giovedì 25 aprile 2013
STORIA UNIVERSALE DELL'INFAMIA (16)
Precedente capitolo:
storia universale dell'infamia: religione, morale, politica...(15)
Prosegue in:
storia universale dell'infamia: Gang & Teatri (17)
Da ciò viene anche la mancata denuncia, parendo questa più
immorale che non l'omicidio; sicché si sono veduti moribondi
dissimulare, fino all'ultimo momento, il nome del feritore o ta-
glieggiatore.
Non è l'omicidio che fa orrore, bensì la giustizia.
Onde è che anche quando il delitto, per raro caso, è denun-
ciato, non è punito: così, su 150 briganti del Napoletano, pre-
si coll'arme indosso, 107 furono prosciolti dal giurì, e solo 7
condannati.
Così, a Trapani si lamenta ancora la solenne assoluzione dei
40 malfattori messinesi; e nel 1874 si assolsero gli uccisori del-
l'ispettore finanziario Manfroni, malgrado le testimonianze ocu-
lari e le confessioni degli stessi rei.
Riuscendo la giustizia impotente, l'offeso ricorreva necessaria-
mente alla forza del proprio braccio o a quella dei compagni,
alla vendetta, quando era questione di onore; o ad una compo-
sizione propria, come nelle epoche medio-evali, quando si trat-
tava di oggetti rubati.
In Sicilia si paga un tanto, come si vede nel processo del Lom-
bardo, per riavere il cavallo o la pecora rubata; o viceversa, il
ladro paga un tanto alla vittima, perché si accontenti, o non si
vendichi, o non reclami il furto; il che dà proprio l'immagine del-
la giustizia primitiva.
Una causa principalissima che nei popoli civili favorisce le asso-
ciazioni malvagie, è lo straordinario prestigio che ispira ai debo-
li la forza brutale.
Chi ha veduto, una volta, un vero camorrista dai muscoli di ferro,
dal cipiglio più che marziale, dalla pronuncia con 'rr' raddoppiata,
in mezzo alle popolazioni dalle molli carni, dalla pronuncia vocaliz-
zata, dall'indole mite, comprende, subito, come se anche non fos-
se stato importato, qualche morbo simile alla camorra avrebbe do-
vuto sorgere dalla troppa sproporzione fra alcune individualità ener-
giche, e le moltitudini docili e molli.
Lo stesso camorrista, involontariamente, cede a questa legge; fi-
glio della forza e della prepotenza mascherata da astuzia che vor-
rebbe essere intelligenza, si inchina davanti ad una forza maggio-
re della sua.
Una prova curiosissima di questa influenza si ha in un fatto raccolto
dal Monnier: un prete calabrese cacciato in prigione per avventure
galanti, fu richiesto al suo ingresso della solita tassa dal camorrista;
rifiutò, ed alle minacce del settario rispose, che se avesse un'arme
in mano, niuno avrebbe avuto il coraggio di minacciarlo a quel mo-
do.
'Non c'è difficoltà', rispose il camorrista, e in un batter d'occhio gli
offerse due coltelli. Ma dopo pochi colpi egli era freddato. Alla se-
ra, il povero uccisore, che tremava della vendetta settaria, più as-
sai che della giustizia borbonica, con sua grande sorpresa si trovò
invece offerto il 'barattolo' della camorra.
Era, senza volerlo, stato ammesso fra i camorristi. E così accadde
ad un Calabrese, che si rifiutò di pagare la tassa, e minacciò di col-
tello il camorrista.
La camorra è dunque l'espressione della naturale prepotenza di chi
si sente forte in mezzo a moltissimi che si sentono deboli. Ma non
è solo la forza dei pochi che la mantiene, è soprattutto la paura dei
molti.
Monnier spiega la grande tenacità della camorra e del brigantaggio
nell'Italia meridionale pel predominio della paura; la religione, inspi-
rata dai preti, null'altro era che la paura del diavolo; la politica, null'-
altro che la paura del re, il quale teneva la borghesia oppressa colla
minaccia dei lazzaroni, e gli uni e gli altri, colla paura di una polizia
e di una soldataglia spietata.
La paura teneva il luogo della conoscenza e dell'amore al dovere;
si otteneva l'ordine, non rialzando l'uomo, ma deprimendolo.
Che ne avvenne?
La paura fu undustriosamente usata dai violenti e dai malfattori e
quindi dai mafiosi......
(C. Lambroso)
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