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& una e più Domeniche....
con il guardiano del Gulag (18/20)
Lui
invece non era tuttavia soddisfatto della risposta, anzi irritato, e mi ha
risposto con ogni sorta di domande intese per ottenere una confessione dei
nostri reali scopi nell’andare in un paese come la Siberia. Alla fine disse con
crescente serietà e severità…
Ieri ti sei soffermato davanti all’articolata
prigione.
Sì,
ho
risposto.
Perché lo hai fatto?
…Stavamo salendo sulla collina per avere un panorama della città, del vostro grande immenso paese, ovvero là dove inizia il Paese decantato per finire alla Vista d’una Prigione di Stato… Ed anche procedendo al contrario… Direi che dipende molto dai punti di vista!
Ma tu non sei salito sulla collina,
hai semplicemente camminato e poi sei passato davanti all’articolata prigione,
guardando attentamente mentre passavi, e poi sei tornato.
Ho
spiegato che l’ora era tarda e che dopo essere passata il carcere abbiamo
deciso di rimandare la nostra escursione in vetta della collina fino al
mattino.
….Sia nell’andare che nel tornare,
…continuò,
tu... hai dedicato, anzi pensato con
tutta la tua attenzione alla prigione. Ed anche alla vigilata prigionia
d’ognuno. E questa mattina di nuovo alla stessa cosa. Ora, cosa stavi guardando?
Cerchi qualche carcerato o rifugiato politico. Sei anche tu un rifugiato?!
Quando ho capito da queste domande come abbiamo rischiato di cadere nei sospetti più infondati non meno di nuovi arresti (della Ragione), non ho potuto fare a meno di sorridere verso questo ufficiale con la testa completamente rasata; ma poiché non c’era alcunché di intelligente nel suo volto, e siccome tutti e quattro gli ufficiali sembravano considerarlo una sorta di duce, e noi al contrario un corteo di poveri esuli, Ragion per cui ho fornito di nuovo spiegazioni…
Dove stai in città?
Mi
ha chiesto uno degli agenti di polizia.
All’albergo del Mulino!
Ho risposto!
Quanto tempo intendi restare qui?
Secoli, noi viaggiamo da Secoli…
Dove hai imparato a parlare la nostra
lingua?
…chiese
il capo dei gendarmi, riprendendo a turno l’esame.
In Siberia,
ho
risposto.
Ci sei già stato prima?
Da Secoli! Paghiamo anche il dovuto
canone!
Cosa facevi in Siberia prima?
Sto
cercando di costruire una linea telegrafica senza fili utile anche per gli Esuli…
(G. Kennan)
Diecimila verste via terra all’andata e innumerevoli miglia marine al ritorno non erano bastate ad Anton Pavlovič Čechov per depistare la chandra, quel taedium vitae squisitamente russo che lo attanagliava e che lo aveva spinto ad affrontare il più inutile dei viaggi: a quello a Sachalin.
O, almeno,
le prime lettere inviate ai familiari al suo rientro (come quella citata,
scritta da Pietroburgo il 9 gennaio 1891
all’affezionatissima sorella Marija, cui Čechov si rivolge con un nomignolo)
restituiscono, più che il sollievo di chi torna in patria dopo una lunga
assenza, l’impressione di uno spaesamento difficile da superare. Dopo le fatiche di Sachalin e dei tropici,
aveva confidato qualche giorno prima all’editore e amico Aleksej Suvorin la mia vita moscovita mi sembra borghese e
noiosa al punto che darei un morso a qualcuno.
Eppure, l’avventura siberiana aveva messo lo scrittore allora trentenne in una posizione del tutto inattesa. Al suo ritorno, Čechov non sarà più solo l’autore di deliziosi raccontini umoristici adorati dal pubblico o di bizzarre pièce teatrali (come Ivanov e Lešij) che sembravano sfidare tutte le leggi della drammaturgia, ma anche l’unico letterato russo (Vlas Doroševič lo imiterà qualche anno dopo) a essersi sobbarcato i rischi di un faticoso viaggio in Estremo Oriente pur di vedere ciò che nessun intellettuale aveva mai visto, e cioè la colonia penale istituita dal regime zarista sull’isola di Sachalin nel 1869.
Non
stupisce dunque che un’eterogenea folla di visitatori e curiosi avesse
assediato la casa di Suvorin, dove Čechov
era solito trattenersi quand’era a Pietroburgo:
Attribuiscono al mio viaggio un’importanza che
mai mi sarei aspettato, arrivano perfino consiglieri di Stato, consiglieri di
Stato in carica! Tutti sono impazienti di leggere il mio libro e prevedono che
sarà un successo, e io non ho nemmeno il tempo di scriverlo....
In realtà, qualche pagina Čechov l’aveva buttata giù addirittura prima di partire, come risulta dalle missive in cui confessa di aver attinto a piene mani dalla letteratura scientifica sull’argomento per compilare un capitoletto sulla geografia dell’isola, che, ammetteva compiaciuto, non mi è venuto neppure tanto male.
In effetti,
i mesi precedenti la spedizione erano stati dedicati a uno studio matto e
disperatissimo che l’aveva assorbito completamente, consumando tutte le sue
energie. Con uno zelo degno di un dottorando, lo scrittore aveva raccolto dati
relativi alla composizione del suolo e ai venti, sfogliato le annate del
Morskoj sbornik a partire dal 1852,
schiavizzato i suoi familiari affinché andassero in biblioteca a trascrivere
per lui non tanto notiziole sparse, quanto quegli
elementi che caratterizzano l’atteggiamento della nostra società verso la
questione carceraria, come aveva precisato il 25 febbraio 1890 in una lettera al fratello maggiore Aleksandr. Una
sorta di ottenebramento mentale,
un’autentica Mania Sachalinosa, come
la definirà lui stesso, piegando il lessico medico alle esigenze
dell’autoironia. Ed è proprio alla Medicina – cioè a quella moglie legittima
che Čechov dichiarava di trascurare
impudentemente per l’amante Lettera tura – che il viaggio a Sachalin deve forse la sua origine.
Fiumi d’inchiostro sono stati versati sulle ragioni che avrebbero spinto lo scrittore a visitare la colonia penale, una ridda di ipotesi – dal dolore per la prematura morte del fratello Nikolaj al desiderio di smentire l’accusa di indifferentismo sociale mossagli dal critico populista Nikolaj Michajlovskij – a cui Čechov avrebbe probabilmente risposto rovesciando l’interrogativo:
Perché mai andare a Sachalin?
in:
Perché non andare a Sachalin?
‘Ammettiamo
pure che questo viaggio sia una sciocchezza, una cocciutaggine, una
stravaganza; ma riflettete un po’ e ditemi cosa perdo, facendolo.
Tempo?
Denaro?
Sarà uno
strapazzo?
Il mio
tempo non vale nulla, il denaro mi manca sempre, comunque sia; e quanto agli
strapazzi, viaggerò con i cavalli venticinque o trenta giorni al massimo’
– così
scriveva a Suvorin in una lettera datata 9
marzo 1890, nella quale difendeva con inusitata foga il suo progetto.
Respingendo le argomentazioni dell’editore, che l’aveva scongiurato di desistere da un’impresa così rischiosa e all’apparenza vana, Čechov replicava che Sachalin poteva essere priva d’interesse solo per una società che non vi avesse deportato migliaia di persone, spendendovi milioni di rubli….
(Anton Pavlovič Čechov)
(Prosegue con il capitolo completo)
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& il 'Giallo' del cieco armato
& con l'isola di Sachalin (16/7)
Potrebbero, uniti, nel visibile viaggio da ognuno consumato e goduto, tacitato e privato però, del retto nutrimento e arbitrio ragione dello Spirito, contestare anche la pretesa di chi ‘Nulla’ alla ‘materia’ da loro per sempre detta. Da quando, cioè, l’Universo nella Spirale evoluto, Sogno inquisito e braccato immagine del Primo Dio… e nella Spirale perito e taciuto nel Secondo… destino di un diverso ingegno!
Ricordate il martirio?
Ricordate il supplizio di chi pur nella doppia essenza urlava la prigione dello Spirito nel libero arbitrio inquisito?
Ricordate le urla confessioni di peccati mai consumati?
Ricordate o solo rimembrate il motivo di cotal Destino?
Ricordate le ultime parole pronunciate nei principi osservati prima che la cenere venga ad invadere gli incubi al fuoco comandati di chi in nome della dottrina partorì ogni peccato?
Ricordate l’esilio di chi smarrito?
Ricordate le leggi contrarie ad ogni Natura così taciuta?
Ricordate gli inganni cui la ‘materia’ uccide Dio?
Ricordate le urla mentre
veniva condotto schernito ed umiliato al patibolo, Teschio e specchio di
immondo creato?
Il Teschio ora illumina il volto impaurito di chi pensa la condanna inflitta, dimenticata e taciuta, per una diversa ‘religione’ pregata e… venduta! Sogni che vi appartengono, sogni della crosta che infiamma l’ora notturna in quanto non v’è moneta che potrà comprare il paradiso smarrito anche se sognate un diverso Dio! Non v’è prete o religione che potrà perdonare l’offesa ad ogni Elemento così condannato. Quando attraverso i boschi dell’umile Creato, nato da una Spirale di un Sogno perseguitato, l’immagine invade l’èstasi di chi giammai consumò peccato, solo Verità annunciata da uno Spirito prigioniero di un diverso Dio. Solo il miracolo pregato di appartenere al Principio di un Primo apparente ‘Nulla’ Dio perseguitato. Estasi e dimensione invisibile da loro giammai capita, ma linfa di vita restituita nell’elemento di cui privarono e privano la vita.
Chi fu l’eretico nella
bestemmia detta?
Non certo chi predicò un
diverso ‘verbo’ al tempio della ‘materia’, nell’apparente ‘errore’ di una
eretica vita vissuta… dettò principio invisibile alla loro preghiera. Fu
perseguitato, come colui che incarnato,
braccato per la Parola non conforme alla legge cui il popolo domina e
fa’ ‘libero mercato’ in nome del ‘verbo’ interpretato. Perì con il fuoco nel
sudore e tormento di un Tempo nato, consumato al calore di un Inferno quale
vita vissuta assente allo Spazio dimensione evoluta, Spirale di un dolore quale
martirio di un corpo alla Terra nato e vittima del loro peccato.
‘Anima mundi’ vittima del
loro ‘creato’.
Io che attraverso il bosco della vita ho udito la Rima dettata da chi privato della vita, mi dona Poesia e nell’èstasi quale pazzia condannata scorgo la verità dimenticata e barattata. Raccolgo le voci e la sublime bellezza di chi recita questa Preghiera. Raccolgo la certezza antica giammai Eretica giacché narra la vita. Con il perdono ringrazierò il vento, urla e vibra lungo ogni foglia, per dire, attraverso ogni ramo Parola udita dall’Anima mia, che in verità ciechi all’invisibile Prima bellezza per sempre inquisita punita e smarrita. E’ l’oro della sua e mia mattina all’alba della vita! Non fu’ errore, ma certezza di una diversa Dimensione pregata evoluta fino all’Eresia di chi preferì una diversa via. Chi mai prigioniero dell’istinto cella di un corpo nato dalla ‘materia’, ma bellezza del Creato giammai ammirato pregato o scorto per codesta Invisibile via…
Straniero quanto da lui
desiderato ed assente ad ogni peccato, mutato nell’ingegno figlio di un diverso
disegno creato. La verità sempre inquisita figlia di una coscienza scritta
nella Spirale di uno Spirito primo alla ‘materia’ su cui costruire l’araldo di
una guerra ragione della misera ed ‘umana’ natura……)
Narrai, all’inizio dello scritto, il motivo, cagione della volontà di ripercorrere tale via (tale Viaggio, tale testimonianza), risiedere nella Verità perseguitata di lasciare manifesta ed indubbia, per quanto certa testimonianza. Perché, anche se apostrofata negli accenti della poesia cui sfamo la dottrina dettata dal Sentiero della vita, questa (per ‘miracolo di Natura’, cui l’aguzzino crea Tempo avverso, materia serva della Storia… così nuovamente vissuta) diviene Rima (non datemene colpa), in quanto linfa, perché così la sintesi alla luce nell’onda creata dalla notte nata, la Verità spira vento quale elemento incarnato in risposta agli aguzzini paladini del Feudo attraversato.
‘Composti’ avversi che
soffocano ogni equilibrio evoluto, giacché l’ingegno giammai perso o smarrito,
da chi sa riporre giusta e saggia ragione sull’opera compiuta. In verità, il
Sentiero, colpa del big-bang della ‘materia’, è stato tradotto in ‘regione’ di
eterno tormento e tortura, motivo della Spirale descritta e così evoluta nel
torbido inferno ove reclamano ogni retta
natura smarrita e persa…
Solo bruciata al rogo di
una diversa creanza.
Solo inquisita alla
Spirale di una visibile dottrina.
Ogni Stagione della vita
perita al crocevia di una in-voluta dottrina.
Ogni elemento figlio
della sua prima natura braccato e condannato alla vista di chi cieco per sua
evoluta e dicono compiuta… natura.
Ragione della loro
‘materia’.
Chi pensa nemico.
Chi pensa custode di
dèmoni e diavoli troppo antichi per esser qui solo descritti o immaginati, in
quanto l’operosità di secolare ed infame memoria palesa la vera e ortodossa
cultura figlia di nessuna natura dalla Spirale cresciuta.
Con la guerra fummo e siamo taciuti, potenti nelle armature e nelle giostre astute. Nella guerra si riconoscono ‘evoluti’, nella ‘guerra’ per ogni via costruiscono la certezza di una vita esente da una diversa Rima. La guerra motivo movimento e dominio di chi in errore servo del proprio Dio, uccide ignaro della Parola taciuta in ogni miracolo inquisito. La guerra edificherà l’economia della materia evoluta, come il fuoco nato da un gas scomposto al principio della vita, costruirà la certezza per ogni vita cui la Natura affida il compito dell’eterna lotta. Per questo fummo anche Eretici perseguitati, tal motivo esula dal nostro Principio. Tal istinto esula dal nostro Dio… Il Bene ragione e comunione con ogni elemento nel quale la vita, non per nostro arbitrio, espressione di un conflitto a cui abdichiamo diverso Principio, lo Spirito prigioniero e subordinato al male incarnato… Questo, certo, fu un nostro peccato…
Preghiamo la perfezione di un Primo Creato!
Noi, scusatemi signori
‘campioni’, apparteniamo alla sublime bellezza dell’èstasi di un Primo Dio ove
non c’è materia a condire il pasto
rubato, doniamo linfa alla vostra via, doniamo verità indispensabile per ogni
peccato consumato, doniamo la vita bruciata al fuoco della vostra umana natura…
Noi, Dèi di un’altra
Dimensione precedente al Tempo narrato.
Guerra di chi custode e padrone di ogni falso principio accompagnato alla certezza di una materia evoluta entro il regno della violenza cresciuta in un ‘ratto’ di demoniaca memoria. La guerra principio e misura di ogni fugace calunnia che disconosce nel Viaggio dello Spirito la sua Prima Natura, ma al contrario, nella volontà annientatrice sulla Memoria per ogni secolare testimone abbattuto al loro passaggio, nello sforzo di volerla perseguire entro il confine certo di una dimensione visibile al loro creato, arde fuoco al salone araldo del dominio nella ricchezza custodito. La guerra condizione ideale affinché l’economia affermi l’insano principio manifestazione del conflitto quale grado di imporre il proprio ed altrui cammino sentiero di violenza specchio dell’antica natura… dalla ‘ragione’ evoluta. Non certo condizione da cui nella spirale dell’odio coniato e fabbricato l’uomo può riconoscere lo Stato (di quanto) creato, ma odio forgiato dal nulla di quanto seminato. L’odio seme di ogni violenza nel quale ogni falso dominio riconosce la capacità dell’intelligenza di quanto nulla coniato moneta del materiale creato.
Ragion per cui, quando
dissi e dico…, ribadisco per il vero i motivi della loro tortura, costante
negazione nel voler tacitare ogni diversa verità che palesa il paradosso sulla
dubbia ‘materia’ evoluta, antica gnosi di cui il mio nome va’ fiero! Motivi di
una guerra principio di ogni falso Dio pregato. Di ogni dèmone che bracca lo
Spirito di una Primo Dio. Ed ora qui scrivo a caratteri di sangue entro la
cella di codesto misero creato, entro la secolare cella che lo Spirito ha di
nuovo svelato, perché venuto a bussare alla porta di chi perseguitato: Natura
torturata costretta braccata umiliata conquistata e punita per giammai nessun
peccato consumato. Ora mentre scrivo codesto sangue della storia, lei geme il
caldo dell’inferno di cui apocalisse degna per la punizione del tormento…
arrecato…
L’esempio etnico e
antropologico fin qui detto, è riscontrabile nelle bellissime pagine di Fosco
Maraini, dove dal Tibet all’HinduKush ci ha reso impareggiabile testimonianza
di un mondo scomparso o mutato del tutto. Mutato il Tibet dopo l’avvento Cinese. Mutati il Pakistan e
l’Afghanistan. Anche se dal nostro punto di vista può apparire condizione
opposta di immutabilità stabile e duratura. E con loro molte e troppe civiltà
in nome di un unico ideale, non conforme al principio per il quale il nostro
Viaggio è motivato, e per cui ci siamo ispirati per una scelta che ci distingue
dai normali e soliti viaggiatori.
Infine un’ultima considerazione alla conclusione del presente capitolo, un punto non distante dal principio che ci ha riportato alla forma di una Spirale (il principio appunto), una enunciazione che ci deve essere chiara, cioè una differenza, appunto, fra noi esseri umani superiori, ed i cosiddetti animali inferiori appartenenti alla fauna, e il contesto dove traggono il loro sostentamento, la flora. E cioè che i secondi e terzi (flora e fauna) di unione e comunione naturale e priva di coscienza nonché di ‘anima-mundi’, come sosterrebbe l’eminente filosofo Haidegger nella sua metafisica, nello specifico stato di ‘povertà di mondo’ che li contraddistingue ed enumera in tale enunciazione, appartengono ad un tipo di evoluzione che potremmo riconoscere e tradurre in matematica come una ‘Spirale Equiangolare’; mentre il primo, l’uomo, che di conseguenza dovrebbe essere l’elemento privilegiato, in quanto in grado di riconoscere e tracciare queste differenze, rientra in una dinamica matematica appartenente al primo gruppo di spirale descritta (di Archimede).
Se l’ambito di provenienza unicellulare, era come logico il secondo, per sua natura (?!) è passato a interrompere il moto uniforme e infinito, per quanto possa esserlo l’Universo, per svilupparsi ed evolversi alla maniera di un cilindro, e con esso, per rendere chiara la metafora, distruggere e non costruire.
Gli esempi matematici di quanto enunciato ed affermato sono dovunque, non mi soffermo su questo specifico aspetto, ma semmai come mai restii ad applicare determinati principi, ne abbiamo adottati altri con evidenti danni alla prima condizione di appartenenza circoscritta nel moto infinito di una ‘Spirale equiangolare’; interrompendo o modificando taluni presupposti per i quali la vita così come giunta a noi, poi progredita ed evoluta, si dovrebbe riconoscere nella costante nostra opera in completa simmetria di questo moto.
Il moto ed il modo, se
pur invariato, non è conforme alle norme che molto spesso decidono la nostra
migliore condizione di essere ed appartenere lo spazio occupato. Non scisso
dalla nostra quotidiana appartenenza, ma sempre condizionato e motivato. Mai in
rapporto di superiorità, ma in condizione di subordinazione e quindi di
inferiorità. Ridefinendo quella ‘povertà di mondo’ da attribuire alla nostra
condizione di passaggio dall’una all’altra spirale, nel momento in cui tal moto
disconosciamo, tal principio rinneghiamo (e mai nel senso di una eresia che
pensa ‘rimuovere’ il principio della vita, ma attraverso coloro – eretici e non
- che attribuendosi una paternità divina come giustificazione morale e civile,
e un’anima non corrotta specchio dell’inizio, pensano o vorrebbero argomentare
l’essere umano quale immagine del creato, privo del male, cioè, che per il vero
contestiamo in chiave ‘manichea’ (aprendo porte ed argomentazioni più vaste
quanto fin qui definite), attribuendo a tal senso e storia una più vasta
concezione, non relegando il fenomeno troppe volte citato (quale vera Eresia
contro il Creato) ma sempre disconosciuto, si può per il vero affermare come
già fece Rousseau, la Natura volgere sempre al bene, l’uomo irrimediabilmente
al male), possiamo domandarci: chi in verità ‘privo di mondo’ nell’opera
materiale di ogni giorno la quale ci rende sempre più ‘poveri di mondo’?
Chi per il vero colmo di quella ‘povertà di mondo’ enunciata dal filosofo.
Oggi a ragione possiamo affermare che tutti noi, circuiti prestampati e predefiniti, in una illusione collettiva di progresso e ricchezza, siamo in realtà poveri di tutto quel mondo che avvolgiamo nella nostra spirale, non di uomini incolti, ma di evoluti Archimedi della storia e non solo. Alla base di ciò possiamo riconoscere gli errori della nostra cultura, la quale ha permesso sistematicamente di adottare valori come linguaggio comune che non sono conformi all’uomo e la sua natura…
(G. Lazzari; L’Eretico Viaggio)
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Il
superamento di queste fatiche induce ad altre, dove l’anima duella ancora tra
la libido carnale e una voluptas sapiente. È lo stesso Polifito, fuoriuscito
dalla piramide, che deve riconoscere l’emblematico scontro attraverso le
allegoriche antinomie tra la oziosa corporeità elefantina e il solare monolite
che la sovrasta, tra l’erotismo infantile e arido degli adulescentuli, e l’incavalcabile, virtuoso cavallo pegaseo, tra le
viscere terrificanti del gigante abbattuto e la pronta fuga.
Il Colonna con i tre monumenti mostra la platonica tripartizione dell’anima, ossia la sua parte irascibile, il colosso; quella concupiscibile, il cavallo con i fanciulli; e la razionale, l’elefante.
Platone, in un celebre passo della Respublica, spiega che soltanto acquietando le pulsioni irascibili e passionali dell’anima come quelle concupiscibili si può affidare il sogno alla sua parte razionale, la sola capace, grazie alla sua attività noetica, di avere visioni le più elette e veritiere. Adesso, addormentate dunque le membra, tacitati i desideri irrazionali e le passioni, la parte razionale della psiche può oltrepassare la magna porta.
Come accade
a Lucio nel Metamorphoseon, dove,
varcata la soglia di Proserpina,
viene trascinato ai numinosi confini del mondo e adora da vicino gli dèi, così Polifilo sprofonda al di là delle
viscere terrene a nuovo chiarore, a visioni che finalmente gli mostrano direttamente
i segreti di Venere Natura, la
specularità di Venere Urania e Pandemia, l’unità amorosa del tutto. Questa
teatrale porta di accesso è emblema parlante delle prossime apparizioni
oniriche, costellata di imagines
voluptatis, dall’educazione di Cupido agli amori di Febo, dal rapimento di
Ganimede alla nutrice Amaltea.
Qui all’anima-Polifilo si manifesta Apollo Sminteo sotto le spoglie di un candido topo, messaggero profetico e propizio di arcano viatico. Un ultimo impedimento prima del volo, ovvero la paura dell’anima di separarsi dal corpo in tanto onirico distacco: lo spavento è lancinante, incarnato dall’avanzare del terribile drago, mostro che suscita oblio e vigilanza.
Grazie a
questa, pur nelle buie viscere della portentosa piramide, Polifilo sa ricordare e riconoscere i celesti, santi simulacri che
incontra, mentre rifuggendo l’oblio rimane attento fino a scorgere un lontano
lucore nelle tenebre sì da avanzare più in là, nell’altro mondo.
Dinanzi all’anima,
dopo gli iniziali luoghi scoscesi e inospitali, allusivi, con le loro asprezze,
alle tormentate inquietudini della stessa psiche, si dispiega finalmente una serena
pianura, il locus amoenus, la cui
dolcezza dà pace alle fatiche intraprese. Siamo nel regno di Eleuterillide, personificazione della
Liberalità d’amore e, nel contempo, della Madre
di tutte le cose, della Venere Natura
che elargisce e feconda ogni bene: qui Polifilo
viene istruito sui misteri di tanto dono, sulle mirabili virtù del cosmo e
le inevitabili caducità mondane, è l’apprendistato della psiche involata, segugia del desiderio erotico e del
sapere.
Innanzitutto Polifilo purifica i sensi alle terme ottagonali e lì riceve il primo, fondamentale insegnamento. Alla fonte della ninfa dormiente vede che dai seni della fanciulla scaturiscono due acque distinte, una caldissima e l’altra gelida, che poi mescolandosi generano quell’acqua temperata che sola inonda e perennemente nutre tutto il fertile giardino. La metafora, che verrà ribadita di continuo e attraverso innumerevoli richiami simbolici nel corso dell’intero romanzo, tra i quali risalta il motivo del Jestina tarde, sentenzia il credo morale e gnoseologico del Colonna, tracciato sul mesotes aristotelico: la savia via di mezzo che, virtuosamente perseguita, sa temperare gli estremi e permette di raggiungere la conoscenza del vero Amore.
Viene qui
riproposta un’immagine cara all’amore cortese, codificata da Andrea Cappellano:
le acque fredde figurano l’arido amore per difetto, che mai si concede, quelle
calde l’erotico eccesso dissipatore, le tiepide sanciscono il primato spirituale
e materiale dell’aurea medietas
amorosa.
Accogliendo
e seguendo questo principio Polifilo
può giungere al palazzo della universale Liberalità, dove, come si conviene
alla munificenza dei dona Dei, gli sono mostrati pianeti e stelle, i loro
influssi, il viaggio astrale dell’anima, e gli viene offerto un sontuoso
banchetto ristoratore: è il refrigerium
dell’anima stanca; analogamente fu dato a Psiche
di rifocillarsi nel palazzo di Eros (Apuleio, Metamorphoseon, 5, 2-3).
Qui il Colonna, tra l’altro, descrive lo straordinario spettacolo del gioco degli scacchi figurato, con fanciulle danzanti, in una coreografia che, se certo ricalca analoghi fasti in uso presso le corti italiane, diviene in questo caso corale simbolo dello scontro amoroso tra l’amante e l’amata secondo i fortunati canoni della tenzone cortese. Tuttavia il metaforico attraversamento del reame di Eleuterillide conduce, al di fuori delle rassicuranti mura della reggia, anche ai caduchi e vitrei labirinti della vita terrena, a riflettere sulle fatali sorti delle vicende umane e, vertice iconico della più alta speculazione proposta dal Colonna, ad ammirare il monumento all’Infinita Trinità dell’Unica Essenza.
Con esso l’Autore
traduce, in una composizione plastico-architettonica, la più concettualmente
alta di tutto il romanzo, il proprio, rivisitato, credo platonico, coniugando i
princìpi dell’impenetrabile macchina dell’universo all’Ineffabile.
Infine
giunge alle tre porte, rispettivamente introiti alle glorie divine, a quelle d’amore
e a quelle mondane: dalla scelta di una delle quali dipenderà il significato
dell’imminente, prossimo cammino. Il graduale percorso tra la primitiva magna porta e queste ultime tre,
contrapposti margini e varchi metaforici che delimitano il reame di
Eleuterillide, costituisce un vero e proprio exemplum di fisiologia simbolica, configurata attraverso un
crescendo che passa dalla corporeità alla mente.
Infatti cinque fanciulle, dai nomi dei rispettivi sensi, conducono Polifilo dal suo ingresso fino al palazzo reale, simboleggiando la purificazione delle sue percezioni sensibili. Tre cortine poi, allusive delle corrispettive facoltà abitatrici della testa umana, cioè ragione, immaginazione e memoria, vengono oltrepassate da Polifilo per accedere all’interno della medesima reggia: con esse e con i mondati sensi potrà delibare appieno, con nuova nobiltà percettiva e intellettuale, i fasti micro- e macrocosmici offerti dalla liberale Madre Natura.
Successivamente,
dal palazzo fino alle tre porte, saranno le ninfe Logistica e Telemia, ossia la
Ragione e la Volontà, ad accompagnarlo, spiegandogli il senso degli
incomprensibili monumenti che incontra. Dinanzi alle tre porte, coerentemente
al principio di perseguire la soterica medietà, Polifilo sceglie, seguendo i consigli della Volontà e rifuggendo la
Ragione, la porta centrale, riproducendo così una partitura scenografica e
drammatica ricorrente nella letteratura cortese del Medioevo: è difatti la
virtuosa volontà d’amore che induce il cavaliereamante a conquistare l’amata,
pertanto diviene ineluttabile varcare la soglia del paese dove spadroneggia
Cupido.
Quello che ora Polifilo visita è il regno di Venere Pandemia, dell’amore terreno. Nessuno può sfuggire al suo dominio, come dimostrano i cortei trionfali che si susseguono, nei quali si celebra l’erotica sottomissione di divinità, eroi e uomini, primo fra tutti lo stesso Giove. La guida che lo accompagna in questa parte del viaggio è la ninfa Polia, la sua virtuosa, sapiente amata: insieme giungono al tempio di Venere Physizoa e nel sacro sacello dell’edificio sono finalmente iniziati ai misteri della dea dell’amore, secondo una eclettica, straordinaria ricostruzione rituale….