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La peste (39)
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Satana (41)
Gli amministratori e gli esecutori della giustizia erano come tutti gli altri:
o morti o ammalati.
I pochi non contagiati non avevano più dipendenti, cosicché non poteva-
no comunque svolgere la loro attività. Perciò, tutto era diventato lecito a
tutti.
Non c'erano soltanto quelli che si rinchiudevano in casa o che si davano ai
bagordi: molti altri avevano scelto una via di mezzo, senza limitarsi trop-
po come i primi, ma senza neanche lasciarsi andare alla dissolutezza come
i secondi.
Questa terza categoria di cittadini cercava di soddisfare in modo sufficien-
te, senza eccessi e senza troppe rinunce, i diversi appetiti. Non se ne sta-
vano rintanati, ma camminavano per le strade con in mano fiori o erbe
profumate o spezie di vario tipo che si portavano spesso al naso: era un
modo per non sentire troppo l'odore fetido che impregnava l'aria, un mi-
sto rivoltante di malattia, di morte, di carne putrefatta.
Alcuni fecero una scelta cinica, crudele ed egoistica, ritenendola l'unica
davvero efficace: il solo rimedio contro la pestilenza, dicevano è la fuga.
E così molti uomini e molte donne, non pensando ad altro che a se stes-
si, abbandonaro la città, le loro case, i luoghi cari, i parenti e tutte le lo-
ro cose.
Fuggirono nelle zone di campagna intorno a Firenze o anche più lontano.
Come se la collera di Dio, che stava punendo con la peste la malvagità
degli uomini, non potesse colpire dovunque, ma soltanto dentro le mura
cittadine.
O come se credessero che nessuno sarebbe rimasto vivo in Firenze, e che
per la città fosse giunta l'ultima ora. Opinioni diverse, e scelte diverse.
Ma nessuna metteva davvero al sicuro.
Non morivano tutti, certo, ma pochi si salvarono. Si ammalavano sia i
rinchiusi sia i gaudenti sia i fuggitivi. E allora erano loro a essere schifati
e abbandonati, erano loro a languire dappertutto, loro che per primi,
quando erano ancora sani, avevano abbandonato gli infermi.
Lasciamo stare che i cittadini si evitassero l'un l'altro e che fossero qua-
si scomparsi i rapporti di buon vicinato. Quel flagello aveva stravolto l'-
animo di uomini e donne a tal punto che il fratello abbandonava il fratello,
lo zio il nipote, la sorella il fratello e, spesso, la moglie il marito.
Accadeva persino, incredibile a dirsi, che i padri e le madri evitassero di
visitare e prendersi cura dei figli, come se non fossero i loro. Perciò, a quel-
li che si ammalavano (ed erano una moltitudine) non rimaneva altro confor-
to che la carità degli amici (non molti a dire il vero) o l'avidità che, attratti
dai consistenti e squallidi salari, si mettevano al servizio degli infermi.
(.......) I morti erano talmente tanti che la terra consacrata per le sepolture
non era sufficiente. Così, si scavavano nei cimiteri delle chiese fosse gran-
dissime, in cui i cadaveri venivano gettati a centinaia, pigiati a strati come
le mercanzie nella stiva di una nave.
Perciò, bastava poca terra per ricoprirli e per riempire la fossa.
Non volendo riferire in ogni particolare tutte le miserie che la nostra pove-
ra Firenze dovette sopportare in quell'occasione, mi limiterò a dire che, se
in città la situazione era disperata, non fu in alcun modo risparmiata neppu-
re la campagna circostante.
Qui, lasciando stare i castelli, simili a piccoli centri urbani, nelle fattorie e
nei campi i miseri contadini e le loro famiglie, senza alcun intervento di me-
dici e senza alcun aiuto, nelle strade, in mezzo alle coltivazioni, in casa, mo-
rivano giorno e notte non come uomini, ma quasi come bestie....
...Per tornare a parlare della città, posso solo aggiungere che tanto grande
fu la crudeltà del cielo e, forse, in parte anche degli uomini, che fra marzo
e luglio di quel 1348 la peste e lo stato di abbandono dei malati si portaro-
no via più di centomila fiorentini, più di quanti si pensava abitassero in cit-
tà prima dell'epidemia...
(L. Corona, Decameron di Boccaccio)
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