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Predica della domenica
Dalla sofferenza nasce la serietà della mente; dalla salvazione il
cuore riconoscente; dalla sopportazione la fortezza; dalla liberazione la fede;
ma quando le nazioni hanno imparato a vivere sotto la tutela delle leggi, con
decoro e giustizia e riguardo scambievole, e quando si sono liberate dai fomiti
esterni e violenti di sofferenza, mali peggiori paiono scaturire dalla loro
quiete; mali che sferzano meno ma mortificano di più, che succhiano il sangue,
anche se non ne versano, e ossificano il cuore, anche se non lo mettono alla
tortura. E per quanti motivi di riconoscenza abbia un popolo in pace con gli
altri e unito al suo interno, ha anche motivi di timore, d’un timore più grande
di quel che ispirano la spada e la sedizione: che possa cadere nel
dimenticatoio la nostra dipendenza da Dio, perché il pane è certo e l’acqua
sicura; che possiamo cessare d’essergli grati, perché la costanza della sua
protezione ha preso le sembianze di una legge di natura; che la speranza nelle
cose del cielo s’indebolisca, quando si consumano con pienezza quelle del
mondo; che l’egoismo possa sostituirsi alla devozione spontanea, la compassione
sia dissolta dalla vanagloria, e l’amore dalla dissimulazione; che la
fiacchezza succeda alla forza, l’apatia alla pazienza, e un rumore di parole
sarcastiche, una sciacquatura di pensieri bui, alla purezza, alla serietà della
cintura stretta ai lombi e della lampada accesa.
Sul fiume della vita dell’uomo soffia un vento rigido, anche se splende
un sole celestiale; l’iris dà colore alla sua agitazione, il gelo si forma sul
suo riposo. Facciamo attenzione che il nostro riposo non divenga come il riposo
delle pietre, che finché il torrente le fa rotolare e il fulmine le colpisce
serbano la loro maestà, ma quando la corrente tace e la bufera passa, lasciano
che l’erba le ricopra e il lichene prosperi su di loro, e la polvere le
seppellisce.
E per quanto io creda che ci sia abbastanza sale di menti piene
d’ardore e santità da preservarci almeno in parte dagli effetti di questa
(immane) decadenza morale, i segni d’essa, però vanno sorvegliati con ansia, in
tutte le questioni per quanto banali, in tutte le direzioni per quanto lontane.
E in quest’epoca in cui le strade ferrate straziano la superficie d’Europa come
la mitraglia le onde del mare; quando la loro grande rete ne impiglia e spreme
l’antica impalcatura e l’antica forza, comprimendole tutte le svariate forme di
vita, delle montagne che n’erano le braccia alle campagne che n’erano il cuore,
in una esigua, limitata, calcolatrice metropoli di manifatture; quando non un
solo antico monumento esiste nelle città d’Europa che parli dei tempi passati e
di popoli possenti e che non sia sul punto d’essere spazzato via per costruire
al suo posto caffè e case da gioco; quando si pensa che l’onore di Dio consista
nella povertà del Suo tempio, e la colonna viene scorciata, il pinnacolo
abbattuto, il colore negato alla vetrata e il marmo all’altare, mentre si
svuotano le casse per il lusso dei ‘boudoirs’ e l’ostentazione dei saloni di
ricevimento; quando devastiamo senza mai rifiatare la bellezza di quella
creazione che Dio, una volta compiuta, chiamò ‘buona’, e distruggiamo senza un
ripensamento opere cui gli uomini dedicarono la propria vita intera e quella
dei loro figli, e che hanno lasciato in eredità a tutta la loro specie,
un’eredità di sangue ma non solo, perché è piuttosto il frutto dei travagli
delle loro anime; ecco che c’è bisogno, acuto bisogno di far risovvenire agli
uomini che vivere è niente, se vivere non è conoscere Colui dal quale abbiamo
la vita; e che Egli non si conosce sfigurando le opere, e confondendo la
traccia del Suo riflesso sopra le Sue Creature; né in mezzo alle folle
frettolose o al frastuono delle innovazioni, ma in luoghi solitari, e per mezzo
delle radiose intelligenze che Egli diede agli uomini d’un tempo.
Egli non insegnò loro a costruire per la gloria e la bellezza; non
diede loro quelle coraggiose, fiduciose energie ereditarie che mettevano al
lavoro da morte a morte, generazione dopo generazione, così che noi potessimo
consegnare l’opera e l’espressione del loro spirito all’ascia e al martello.
Egli non ha trapunto la terra di fiumi, in modo che le loro bianche
libere onde potessero far girare ruote e spingere remi, né al di sotto
l’avrebbe sconvolta come il fuoco perché potesse scaldare le sorgenti e curare
le malattie; non porta le Sue quaglie sul vento dell’est soltanto per farle
cadere, morte e commestibili (neppure i suoi lupi per lasciarli al fuoco
incrociato e convulso del predicatore accompagnato al suo carnefice…)
sull’accampamento degli uomini.
Egli non ha formato la roccia delle montagne soltanto perché vi si
aprano le cave, né vestito l’erba dei campi soltanto per l’essiccatore; né le
parole dettate dalla natura al poeta per essere barattate per la più meschina
bugia…
(J. Ruskin)
(J. Ruskin)
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