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Zi zi zi!
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...Il vostro agente... (3/4)
Il vero inquisitore non picchia. Parla,
intimidisce, sorprende.
Il vero inquisitore sa che un buon
interrogatorio non consiste nelle torture fisiche ma nelle sevizie psicologiche
che seguono le torture fisiche. Sa che col corpo ridotto a un ammasso di piaghe
l'interrogato sarà felice di rifugiarsi in qualcuno che lo tormenta con le parole
e basta. Sa che dopo tante sofferenze niente come l'annuncio pacato di altre
sofferenze piegherà la sua resistenza fisica e morale.
Il vero inquisitore non si mostra mai coi
personaggi della commedia che ha nome Interrogatorio: per rivelarsi aspetta che
il sipario sia calato sul primo atto. Soltanto allora, come un regista che
coordina il lavoro della sua troupe, egli interviene: graduando le domande con
pazienza, studiando le risposte con intelligenza, accettando i silenzi con
civiltà. Tanto a lui non importano rivelazioni straordinarie o immediate. Gli
interessano piuttosto piccole notizie con cui comporre il mosaico che gli
consentirà di individuare i punti vulnerabili della sua vittima, provocare in
lei un senso di incertezza e di paura, infine l'abbandono totale.
Per questo, quando l'inquisitore si presenta, non basta
rifiutargli risposte. Bisogna rifiutargli anche il dialogo, ogni forma di
dialogo, e tenere il cervello all'erta. Naturalmente è difficile: le torture
fisiche diminuiscono il funzionamento cerebrale. Perché è necessario sforzarsi
se si vuole capire dove è giunta l'inchiesta, quel che hanno scoperto o non
hanno scoperto. Occhi e orecchi aperti, dunque.
…E memoria, fantasia, perché l'inquisitore
non ha fantasia: è un tipo che vede il potere come un fenomeno esterno, un
cumulo di mezzi per conservare lo status quo senza affaticarsi nella
problematica. Non che sia un cretino o un vanitoso assetato di gloria: spesso
non è sollecitato nemmeno da ambizioni personali, si accontenta d'essere uno
sconosciuto appena autorevole e cioè di stare nell'anticamera del Potere. Non che
egli sia necessariamente malvagio o corrotto: spesso a muoverlo sono un odio
sincero per il disordine e un amore sincero dell'Ordine.
Ma il potere
totalitario, oppressore, è il suo dio; il modello che egli ha dell'ordine è la
simmetria delle croci in un cimitero. In tale simmetria si incasella, lui stesso,
senza discutere: non può immaginare nulla di nuovo o di diverso.
Il nuovo e
il diverso lo spaventano.
Devoto
quanto un prete a sistemi già collaudati, divinizza i regolamenti e vi
obbedisce nel modo in cui obbedisce ai banali canoni dell'eleganza: abito blu,
camicia bianca, cravatta blu.
Il vero inquisitore
è un uomo lugubre. Filosoficamente è il vero fascista, cioè il fascista privo
di colore che serve tutti i fascismi, tutti i totalitarismi, tutti i regimi
purché servano a mettere gli uomini in fila come croci in un cimitero.
Lo trovi
ovunque vi sia un'ideologia, un principio assoluto, una dottrina che proibisca all'individuo
d'essere se stesso. Ha uffici in ogni contrada della Terra, capitoli in ogni volume
di storia, ieri serviva i tribunali dell'Inquisizione cattolica e del Terzo
Reich, oggi serve la caccia alle streghe delle tirannie orientali e occidentali,
di destra e di sinistra.
Egli è
eterno, onnipresente, immortale. E mai umano. Forse si innamora, all'occorrenza
piange e soffre come noi, forse ha un'anima. Ma, se ce l'ha, essa giace dentro
una tomba così profonda che per disseppellirla ci vorrebbe un bulldozer. Se non
si capisce questo, non gli si può tener testa e resistergli diventa semplicemente
un atto di orgoglio personale. Intendiamoci, l'orgoglio personale è legittimo
anzi doveroso. Perché chiuso in se stesso è un errore politico: tener testa
all'interrogatorio non significa solo dimostrare un eroismo da san Sebastiano o
da martiri del Colosseo, significa anche umiliare l'Inquisitore sul piano
professionale e mentale, indurlo a dubitare di se e del sistema che egli
rappresenta, vendicare tutti coloro che furono schiacciati dalla sua aggraziata
ferocia.
E un breve
saggio che avresti scritto per il libro molti anni dopo, quando la tua fiaba
stava per concludersi, ed è la razionalizzazione del tuo odio per Hazizikis:
l'unico aguzzino che non avresti mai perdonato. Un odio cupo, doloroso,
testardo. Un odio che era esploso nell'attimo stesso in cui aveva pronunciato
il tuo nome, dimostrando di sapere chi eri.
Ti senti
meglio, Giuliano?
O devo chiamarti
Pietro?
E tu eri
rimasto a fissarlo incapace di rispondere sì o no. Avresti dato molto per
rispondere sì o no. Ma le parole non uscivano dalla tua bocca, neanche t'avessero
tagliato la lingua.
Imputato,
alzatevi!
Il
presidente ti chiamò. Secondo la prassi, l'imputato doveva parlare prima della
Pubblica Accusa. I tre poliziotti allentarono la morsa. Ti alzasti. Guardasti i
giudici in faccia, uno a uno. E la tua voce si levò ferma, sonora. Bellissima.
Signori
della Corte marziale, sarò breve.
Non vi
annoierò.
Non
insister nemmeno sull'interrogatorio infame che ho subito: ci che ho già detto
su quello mi basta. Prima di esaminare le imputazioni che mi vengono mosse,
preferisco insistere su un altro aspetto della vergognosa istruttoria che mi
riguarda: il vostro tentativo di sostenere l'accusa con false prove, elementi non
veri, testimonianze precostituite o imposte ai testimoni di entrambe le parti.
Questa mia apologia infatti non vuole essere un'autodifesa, e non lo sarà.
Vuole essere piuttosto una requisitoria, e lo sarà: partendo proprio dal falso
documento che mi viene attribuito e che è stato il filo conduttore dell'intero
processo. Documento importante, a mio avviso, perché tipico di tutti i processi
che si svolgono nei paesi dove la legge viene uccisa insieme alla libertà.
Non siete
soli in questa ignominia, no.
Sicuramente,
mentre vi parlo, patrioti di altri paesi senza legge e senza libertà vengono giudicati
da una Corte marziale asservita a un regime tirannico e condannati sulle basi
di false prove, elementi non veri, testimonianze precostituite o imposte ai testimoni,
confessioni simili alla confessione che io non ho mai reso e mai firmato: come
dimostra il fatto che essa non porta la mia firma bensì quella di due aguzzini
che si chiamano Hazizikis e Teofilojannacos.
Aguzzini
privi di rispetto per la grammatica, oltretutto. Stanotte ho potuto leggere quei
fogli, infine, e sarebbe difficile dire se ho rabbrividito di più per le
menzogne o per gli errori sfondoni grammaticali che essi contengono.
Se li
avessi visti prima, vi assicuro, anche in stato di coma avrei suggerito qualche
correzione. ahimè, di quali analfabeti dispone questo regime! Si direbbe che
l'ignoranza vada di pari passo con la crudeltà.
Ebbene,
signori della Corte marziale, voi sapete benissimo che servirsi di un documento
falso è inaccettabile sia da un lato morale che da un lato legale. E poiché
questo processo era stato costruito su tale documento, io avrei avuto il diritto
di invalidarlo. Non l'ho invalidato perché non volevo indurvi a credere che
avessi paura di affrontare l'accusa.
Chiaro che
accetto l'accusa.
Non l'ho mai
respinta, io.
Ne durante l'interrogatorio
ne dinanzi a voi. E ora ripeto con orgoglio: sì, ho sistemato io gli esplosivi,
ho fatto saltare io le due mine. Allo scopo di uccidere colui che chiamate ministro
dell’interno. E mi dolgo soltanto di non esser riuscito ad ucciderlo. Da tre mesi
quella è la mia pena più grande, da tre mesi mi chiedo con dolore dove ho sbagliato
e darei l'anima per tornare indietro, riuscirvi.
Quindi non è
l'accusa in se che provoca la mia indignazione: è il fatto che attraverso quei
fogli si tenti di infangarmi dichiarando che sarei stato io a coinvolgere gli
altri imputati, a fare i nomi che sono stati pronunciati in quest'aula. Ad
esempio il nome del ministro cipriota Policarpo Gheorgazis. L'infamia sta qui,
ed anche la sua tipicità. Per rafforzarla i miei accusatori hanno perfino detto
che la mia fedina penale era sporca, che io ero un teddy boy da ragazzo, un
malvivente da adulto, un ladrone e un mercenario. La mia fedina penale è
dinanzi a voi, signori della Corte marziale, e potete controllare su quella che
io non fui mai un teddy boy, ne un malvivente ne un ladrone ne un mercenario.
Fui sempre, e sono, un combattente che lotta per una Grecia migliore, un domani
migliore, una società insomma che creda nell'Uomo.
Se io mi trovo
qui è perché credo nell'Uomo. E credere nell'Uomo significa credere nella sua
libertà. Libertà di pensiero, di parola, di critica, di opposizione: tutto ci
che il golpe fascista di Papadopulos ha eliminato un anno fa. Ed eccoci alla prima
accusa che mi viene mossa. La prima accusa, anche in ordine di importanza, è
tentata sovversione dello Stato: articolo 509 del Codice Penale. E non è
paradossale che a muoverla contro di me siano proprio coloro che il 21 aprile
1967 infransero l'articolo 509?
Chi dovrebbe
stare dunque in questa gabbia?
Io o loro?
Qualsiasi cittadino
con un po' di cervello e un po' di coglioni vi risponderebbe: loro. E aggiungerebbe
ci che ora aggiungo: diventando un fuorilegge, rifiutandomi di riconoscere l'autorità
del tiranno, io ho rispettato e non offeso l'articolo 509. Ma non m'illudo
d'esser compreso da voi su tale punto perché, se il golpe fosse fallito, anche
voi sareste in questa gabbia, signori della Corte: non solo i capi della
Giunta. Perciò non dico altro, su questo, e passo alla seconda accusa:
diserzione.
È vero: ho disertato.
Qualche
giorno dopo il golpe ho abbandonato la mia unità e sono andato all'estero con
un passaporto falso. Avrei dovuto farlo lo stesso giorno del golpe, non dopo.
Ma in quel senso devo essere assolto: il giorno del golpe la situazione era
assai tesa con la Turchia e, se fosse scoppiata la guerra, il mio dovere di
greco sarebbe stato combattere e non disertare. Proprio perché la guerra non
scoppi mi affrettai a compiere l'altro dovere: disertare.
Signori della
Corte, servire l'esercito di una dittatura, sì che sarebbe stato un tradimento.
Scelsi d'essere disertore, dunque, sono fiero della mia scelta, e detto ciò eccoci all'accusa che a voi preme di più: tentato omicidio del capo di Stato. Incomincerò
affermando che contrariamente alle ciance narrate dai miei aguzzini, io non amo
la violenza. La odio. Non mi piace nemmeno l'assassinio politico. Quando esso avviene in un paese dove esiste
un libero Parlamento e ai cittadini è data la libertà di esprimersi, di
opporsi, di pensare in maniera diversa, io lo condanno con disgusto e con ira.
Ma quando
un governo si impone con la violenza e con la violenza impedisce ai cittadini
di esprimersi, di opporsi, addirittura di pensare, allora ricorrere alla violenza
è una necessità. Anzi un imperativo. Gesù Cristo e Gandhi ve lo spiegherebbero
meglio di me…
(Fallaci,
un Uomo)
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