giuliano

martedì 4 agosto 2015

COSA E' IL PROGRESSO? (4)









































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Cosa è il progresso? (3/1)













....Il suolo produca raccolti abbondanti; con la sua scure abbatte a caso nei boschetti gli alberi che lo intralciano, mutila vergognosamente gli altri e dà loro l’aspetto di pali e di scope. Vaste regioni, che un tempo erano belle a vedersi e piacevoli da percorrere, sono completamente deturpate; si prova un sentimento di vera ripugnanza a guardarle. D’altronde, capita spesso che l’agricoltore, privo di scienza come di amore per la natura, si inganni nei suoi calcoli e sia causa della propria rovina con le modifiche che introduce senza saperlo nel clima.
Ugualmente, poco importa all’industriale, che gestisce la sua miniera o la sua fabbrica in aperta campagna, di annerire l’atmosfera con le esalazioni del carbon-fossile e di inquinarla con vapori pestilenziali. Senza parlare dell’Inghilterra, esiste nell’Europa occidentale un gran numero di valli industriali la cui aria densa è quasi irrespirabile per gli stranieri; le case sono nere di fumo, le foglie stesse degli alberi ricoperte di fuliggine; quando si guarda il sole, è sempre attraverso una spessa foschia che la sua faccia ingiallita si mostra.
Quanto all’ingegnere, i suoi ponti e i suoi viadotti sono sempre gli stessi nella pianura più uniforme come nelle gole delle montagne più scoscese; non si preoccupa di mettere le sue costruzioni in armonia col paesaggio, ma unicamente di equilibrare le sollecitazioni e la resistenza dei materiali.
Certamente è necessario che l’uomo s’impossessi della superficie della Terra e sappia utilizzarne le risorse; tuttavia non possiamo fare a meno di rammaricarci della brutalità con la quale si compie questa presa di possesso. Perciò, quando il geologo Marcou ci informa che la cascata americana del Niagara ha diminuito sensibilmente la sua portata e perso la sua bellezza da quando è stata salassata per mettere in moto le fabbriche circostanti, pensiamo con tristezza all’epoca, a noi ancora molto vicina, in cui le acque precipitavano liberamente dall’alto delle sue scogliere, tra due pareti di rocce tutte piene di grandi alberi, con un fragore sconosciuto all’uomo civilizzato.
Allo stesso modo, ci si chiede se le vaste praterie e le libere foreste, dove con gli occhi dell’immaginazione vediamo ancora le nobili figure di Ghingashcook e di Calza-di-Cuio, non avrebbero potuto essere sostituite altrimenti che da campi, tutti di uguale superficie, tutti orientati verso i quattro punti cardinali, conformemente al catasto, tutti regolarmente circondati da recinti della stessa altezza.
La natura selvaggia è così bella!




E’ dunque necessario che l’uomo, impadronendosene, proceda geometricamente allo sfruttamento di ogni nuovo terreno conquistato e segni la presa di possesso con costruzioni volgari e con confini di proprietà tracciati a filo?
Se così fosse, gli armoniosi contrasti che sono una delle bellezze della Terra, farebbero presto spazio a una desolante uniformità, perché la società, che aumenta ogni anno di almeno una decina di milioni di uomini e dispone, grazie alla scienza e all’industria, di una forza che cresce in proporzioni prodigiose, procede rapidamente alla conquista di tutta la superficie terrestre.
E’ vicino il giorno in cui non resterà più una sola regione dei continenti che non sia stata visitata dal pioniere civilizzato; presto o tardi il lavoro verrà esercitato su tutti i punti del globo.  Fortunatamente il bello e l’utile possono unirsi nel modo più completo; è proprio nei Paesi in cui l’industria agricola è più avanzata, come in Inghilterra, in Lombardia e in certe zone della Svizzera, che chi sfrutta il suolo sa fargli rendere la maggior quantità di prodotti, pur rispettandone il fascino dei paesaggi o addirittura accrescendo con arte la loro bellezza. Le paludi e gli acquitrini delle Fiandre, trasformate col drenaggio in campagne di esuberante fertilità, la pietrosa Crau mutata, grazie ai canali di irrigazione, in una magnifica prateria, i fianchi rocciosi degli Appennini e delle Alpi Marittime nascosti da cima a fondo sotto il fogliame degli ulivi, le torbiere rossastre dell’Irlanda sostituite da foreste di larici, cedri e abeti argentati, non sono forse ammirevoli esempi di quel potere che ha l’agricoltura di sfruttare la terra a suo vantaggio, pur rendendola più bella?
Nello sfruttamento della terra, sapere che cosa serva ad abbellire o contribuisca a degradare la natura circostante può sembrare una questione futile a menti sedicenti positive; ciò ha nondimeno una importanza di prim’ordine. Gli sviluppi dell’umanità si intrecciano nel modo più stretto con la natura circostante. Un’armonia segreta si stabilisce tra la terra e i popoli che essa nutre; quando le società sconsiderate si permettono di manomettere ciò che determina la bellezza del loro territorio, finiscono sempre col pentirsene.




Là dove il suolo è stato deturpato, là dove ogni poesia è scomparsa dal paesaggio, ivi si è estinta l’immaginazione, la mente sí è impoverita e la routine e il servilismo si sono impadroniti dell’anima inducendola al torpore e alla morte.
Tra le principali cause della decadenza di tante civiltà successive, bisognerebbe mettere al primo posto la brutale violenza con cui gran parte delle nazioni hanno trattato la Terra nutrice.
Hanno abbattuto le foreste, hanno fatto inaridire le sorgenti e straripare i fiumi, hanno inquinato il clima, hanno circondato le città di zone paludose e pestilenziali; quando poi la natura da loro profanata è diventata ostile, l’hanno presa in odio e, non potendo ritemprarsi come il selvaggio nella vita delle foreste, si sono lasciati sempre più abbrutire dal dispotismo dei preti e dei re. I latifondi hanno rovinato l’Italia, ha detto Plinio; ma bisogna aggiungere che questi grandi possedimenti, coltivati da mani schiave, avevano imbruttito il suolo come una lebbra. Gli storici, colpiti dalla sorprendente decadenza della Spagna dopo Carlo V, hanno cercato di spiegarla in diversi modi. Per alcuni, la causa principale di questa rovina della nazione fu la scoperta dell’oro in America; per altri, fu il terrore religioso organizzato dalla Santa Fratellanza dell’Inquisizione, l’espulsione degli ebrei e dei mori, i sanguinosi auto-da-fè degli eretici. Il crollo della Spagna è stato anche attribuito all’iniqua imposta dell’ alcabala e alla centralizzazione dispotica alla francese; ma quella specie di furore col quale gli spagnoli hanno abbattuto gli alberi per paura degli uccelli, por miedo de los pajaritos, non c’entra dunque niente in questa terribile decadenza?
La terra gialla, pietrosa e nuda ha assunto un aspetto ripugnante e terribile; il suolo si è impoverito, la popolazione, diminuendo per due secoli, è ricaduta parzialmente nella barbarie….
(E. Reclus, Natura e Società)





Spesso è bene concludere tornando all’inizio.
In questo caso torniamo all’apertura di L’Homme et la Terre e all’inizio dell’intera problematica di Reclus come pensatore e uomo. Ripartiamo dalla figura delle mani che sorreggono la Terra. Un’attenta analisi di quest’immagine può rivelarci molto degli aspetti più essenziali della visione reclusiana.
Guardando attentamente, in questo quadro si scoprono due dimensioni.
La prima è che la Terra è tenuta sollevata, come se fosse un oggetto sacrale, un oggetto da riverire, da venerare, da amare profondamente, da rispettare.
La seconda, quella forse più evidente ad una prima occhiata, è che l’immagine ritrae la Terra nelle mani di un’umanità personificata.
Si evidenzia così la nostra responsabilità nei confronti della Terra e l’esigenza di raggiungere quell’autocoscienza incarnata nell’immagine dell’umanità. Questi due aspetti colgono bene i due poli dell’immaginario di Reclus: l’immaginario ecologico che si esprime nella geografia sociale e quello anarchico che si manifesta nella sua politica. In entrambi i casi siamo sollecitati a portare più rispetto e più amore per tutto quello che è stato oggettificato come altro.
Per un verso ci si chiede di coltivare questi sentimenti nei confronti della natura, della Terra e di tutti gli esseri con cui conviviamo sul pianeta.
Per l’altro, ci si chiede di coltivarli per l’umanità, cioè per tutti gli esseri umani, le razze, le classi, le comunità e i gruppi sociali che la compongono. E, cosa altrettanto  importante, siamo tenuti a esprimere questi sentimenti nei fatti, mettendo in pratica le nostre responsabilità verso tutto quello che si trova tra queste due mani o su di esse.
Per un teorico dell’evoluzione sociale è alquanto straordinario mettere l’accento, come fa Reclus, sul ruolo centrale dell’amore nella trasformazione sociale. Si tratta, tuttavia, di un aspetto forte del suo pensiero che parla direttamente alla crisi della nostra epoca. Per quanto valore possa avere l’eterno messaggio di giustizia, esso è privo di rilevanza per le persone alle quali poco o nulla importa. Il compito fondamentale per chi ama l’umanità e la Terra, pertanto, è quello di aiutare tutti e ognuno a riscoprire i propri legami con gli altri e con la natura.
Thomas Berry ha detto che l’umanità, perdendo contatto con il mondo naturale, si è ammalata di autismo. Non riusciamo a renderci conto delle devastazioni nella biosfera perché non ci rendiamo conto di niente di quello che sta al di fuori del nostro limitatissimo mondo egocentrico. E non ci accorgiamo nemmeno di vivere in un mondo di creazione, di rinascita, di abbondanza dell’essere.
Le cose non cambiano se al posto di noi mettiamo un io.




Quello che spesso è definito antropocentrismo non è che l’espressione collettiva di un ancor più essenziale egocentrismo da parte dei singoli individui. Anche se c’è forse qualcosa di intrinseco nel nostro essere egocentrici, che ci spingerà sempre verso l’egoismo, questa inclinazione è trasformata dalle istituzioni sociali in una furia egoistica contro gli altri esseri umani e contro la natura stessa.
La rilevanza di Reclus consiste nell’aver saputo coniugare la sua visione generale con una notevole capacità d’analisi delle barriere sociali che impediscono agli esseri umani di cogliere la totalità delle cose e di operare in base a una visione dall’interno. La sua concezione olistica di umanità-in-natura serve a tracciare una diagnosi della nostra malattia egoistica e autistica, l’analisi delle istituzioni del potere (capitalismo, Stato, patriarcato, razzismo) serve a capire che cosa c’è da cambiare per curare il nostro autismo.
L’unica uscita dal vicolo cieco dell’egocentrismo è il processo di autotrasformazione coniugato a quello di evoluzione/rivoluzione sociale. L’eredità più durevole che Reclus ci ha lasciato è il suo contributo alla conoscenza di noi stessi, in quanto esseri umani ed esseri viventi sulla Terra, e alla rinascita di uno spirito di speranza e di creatività fattiva.
La sua importanza sta nell’aver saputo far convergere ragione, sentimento e fantasia: logos, eros e  poesis . Dalla sua opera si scorge in prospettiva l’avvicinarsi del giorno in cui poesia, mito e leggenda entreranno a pieno titolo nella dialettica insieme a ragione ed esperienza. Reclus parla di rivoluzione, che nel suo immaginario è ancora la metafora che più ispira la speranza. Ma grande è il suo contributo a una nuova visione del futuro che affonda le radici nella metafora più ecologica della rigenerazione.
Egli punta alla rigenerazione di un io ricco di grande individualità e tuttavia sociale, alla rigenerazione di una comunità libera e cooperativa, a quella di una Terra olisticamente differenziata, dinamicamente equilibrata, creativamente in evoluzione. Tale è la visione utopica al culmine della storia umana e terrestre secondo la lettura che ne fa Reclus. Un regno della libertà che abbraccia l’umanità e l’intero pianeta, la fine del dominio sull’umanità e su tutti gli altri esseri viventi, la riacquisizione finale da parte dell’umanità del suo armonioso e integro posto nella natura.


Libertà, uguaglianza, geografia...














  

sabato 1 agosto 2015

COSA E' IL PROGRESSO? (2)








































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Cosa è il progresso?

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Cosa è il progresso? (3)













Come dice la Bibbia, Dio guardò la sua opera e vide che era buona, persino molto buona.
Partendo da questo stato iniziale, contrassegnato dal sigillo della divinità, il movimento, sotto l’azione di uomini imperfetti, non può che continuare a svolgersi nel senso della decadenza e della caduta.
Il regresso è fatale.
Le creature finiscono per cadere dall’età dell’oro nell’età del ferro; escono dal paradiso, dove vivevano felici, per andare a sprofondare nelle acque del diluvio, da dove non riemergono che per vegetare da questo momento in poi.
D’altra parte, le istituzioni stabili delle monarchie e delle aristocrazie, tutti i culti ufficiali e chiusi, fondati e come murati dagli uomini che hanno la pretesa, persino la certezza, di avere realizzato la perfezione, presupponevano che ogni rivoluzione, ogni cambiamento dovesse essere una caduta, un ritorno alla barbarie.
Da parte loro, gli antenati e i padri, elogiatori del tempo che fu, contribuivano con gli Dèi e con i re a denigrare il presente rispetto al passato e ad inculcare nelle menti il pregiudizio della regressione. I figli tendono naturalmente a considerare come esseri superiori i genitori, che si sono comportati nello stesso modo coi loro padri; tutti questi sentimenti, depositati nelle menti come sedimenti alluvionali sulla riva di un fiume, finirono per eleggere a vero e proprio dogma l’irrimediabile decadenza degli uomini. Ancora ai nostri giorni, non è forse un’abitudine generale dissertare in prosa o in versi sulla corruzione del secolo?
Così, con una mancanza assoluta, anche se inconsapevole di logica, gli stessi che vantano i progressi irresistibili dell’umanità parlano volentieri della sua decadenza. Due correnti opposte si incrociano, nel linguaggio come nel modo di sentire. In effetti, le vecchie concezioni si scontrano con le nuove, persino in coloro che riflettono e che non parlano con leggerezza.




L’indebolimento delle religioni è interrotto da improvvisi risvegli; ma esse devono ugualmente cedere sotto la spinta di quelle teorie che spiegano la formazione dei mondi con una lenta evoluzione, un graduale emergere delle cose dal caos primitivo.
Ora, che fenomeno è questo, che lo si ammetta implicitamente, come fece Aristotele, o che lo si riconosca con termini precisi, eloquenti, come fece Lucrezio, se non, per definizione, il progresso stesso?
L’idea che ci sia stato progresso, nella durata delle brevi generazioni umane e nell’insieme dell’evoluzione degli uomini, fa presa sulle menti, soprattutto per il fatto che le ricerche geologiche ci hanno rivelato nella successione dei fenomeni, se non un piano divino, come si diceva una volta, per lo meno un’evoluzione naturale che affina sempre più la vita degli organismi via via più complessi.
Così, le prime forme di vita, di cui si vedono i resti o le tracce nelle assise più antiche della terra, presentano tratti rudimentali, uniformi, poco differenziati, che costituiscono come altrettanti abbozzi, sempre meglio riusciti, di specie che appariranno successivamente nella serie delle epoche. Le piante fogliose vengono dopo i vegetali privi di foglie; gli animali vertebrati seguono gli invertebrati; ciclo dopo ciclo, i cervelli si sviluppano; l’uomo, ultimo arrivato, ad eccezione tuttavia dei suoi parassiti, è il solo fra tutti gli animali che abbia acquisito con la parola la piena facoltà di esprimere il proprio pensiero e con il fuoco il potere di trasformare la natura.
Riportando la riflessione su un campo più ristretto, quello in cui la storia delle nazioni è circoscritta, il progresso generale non appare con la stessa evidenza; molte menti pessimiste hanno potuto sostenere che l’umanità non progredisce affatto, ma si muove soltanto, guadagnando da una parte e perdendo dall’altra, elevandosi con certi popoli, corrompendosi con altri. 




Nell’epoca stessa in cui i sociologi più ottimisti preparavano la Rivoluzione francese in nome dei progressi indefiniti dell’uomo, altri scrittori, impressionati dai racconti degli esploratori, sedotti dalla vita semplice di lontane popolazioni, parlavano di ritornare al genere di esistenza di questi primitivi. Ritornare alla natura è stato l’appello di Jean-Jacques e, cosa bizzarra, questo richiamo, pur in contrasto con quello dei Diritti dell’Uomo e della Repubblica, si ritrova nel linguaggio e nelle idee del tempo. I rivoluzionari vogliono ritornare sia ai secoli di Roma e di Sparta, sia ai tempi felici e puri delle tribù preistoriche. Un movimento analogo di ritorno alla natura si fa sentire ai giorni nostri, persino in modo più intenso che all’epoca di Rousseau, perché la società attuale, allargata sino ad abbracciare l’intera umanità, tende ad assimilare in maniera più profonda gli eterogenei elementi etnici da cui le civiltà progredite erano rimaste a lungo separate. D’altra parte, le ricerche antropologiche, gli studi sulla psicologia dei nostri fratelli primitivi, si sono spinti molto avanti e viaggiatori di prim’ordine hanno portato nella discussione il peso decisivo della loro testimonianza. Non ci si deve più basare solo su semplici e ingenui racconti, come quelli di un Jean de Lèry, di un Claude díAbbeville o di un Yves dí d’Evreux, sui Topinambous e su altri selvaggi brasiliani, racconti che, del resto, meritano di essere seriamente apprezzati. Si ha anche di meglio delle rapide osservazioni di un Cook o di un Bougainville: la documentazione si è arricchita di testimonianze molto scrupolose, ricavate da lunghe esperienze; tra le popolazioni che bisogna incontestabilmente porre molto in alto, fra gli uomini più vicini all’ideale di solidarietà e di amore reciproco, si deve annoverare una tribù classificata come primitiva, quella degli Aeta, che hanno valso il nome di Negros a una delle isole Filippine. Malgrado tutto il male che i bianchi hanno fatto loro, questi negritos o negretti sono rimasti gentili e benevoli nei confronti dei loro persecutori; è comunque soprattutto fra loro che si manifestano le virtù della razza. Tutti i membri della tribù si sentono fratelli, tanto che, alla nascita di un bambino, la grande famiglia si riunisce al completo per decidere su un nome di buon auspicio da dare al neonato. Le unioni coniugali, sempre monogame, dipendono dalla libera volontà degli sposi. Si curano i malati, i bambini, gli anziani con dedizione perfetta; nessuno esercita il potere, ma ci si inchina volentieri davanti all’anziano, per testimoniargli il rispetto dovuto alla sua esperienza e alla sua età avanzata.




Esiste una nazione in Europa o in America alla quale si possano rendere simili elogi?
Ma questa umile società dei buoni Aeta esiste ancora?
Ha potuto conservare i suoi nidi di ramaglie intrecciate e le sue capanne di canne o di palme malgrado i grandi safari di caccia americani?
Prendiamo un altro esempio tra gli uomini che hanno un giro d’orizzonte più vasto, fra quelle popolazioni che si avvicinano alla razza bianca e che, per il loro stesso genere di vita, sono costrette a passare una grande parte della loro esistenza fuori della capanna materna.
Gli Unungun, chiamati dai russi Aleuti, dal nome delle isole dove si sono stabiliti, abitano una regione di pioggia, di vento e di bufere; adattandosi all’ambiente, si costruiscono delle capanne per metà sotterranee, formate principalmente di rami intrecciati, ricoperti da una crosta di fango indurito, e illuminate in cima da una grossa lastra di ghiaccio. Le necessità dell’alimentazione hanno fatto degli Aleuti anche un popolo di pescatori, abili nel manovrare barche di pelle tesa, nelle quali si introducono come in un tamburo. I temibili mari che percorrono ne hanno fatto degli intrepidi marinai e dei sapienti divinatori di temporali. Alcuni, soprattutto i pescatori di balene, diventano veri e propri naturalisti che costituiscono una corporazione speciale, in cui si può entrare solo dopo un lungo periodo di prove. Gli Aleuti, come i loro vicini della terra ferma, sono scultori di singolare abilità; sono stati ritrovati oggetti molto curiosi nei loro ripari funerari, sotto le volte delle rocce. La complessità della vita aleutina si manifesta inoltre attraverso un codice di convenienze sociali, regolate con grande rigore dalla consuetudine, tra parenti, affini e stranieri. Giunti a questo gradino relativamente alto di civiltà, gli Aleuti sono rimasti fino ad epoca recente, grazie al loro isolamento, in uno stato di pace e di perfetto equilibrio sociale. I primi navigatori europei entrati in rapporto con loro ne decantano all’unanimità le qualità e le virtù.
L’arcivescovo Innokenti, meglio conosciuto con il nome di Veniaminov, che è stato testimone della loro esistenza per dieci anni, li dipinge come i più affettuosi degli uomini, come esseri di una modestia e di una discrezione incomparabili, che non si rendono mai colpevoli della minima violenza nel linguaggio o nelle azioni: durante i nostri anni di vita in comune, non una parola volgare è uscita dalle loro bocche. Non sono certo i nostri popoli dell’Occidente europeo che, sotto questo aspetto, potrebbero paragonarsi al piccolo popolo degli Aleuti!
Presso questi isolani lo spirito di solidarietà e la dignità della vita morale sarebbero stati tali da far sì che dei missionari ortodossi greci si rassegnassero a non tentare la loro conversione: a che pro insegnare loro le nostre preghiere?
Sono migliori di noi. 




A questi esempi scelti nei diversi stadi della civiltà, ognuno può aggiungerne altri, ugualmente significativi, tratti dai viaggi dei sociologi o dalle opere specifiche di etnologia. Si può così constatare un gran numero di casi nei quali la superiorità morale, come pure una valutazione più serena della vita, si riscontrano nelle società dette selvagge o barbare, di gran lunga inferiori alla nostra per la comprensione intellettuale delle cose. Nella spirale indefinita che l’umanità non cessa di percorrere, evolvendo su se stessa con un movimento continuo vagamente paragonabile alla rotazione della Terra, spesso è accaduto che certe parti del grande organismo si siano avvicinate molto più di altre al centro ideale dell’orbita.
La legge di questo andirivieni sarà forse un giorno conosciuta in tutta la sua precisione: attualmente, è sufficiente constatare i semplici fatti, senza voler trarre delle conclusioni premature e, soprattutto, senza accettare i paradossi di sociologi scoraggiati che vedono nei progressi materiali dell’umanità solo indizi della sua reale decadenza. Grandissime menti sembrano essersi abbandonate qualche volta a questa impressione. Il memorabile brano del ‘Malay arcipelago’, pubblicato nel 1869 da A.R. Wallace, non può essere considerato neppure come una sorta di manifesto, una sfida rivolta a coloro che hanno accettato senza restrizioni l’ipotesi del progresso indefinito dell’umanità. Questa sfida aspetta ancora la sua risposta. Non è dunque inutile ricordarne i termini e prenderli come elementi di paragone negli studi storici: se l’ideale sociale è l’armonia della libertà individuale con la volontà collettiva, realizzata attraverso lo sviluppo adeguatamente equilibrato delle nostre forze intellettuali, morali e fisiche, condizione in cui saremmo tutti e ognuno resi così idonei alla vita sociale, grazie alla conoscenza di ciò che è giusto e per l’irresistibile propensione a conformare ad esso la nostra condotta, che le restrizioni e le pene non avrebbero più alcuna ragione di esistere... non è forse sorprendente che in uno stadio molto...