giuliano

domenica 6 aprile 2014

PREDICA DELLA DOMENICA (2)










































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Predica della domenica














Dalla sofferenza nasce la serietà della mente; dalla salvazione il cuore riconoscente; dalla sopportazione la fortezza; dalla liberazione la fede; ma quando le nazioni hanno imparato a vivere sotto la tutela delle leggi, con decoro e giustizia e riguardo scambievole, e quando si sono liberate dai fomiti esterni e violenti di sofferenza, mali peggiori paiono scaturire dalla loro quiete; mali che sferzano meno ma mortificano di più, che succhiano il sangue, anche se non ne versano, e ossificano il cuore, anche se non lo mettono alla tortura. E per quanti motivi di riconoscenza abbia un popolo in pace con gli altri e unito al suo interno, ha anche motivi di timore, d’un timore più grande di quel che ispirano la spada e la sedizione: che possa cadere nel dimenticatoio la nostra dipendenza da Dio, perché il pane è certo e l’acqua sicura; che possiamo cessare d’essergli grati, perché la costanza della sua protezione ha preso le sembianze di una legge di natura; che la speranza nelle cose del cielo s’indebolisca, quando si consumano con pienezza quelle del mondo; che l’egoismo possa sostituirsi alla devozione spontanea, la compassione sia dissolta dalla vanagloria, e l’amore dalla dissimulazione; che la fiacchezza succeda alla forza, l’apatia alla pazienza, e un rumore di parole sarcastiche, una sciacquatura di pensieri bui, alla purezza, alla serietà della cintura stretta ai lombi e della lampada accesa.




Sul fiume della vita dell’uomo soffia un vento rigido, anche se splende un sole celestiale; l’iris dà colore alla sua agitazione, il gelo si forma sul suo riposo. Facciamo attenzione che il nostro riposo non divenga come il riposo delle pietre, che finché il torrente le fa rotolare e il fulmine le colpisce serbano la loro maestà, ma quando la corrente tace e la bufera passa, lasciano che l’erba le ricopra e il lichene prosperi su di loro, e la polvere le seppellisce.




E per quanto io creda che ci sia abbastanza sale di menti piene d’ardore e santità da preservarci almeno in parte dagli effetti di questa (immane) decadenza morale, i segni d’essa, però vanno sorvegliati con ansia, in tutte le questioni per quanto banali, in tutte le direzioni per quanto lontane. E in quest’epoca in cui le strade ferrate straziano la superficie d’Europa come la mitraglia le onde del mare; quando la loro grande rete ne impiglia e spreme l’antica impalcatura e l’antica forza, comprimendole tutte le svariate forme di vita, delle montagne che n’erano le braccia alle campagne che n’erano il cuore, in una esigua, limitata, calcolatrice metropoli di manifatture; quando non un solo antico monumento esiste nelle città d’Europa che parli dei tempi passati e di popoli possenti e che non sia sul punto d’essere spazzato via per costruire al suo posto caffè e case da gioco; quando si pensa che l’onore di Dio consista nella povertà del Suo tempio, e la colonna viene scorciata, il pinnacolo abbattuto, il colore negato alla vetrata e il marmo all’altare, mentre si svuotano le casse per il lusso dei ‘boudoirs’ e l’ostentazione dei saloni di ricevimento; quando devastiamo senza mai rifiatare la bellezza di quella creazione che Dio, una volta compiuta, chiamò ‘buona’, e distruggiamo senza un ripensamento opere cui gli uomini dedicarono la propria vita intera e quella dei loro figli, e che hanno lasciato in eredità a tutta la loro specie, un’eredità di sangue ma non solo, perché è piuttosto il frutto dei travagli delle loro anime; ecco che c’è bisogno, acuto bisogno di far risovvenire agli uomini che vivere è niente, se vivere non è conoscere Colui dal quale abbiamo la vita; e che Egli non si conosce sfigurando le opere, e confondendo la traccia del Suo riflesso sopra le Sue Creature; né in mezzo alle folle frettolose o al frastuono delle innovazioni, ma in luoghi solitari, e per mezzo delle radiose intelligenze che Egli diede agli uomini d’un tempo.




Egli non insegnò loro a costruire per la gloria e la bellezza; non diede loro quelle coraggiose, fiduciose energie ereditarie che mettevano al lavoro da morte a morte, generazione dopo generazione, così che noi potessimo consegnare l’opera e l’espressione del loro spirito all’ascia e al martello.
Egli non ha trapunto la terra di fiumi, in modo che le loro bianche libere onde potessero far girare ruote e spingere remi, né al di sotto l’avrebbe sconvolta come il fuoco perché potesse scaldare le sorgenti e curare le malattie; non porta le Sue quaglie sul vento dell’est soltanto per farle cadere, morte e commestibili (neppure i suoi lupi per lasciarli al fuoco incrociato e convulso del predicatore accompagnato al suo carnefice…) sull’accampamento degli uomini.
Egli non ha formato la roccia delle montagne soltanto perché vi si aprano le cave, né vestito l’erba dei campi soltanto per l’essiccatore; né le parole dettate dalla natura al poeta per essere barattate per la più meschina bugia… 

(J. Ruskin)
















  

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