricordandogli il caldo che scendeva
dall’alto, l’aridità della bocca, il formicolio alla testa. Si incamminò,
stringendo a sé il globo, e udì il gemito di disperazione e furia della voce
fantasma...
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