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Cosa è il progresso? (3/1)
....Il suolo produca raccolti abbondanti; con la sua scure abbatte a caso
nei boschetti gli alberi che lo intralciano, mutila vergognosamente gli altri e
dà loro l’aspetto di pali e di scope. Vaste regioni, che un tempo erano belle a
vedersi e piacevoli da percorrere, sono completamente deturpate; si prova un
sentimento di vera ripugnanza a guardarle. D’altronde, capita spesso che
l’agricoltore, privo di scienza come di amore per la natura, si inganni nei
suoi calcoli e sia causa della propria rovina con le modifiche che introduce
senza saperlo nel clima.
Ugualmente, poco importa all’industriale, che gestisce la sua miniera o
la sua fabbrica in aperta campagna, di annerire l’atmosfera con le esalazioni
del carbon-fossile e di inquinarla con vapori pestilenziali. Senza parlare
dell’Inghilterra, esiste nell’Europa occidentale un gran numero di valli industriali
la cui aria densa è quasi irrespirabile per gli stranieri; le case sono nere di
fumo, le foglie stesse degli alberi ricoperte di fuliggine; quando si guarda il
sole, è sempre attraverso una spessa foschia che la sua faccia ingiallita si
mostra.
Quanto all’ingegnere, i suoi ponti e i suoi viadotti sono sempre gli
stessi nella pianura più uniforme come nelle gole delle montagne più scoscese;
non si preoccupa di mettere le sue costruzioni in armonia col paesaggio, ma
unicamente di equilibrare le sollecitazioni e la resistenza dei materiali.
Certamente è necessario che l’uomo s’impossessi della superficie della
Terra e sappia utilizzarne le risorse; tuttavia non possiamo fare a meno di
rammaricarci della brutalità con la quale si compie questa presa di possesso.
Perciò, quando il geologo Marcou ci informa che la cascata americana del
Niagara ha diminuito sensibilmente la sua portata e perso la sua bellezza da
quando è stata salassata per mettere in moto le fabbriche circostanti, pensiamo
con tristezza all’epoca, a noi ancora molto vicina, in cui le acque
precipitavano liberamente dall’alto delle sue scogliere, tra due pareti di
rocce tutte piene di grandi alberi, con un fragore sconosciuto all’uomo
civilizzato.
Allo stesso modo, ci si chiede se le vaste praterie e le libere
foreste, dove con gli occhi dell’immaginazione vediamo ancora le nobili figure
di Ghingashcook e di Calza-di-Cuio, non avrebbero potuto essere sostituite
altrimenti che da campi, tutti di uguale superficie, tutti orientati verso i quattro
punti cardinali, conformemente al catasto, tutti regolarmente circondati da
recinti della stessa altezza.
La natura selvaggia è così bella!
E’ dunque necessario che l’uomo, impadronendosene, proceda
geometricamente allo sfruttamento di ogni nuovo terreno conquistato e segni la
presa di possesso con costruzioni volgari e con confini di proprietà tracciati
a filo?
Se così fosse, gli armoniosi contrasti che sono una delle bellezze
della Terra, farebbero presto spazio a una desolante uniformità, perché la
società, che aumenta ogni anno di almeno una decina di milioni di uomini e
dispone, grazie alla scienza e all’industria, di una forza che cresce in
proporzioni prodigiose, procede rapidamente alla conquista di tutta la
superficie terrestre.
E’ vicino il giorno in cui non resterà più una sola regione dei
continenti che non sia stata visitata dal pioniere civilizzato; presto o tardi
il lavoro verrà esercitato su tutti i punti del globo. Fortunatamente il bello e l’utile possono
unirsi nel modo più completo; è proprio nei Paesi in cui l’industria agricola è
più avanzata, come in Inghilterra, in Lombardia e in certe zone della Svizzera,
che chi sfrutta il suolo sa fargli rendere la maggior quantità di prodotti, pur
rispettandone il fascino dei paesaggi o addirittura accrescendo con arte la
loro bellezza. Le paludi e gli acquitrini delle Fiandre, trasformate col
drenaggio in campagne di esuberante fertilità, la pietrosa Crau mutata, grazie
ai canali di irrigazione, in una magnifica prateria, i fianchi rocciosi degli
Appennini e delle Alpi Marittime nascosti da cima a fondo sotto il fogliame
degli ulivi, le torbiere rossastre dell’Irlanda sostituite da foreste di
larici, cedri e abeti argentati, non sono forse ammirevoli esempi di quel
potere che ha l’agricoltura di sfruttare la terra a suo vantaggio, pur
rendendola più bella?
Nello sfruttamento della terra, sapere che cosa serva ad abbellire o
contribuisca a degradare la natura circostante può sembrare una questione
futile a menti sedicenti positive; ciò ha nondimeno una importanza di
prim’ordine. Gli sviluppi dell’umanità si intrecciano nel modo più stretto con
la natura circostante. Un’armonia segreta si stabilisce tra la terra e i popoli
che essa nutre; quando le società sconsiderate si permettono di manomettere ciò
che determina la bellezza del loro territorio, finiscono sempre col pentirsene.
Là dove il suolo è stato deturpato, là dove ogni poesia è scomparsa dal
paesaggio, ivi si è estinta l’immaginazione, la mente sí è impoverita e la
routine e il servilismo si sono impadroniti dell’anima inducendola al torpore e
alla morte.
Tra le principali cause della decadenza di tante civiltà successive,
bisognerebbe mettere al primo posto la brutale violenza con cui gran parte
delle nazioni hanno trattato la Terra nutrice.
Hanno abbattuto le foreste, hanno fatto inaridire le sorgenti e
straripare i fiumi, hanno inquinato il clima, hanno circondato le città di zone
paludose e pestilenziali; quando poi la natura da loro profanata è diventata
ostile, l’hanno presa in odio e, non potendo ritemprarsi come il selvaggio
nella vita delle foreste, si sono lasciati sempre più abbrutire dal dispotismo
dei preti e dei re. I latifondi hanno rovinato l’Italia, ha detto Plinio; ma
bisogna aggiungere che questi grandi possedimenti, coltivati da mani schiave,
avevano imbruttito il suolo come una lebbra. Gli storici, colpiti dalla
sorprendente decadenza della Spagna dopo Carlo V, hanno cercato di spiegarla in
diversi modi. Per alcuni, la causa principale di questa rovina della nazione fu
la scoperta dell’oro in America; per altri, fu il terrore religioso organizzato
dalla Santa Fratellanza dell’Inquisizione, l’espulsione degli ebrei e dei mori,
i sanguinosi auto-da-fè degli eretici. Il crollo della Spagna è stato anche
attribuito all’iniqua imposta dell’ alcabala e alla centralizzazione dispotica
alla francese; ma quella specie di furore col quale gli spagnoli hanno
abbattuto gli alberi per paura degli uccelli, por miedo de los pajaritos, non
c’entra dunque niente in questa terribile decadenza?
La terra gialla, pietrosa e nuda ha assunto un aspetto ripugnante e
terribile; il suolo si è impoverito, la popolazione, diminuendo per due secoli,
è ricaduta parzialmente nella barbarie….
(E. Reclus, Natura e Società)
Spesso è bene concludere tornando
all’inizio.
In questo caso torniamo all’apertura di L’Homme et la Terre e
all’inizio dell’intera problematica di Reclus come pensatore e uomo. Ripartiamo
dalla figura delle mani che sorreggono la Terra. Un’attenta analisi di
quest’immagine può rivelarci molto degli aspetti più essenziali della visione
reclusiana.
Guardando attentamente, in questo quadro si scoprono due dimensioni.
La prima è che la Terra è tenuta sollevata, come se fosse un oggetto
sacrale, un oggetto da riverire, da venerare, da amare profondamente, da
rispettare.
La seconda, quella forse più evidente ad una prima occhiata, è che
l’immagine ritrae la Terra nelle mani di un’umanità personificata.
Si evidenzia così la nostra responsabilità nei confronti della Terra e
l’esigenza di raggiungere quell’autocoscienza incarnata nell’immagine
dell’umanità. Questi due aspetti colgono bene i due poli dell’immaginario di
Reclus: l’immaginario ecologico che si esprime nella geografia sociale e quello
anarchico che si manifesta nella sua politica. In entrambi i casi siamo
sollecitati a portare più rispetto e più amore per tutto quello che è stato
oggettificato come altro.
Per un verso ci si chiede di coltivare questi sentimenti nei confronti
della natura, della Terra e di tutti gli esseri con cui conviviamo sul pianeta.
Per l’altro, ci si chiede di coltivarli per l’umanità, cioè per tutti
gli esseri umani, le razze, le classi, le comunità e i gruppi sociali che la
compongono. E, cosa altrettanto
importante, siamo tenuti a esprimere questi sentimenti nei fatti,
mettendo in pratica le nostre responsabilità verso tutto quello che si trova
tra queste due mani o su di esse.
Per un teorico dell’evoluzione sociale è alquanto straordinario mettere
l’accento, come fa Reclus, sul ruolo centrale dell’amore nella trasformazione
sociale. Si tratta, tuttavia, di un aspetto forte del suo pensiero che parla
direttamente alla crisi della nostra epoca. Per quanto valore possa avere
l’eterno messaggio di giustizia, esso è privo di rilevanza per le persone alle
quali poco o nulla importa. Il compito fondamentale per chi ama l’umanità e la
Terra, pertanto, è quello di aiutare tutti e ognuno a riscoprire i propri
legami con gli altri e con la natura.
Thomas Berry ha detto che l’umanità, perdendo contatto con il mondo
naturale, si è ammalata di autismo. Non riusciamo a renderci conto delle
devastazioni nella biosfera perché non ci rendiamo conto di niente di quello
che sta al di fuori del nostro limitatissimo mondo egocentrico. E non ci
accorgiamo nemmeno di vivere in un mondo di creazione, di rinascita, di
abbondanza dell’essere.
Le cose non cambiano se al posto di noi mettiamo un io.
Quello che spesso è definito antropocentrismo non è che l’espressione
collettiva di un ancor più essenziale egocentrismo da parte dei singoli
individui. Anche se c’è forse qualcosa di intrinseco nel nostro essere
egocentrici, che ci spingerà sempre verso l’egoismo, questa inclinazione è
trasformata dalle istituzioni sociali in una furia egoistica contro gli altri
esseri umani e contro la natura stessa.
La rilevanza di Reclus consiste nell’aver saputo coniugare la sua
visione generale con una notevole capacità d’analisi delle barriere sociali che
impediscono agli esseri umani di cogliere la totalità delle cose e di operare
in base a una visione dall’interno. La sua concezione olistica di
umanità-in-natura serve a tracciare una diagnosi della nostra malattia
egoistica e autistica, l’analisi delle istituzioni del potere (capitalismo,
Stato, patriarcato, razzismo) serve a capire che cosa c’è da cambiare per
curare il nostro autismo.
L’unica uscita dal vicolo cieco dell’egocentrismo è il processo di
autotrasformazione coniugato a quello di evoluzione/rivoluzione sociale.
L’eredità più durevole che Reclus ci ha lasciato è il suo contributo alla
conoscenza di noi stessi, in quanto esseri umani ed esseri viventi sulla Terra,
e alla rinascita di uno spirito di speranza e di creatività fattiva.
La sua importanza sta nell’aver saputo far convergere ragione,
sentimento e fantasia: logos, eros e poesis . Dalla sua opera si scorge in
prospettiva l’avvicinarsi del giorno in cui poesia, mito e leggenda entreranno
a pieno titolo nella dialettica insieme a ragione ed esperienza. Reclus parla
di rivoluzione, che nel suo immaginario è ancora la metafora che più ispira la
speranza. Ma grande è il suo contributo a una nuova visione del futuro che
affonda le radici nella metafora più ecologica della rigenerazione.
Egli punta alla rigenerazione di un io ricco di grande individualità e
tuttavia sociale, alla rigenerazione di una comunità libera e cooperativa, a
quella di una Terra olisticamente differenziata, dinamicamente equilibrata,
creativamente in evoluzione. Tale è la visione utopica al culmine della storia
umana e terrestre secondo la lettura che ne fa Reclus. Un regno della libertà
che abbraccia l’umanità e l’intero pianeta, la fine del dominio sull’umanità e
su tutti gli altri esseri viventi, la riacquisizione finale da parte
dell’umanità del suo armonioso e integro posto nella natura.
Libertà, uguaglianza,
geografia...