giuliano

venerdì 27 ottobre 2023

RICONCILIARE GLI INCONCILIABILI (42)

 












(all'attenzione dei pennivendoli di stato:

il presente articolo riguarda condizione

circa la dottrina dello spirito quindi 

inconciliabile con qualsivoglia 

odierna materia economica e/o 

derivata impropria liturgia politica)









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Dogmatismo e Dogmatica (41)


Prosegue con l'articolo completo:


RICONCILIARE GLI INCOCILIABILI 


& il Manoscritto ritrovato (43)







 Ricomporre la complessa trama della Storia, questo il difficile compito del geografo dello Spirito così da rendere il panorama osservato - nonché incamminato - oggi come allora, colto nell’interezza dell’osservazione posta nella duplice conformazione ‘geologica’ (sia questa materiale che spirituale) connessa con l’incarnata umana genetica data dalla ‘cultura’ a cui ogni Cima e/o simmetrico Elevato (spirituale) ‘stratigrafico-profilo’ (Cima numerata e contraddistinta nell’altitudine che la annovera e differenzia dal mare alla vetta, come il secolo di simmetrico ugual evento ugualmente contraddistinto qual elevato ‘personaggio’ nato anche lui da un comune mare sino all’altezza in cui, nel bene o nel male annoverato, e poi di seguito come nel caso del nostro Pavel, affogato!...), assoggettato aspira*.




[ * Incredibile come, in questo panorama osservato come contemplato da più generazioni, a cui il popolo e la propria natura ha affidato - ed affida ancora - la propria religiosa vista nel senso dell’ancorata vita, assommata all’ispirazione d’una intera esistenza donata alla cieca fiducia d’una improbabile porto ove ancorare nessuna Cima, si siano moltiplicate nonché evolute ‘catene montuose’, e da queste successivi innaturali panorami ‘storico-geologici’ di ‘singole’ vette, da cui fiumi in piena nati dall’impeto del freddo ghiaccio sgorgato dall’inumano fuoco accompagnato al sulfureo infernale demoniaco intento senza calore alcuno, circa un più vasto (prometeico) sentimento, simmetrico alla vera ‘rivoluzione’ da cui ogni elevato compito e di cui l’indispensabile Elemento soggetto al ciclo dell’intero ecosistema naturale come storico...




...derivato; e da cui il Fiume della vita (dovrebbe) donare benefico nutrimento, così come la necessaria energia nel sano frutto della Terra, circa il naturale proseguo del principio della sana dottrina connessa con l’uomo da lei evoluto; all’opposto scorgiamo avversi panorami - talvolta o troppo spesso - non confacenti con la  natura dei votati uomini al senso della più severa disciplina o (dottrina) politica, aliena alla simmetrica e autentica vetta in nome d’un Dio (circa ugual scienza per e di cui la vita) che l’ha creata; a cui l’umano spirito aspira - o dovrebbe - per il senso della evoluta conquista; semmai scorgiamo come annoveriamo la più distorta e deleteria forma politica confacente con l’altrettanto distorta economia bellica affine all’odio, da cui morte e annientamento quale negazione d’ogni più profondo come elevato spirituale sentimento, da cui la vera cima ispira o dovrebbe. 




E il contemplare siffatti panorami da ogni uomo votato nel senso distorto nonché anamorfico della vita, da cui il popolo la massa, ha consegnato la propria aspirazione negata alle vere Cime del sapere abdicate alla insana corrotta dittatura, ci sembra una considerazione circa il senso dell’impropria evoluzione non connessa con la propria mutilata approssimata natura; e il contemplarne l’archivio ‘storico-geologico’ d’una presunta evoluta stratificazione, come valido esempio circa il mancato o naufragato senso della vita, così come la Storia, non certo un caso; dai natali più o meno ortodossi della rimembrata Georgia, in seno al futuro quadro dipinto circa la natura umana quale vera mostruosità esposta, compreso il male che la ispira congiuntamente esposti alle alterne stagioni della medesima Storia quale museo degli ‘ispirati’ orrori;..... 




...contrari ed opposti al negato Bene come il beneficio che ne deriva dall’Arte (circa la segreta dottrina), di procedere all’altezza dello Spirito d’una Cima al porto della sana Creazione conforme alla propria architettura, circa ugual volontà scritta e da scrivere ancora, per la vera Stagione da cui la Via Verità e Vita… Dacché, per concludere siffatta parentesi storica, e aprirne una certamente più vasta e nuova, ne deduciamo o ricaviamo solo la limitata dotta presunta conoscenza affine all’ignoranza, così come la simmetrica derivata corrotta Coscienza, le quali non riescono, o peggio ancora, non vogliono e possono riconciliare, secondo un ristretto incolto Dogma, gli apparenti inconciliabili, giacché da questi presunti opposti e Cime - ovvero dal nucleo alla Vetta - sgorgare l’eterno Fiume della spirituale vulcanica segreta Conoscenza… La velata nebbia ispira amletico fugace (demoniaco) sentimento dell’essere ed appartenere all’intera Storia del mondo, e il come al meglio poterlo edificare e conservare nella propria ed altrui conquista in merito allo Spirito caduto nel baratro profondo d’un eterno precipizio d’una impropria vetta…  




Condizione che li ha posti all’attenzione di molteplici scienze (più o meno esatte per quanto possa esserlo l’umano diverso dal divino), e certamente giammai disgiunte tra loro (per ciò concernente il nostro ‘punto’ di vista per il panorama osservato, forse non tutti i ‘punti’ di allora - epoche passate ma ancora presenti incise come indelebili ‘simboli’, siano questi esposti nel bene - come al contrario - nel male, formare una linea - una freccia - una crosta una placca geologica - confacente e non oltre un confine quale araldo cui incisa e coniata - purtroppo - la moneta nel dogma del Tempo e della Storia in cui rivenduta e successivamente cambiata o valutata secondo i rigidi e severi criteri conferiti dell’economia [come dalla dottrina politica] cui essa incontrovertibilmente dipende circa il valore aureo assente all’oro dello Spirito connesso con la Natura di un più probabile Dio;.... 




...con l’intento di attraversare, interpretare, nonché accreditare, la difficile Geografia ammirata come annoverata nella banca della presunta ricchezza dedotta; sia questo stesso intento geologico quanto dogmatico ben osservato come chi giunto prima o dopo di noi, e così esplicitato come formulato nell’odierno superamento di un piano più vasto in cui la linea si dispiega all’Infinito - donde nato - riformarne lo Spirito sottratto all’atto limitante della materia cui assoggettato…; sinonimo per il nostro occhio di Verità qual comune denominatore, quindi ugual Dio per chi voglia cercarlo nel vero simbolo sottratto al Sacrificio, sia questa una freccia una lancia o un medesimo chiodo della ugual Storia…).




Sottraendolo - quindi - all’approssimazione di cui oggetto ogni scienza entro i ‘limiti-limitanti’ della stessa medesima Storia costretta o immune (come nel nostro caso, viste le innumerevoli uguali vicissitudini di chi spaziando oltre l’orizzonte dato tenta un approccio interpretativo diverso come la stessa si pone all’occhio della Memoria), da una più profonda ‘equazione’ posta procedere dal Finito [della materia] all’Infinito [e Dio] dell’esperienza interpretativa, da cui lo Spirito ‘oggetto-soggetto’ (ma per chi libero giammai assoggettato seppur vittima di questo o quanto Creato) alla seconda condizione di cui la ‘materia’, come ora, esposta e dedotta in suddetta equazione storica assoggettata al Finito dato dall’insieme dei confini dei Dogmi ricavati ed imposti, al fine, così almeno sovente esplicitato, rendere l’uomo migliore, certamente disgiunto dai termini della Natura il quale lo ha creato entro i limiti incompresi di una genetica eternamente connessa con gli invisibili principi cui dedurre i termini di Sacro, a cui la Cima come ogni Elevato simmetrico profilo va evidenziato nella celata come velata natura geologica eternamente connessa.




Così come dell’Anima-Mundi afflitta e perseguitata dall’eterna calunnia per conto delle inaccessibili frontiere del dogma, quindi comporre ed unire gli inconciliabili in ugual medesima invisibile trama, che lenta si dispiega nel formare l’altrettanto difficile geologia ove s’innalzano le Cime della Storia, solo da taluni coraggiosi (e apparentemente inconciliabili: Paolo e Giuliano) a dispetto delle false demagogie unite alle dovute dogmatiche della Storia, si sono proposti di scalare (seppur celando) qual vera Conquista (con sommo sacrificio), conferendo la Verità negata, o peggio, vilipesa entro una fitta velata nebbia, dalla quale scorgiamo la valle, il Sentiero, ove in nome e per conto del vero Dio scorgiamo ancora l’univoca presenza di immutabili Simmetrie, quali Stagioni del comune Tempo, precipitare e imbiancare la volontà di rinata Conoscenza, per ricomporne la difficile ed invisibile Geografia. 

L’araldo storico impone l’uomo trafitto, nell’inconciliabilità in cui scritti e dedotti gli opposti, i quali opposti si uniscono e conciliano in medesimi intenti posti all’Infinito formare il Sacro in cui leggere ugual simbolo 

(Giuliano)




Il vasto dormitorio di Macellum, l’antico palazzo dei re di Cappadocia, era immerso in profonda oscurità. Il letto di Giuliano, ragazzo di dieci anni, era molto duro, essendo costituito soltanto da alcune assi rivestite di una pelle di pantera. Egli stesso l’aveva voluto così, ricordandosi i precetti del suo vecchio maestro Mardonio, che l’aveva educato ai rigorosi canoni dello stoicismo.

 

Giuliano non riusciva, quella notte, a prender sonno, di tanto in tanto, il vento si levava a raffiche, ululava lamentosamente, come una belva prigioniera, attraverso le feritoie dei muri. Poi, ad un tratto, tutto ridiventava calmo, e in quello strano silenzio si sentiva cadere la pioggia sulle pietre, a grosse gocce rade e pesanti. In certi momenti, Giuliano, nell’alta tenebra delle volte, credeva di scorgere il rapido volteggiare d’un pipistrello.




Distingueva poi il respiro di suo fratello, effeminato e capriccioso adolescente, che riposava sopra un morbido letto sormontato da un baldacchino polveroso, ultimo vestigio della splendida corte di Cappadocia. Dall’interno della stanza vicina, giungeva il pesante russare del precettore Mardonio.

 

A un tratto, la porticina della scala segreta si aprì senza far rumore, lasciando passare un raggio di viva luce, che abbagliò Giuliano, ed entrò la vecchia schiava Labda, reggendo una lucerna di rame.

 

— Nutrice, ho paura… Lasciala qua, la lucerna — disse Giuliano.

 

La vecchia posò la lampada in una nicchia di pietra, sopra la testa di Giuliano. 


 (S. Merežkovskij)


[PROSEGUE CON L'ARTICOLO COMPLETO]







martedì 24 ottobre 2023

GLI INFINITI (39)

 








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Finiti  (38)  


Prosegue con la: 


Prospettiva... 


rovesciata (40) 


& con Dogmatismo 


e Dogmatica (41)  







L’unità di un insieme sarebbe data dal pensiero che pensa quell’insieme.

 

Lo spunto è interessante e, tuttavia, non sembra portarci là dove Cantor voleva andare. Infatti, una tale soluzione cozza con il fatto che gli insiemi finiti “troppo grandi” e gli insiemi infiniti non possono essere pensati nella loro estensione completa. Ora, per chi come Cantor ritiene che gli insiemi (finiti e infiniti) non siano semplici costruzioni della mente umana, ma esistano anche nella realtà questa soluzione non può andare bene.

 

Una posizione realista come quella di Cantor, che afferma l’esistenza di insiemi infiniti indipendentemente dalle capacità umane di trattare con essi, non può che appellarsi a un principio diverso dal pensiero umano.

 

A questo proposito Hallett richiama l’attenzione su un passo del Civitate Dei di Agostino, citato da Cantor, in tale passo Agostino difende l’esistenza di un numero infinito (ovvero sostiene che il numero dei numeri finiti sia infinito)L’infinitezza del numero è data dal fatto che non esiste un numero maggiore di tutti gli altri: esistono dunque infiniti numeri finiti. Ma Dio, per Agostino, non può non conoscere la totalità del numero: egli conoscerà quindi una totalità composta da infiniti membri.




Ora, prosegue Agostino, conoscere significa unificare nel proprio pensiero l’oggetto conosciuto, cioè renderlo finito: ogni infinità conosciuta da Dio è resa finita nella sua mente. Una entità è resa finita se la si può trattare come un oggetto individuale. Anche la totalità del numero, in quanto diviene un oggetto conosciuto, viene resa finita da Dio, diviene cioè un oggetto singolo.

 

Secondo Hallett, l’idea agostiniana per cui Dio, conoscendo oggetti infiniti, li renda in qualche misura finiti fu fatta propria da Cantor: in tal modo l’unità degli elementi di un insieme è resa possibile dal pensiero di Dio, che rendendo finito un insieme lo rende un oggetto individuale. Cantor invocherebbe qui Dio per giustificare l’esistenza di insiemi infiniti indipendenti dal pensiero umano; gli insiemi sarebbero quindi visti come dei corrispettivi delle “idee divine”.

 

Il chiamare in causa Dio con la sua capacità di rendere finito l’infinito giustificherebbe la possibilità di trattare in modo omogeneo gli insiemi finiti e quelli infiniti: proprio perché per Dio non vi è differenza essenziale tra insiemi finiti e infiniti, allora quest’ultimi dovranno essere trattati nel modo più omogeneo possibile ai primi.




Si potrebbe vedere in questa invocazione di Dio una soluzione ad hoc di un problema riguardante la natura degli insiemi. Certamente tale soluzione non ha soddisfatto coloro che hanno proceduto lungo la via dell’assiomatizzazione della teoria; operazione portata avanti anche nel tentativo di chiarire la nozione di insieme. Cantor avrebbe tuttavia negato con fermezza questa ipotesi: fin dal principio egli ha sviluppato la sua teoria all’interno di un quadro ontologico-metafisico ben definito; quadro che contribuisce in modo essenziale alla determinazione della propria nozione di “insieme”.

 

È per questo che siamo convinti che senza una adeguata comprensione della filosofia di Cantor non è possibile intendere la sua nozione di insieme. Uno dei principi fondamentali presente in Cantor fin dalle prime battute della teoria è che l’assoluto (Dio, il tutto) non può essere determinato insiemisticamente (cioè matematicamente); ciò significa che non vi è qualcosa come l’insieme di tutte le cose. Non vi è un numero che possa rappresentare la quantità di enti contenuti nell’universo, perché se esso esistesse allora l’universo sarebbe un insieme: ma questo è proprio ciò che la concezione dell’assoluto di Cantor vieta. L’assoluto è in qualche modo “troppo grande” per essere numerato, anche da un numero infinito. Le ragioni di tale impossibilità sono da ricercarsi nella teologia scolastica di stampo tomista, ben presente a Cantor.

 

Sottratto un numero infinito a DioDio rimane sempre Dio.




Lungo la gerarchia transfinita (la gerarchia di insiemi infiniti) si può procedere all’infinito verso insiemi sempre più grandi, ma mai si raggiungerà l’assoluto:

 

‘È per me fuor di dubbio che lungo questa via [teoria del transfinito] avanzeremo per sempre, e mai arriveremo a un limite invalicabile – ma nemmeno a una comprensione, sia pur approssimata dell’Assoluto. L’Assoluto si può solo riconoscere, ma mai conoscere, nemmeno in forma approssimativa’.

 

L’assoluto rappresenta quindi fin dall’inizio una limitazione dell’applicabilità del concetto di insieme. L’idea che l’assoluto non sia trattabile insiemisticamente rappresenta una costante in tutto il pensiero di Cantor; tuttavia, una volta emerse le antinomie, egli tenterà di utilizzare direttamente tale idea come criterio di distinzione tra molteplicità consistenti e non-consistenti.

 

Dalla citazione sopra riportata della lettera inviata a Dedekind nel 1899 Cantor chiama le molteplicità inconsistenti anche “assolutamente infinite”. Ora, l’idea che l’assoluto non possa essere un insieme costituisce una sorta di “principio di limitazione” per la grandezza degli insiemi, tuttavia non ci dà un criterio preciso per stabilire quando un insieme è “troppo grande”.

 

(F. Costantini)

 

 



Nell’archivio della famiglia Florenskij si è conservato un manoscritto recante la seguente intestazione: ‘Corso di base. Introduzione alla filosofia antica (15 lezioni tenute nel semestre autunnale del 1908 presso l’Accademia Teologica di Mosca agli studenti del secondo anno). Le lezioni n. 12, 13 e 14 di questo ciclo sono dedicate alla teoria della conoscenza e sviluppano tre nuclei tematici:

 

1. La conoscenza come sistema di atti di distinzione;

 

2. La conoscenza come giudizio sulla realtà;

 

3. Il momento religioso-metafisico della conoscenza.

 

I contenuti del primo punto appariranno poi sul Messaggero teologico (Bogoslovskij vestnik) vol. I, n. 1 del 1913, pp. 147-174 col titolo Predely gnoseologii. Osnovnaja antinomija teorii znanija [I limiti della gnoseologia. L’antinomia fondamentale della teoria della conoscenza], mentre il secondo ed il terzo punto nelle intenzioni dell’Autore sarebbero successivamente dovuti confluire in un altro articolo, seguito del primo.




La questione conoscitiva, su cui verte ‘I limiti della gnoseologia’, riveste un ruolo predominante tra gli interessi speculativi di Pavel Florenskij, costituendo peraltro la coordinata fondamentale del suo opus maximum, ‘La colonna e il fondamento della verità’.

 

Nelle pagine che emergono ci è offerto un approccio interdisciplinare ad essa, in una tessitura sinfonica che abbraccia letteratura, fisica, matematica, filosofia, senza trascurare qualche penetrante osservazione di taglio psicologico, e denotando persino presagi della teoria della relatività.

 

L’antinomia gnoseologica cui allude il sottotitolo è quella nella quale si viene a trovare la ragione umana quando, nell’esplicare la sua attività conoscitiva, le si prospetta di scegliere in definitiva tra due sole opzioni, quella del realismo e quella idealista. Sia in un caso che nell’altro essa si ritroverà relegata ineluttabilmente entro gli angusti confini tracciati da queste due strade, che si rivelano entrambe dei vicoli ciechi.




È questo lo scacco di una ragione che non si voglia aprire alla trascendenza. Constatata allora l’impossibilità di comporre l’inconciliabilità tra questi due modelli gnoseologici Florenskij, nel solco della più genuina tradizione russa, addita un’altra strada, quella della ‘verità vivente’, aperta in ultima analisi a quell’invisibile in cui già molti secoli prima era stata ravvisata la fonte di ciò che è visibile dall’amato maestro Platone, del quale Florenskij opera una rilettura singolarmente profonda, capace di esaltarne la perenne attualità.

 

L’originalità dell’impianto di questa “lezione” risiede in gran parte nell’angolo di visuale peculiare all’Autore, fornitogli dalla scienza matematica, che resterà per lui un’abitudine del pensiero, lo strumento ermeneutico per eccellenza, di cui si avvarrà come base per una rinnovata visione unitaria, integrale e dinamica della realtà.




 Su questo sentiero Florenskij era stato condotto, in un certo senso, dall’ambiente della Scuola matematica di Mosca, all’interno della quale spiccava la figura di Nikolaj Vasil’evič Bugaev (1837-1903), che fu suo autorevole docente, e della cui concezione scientifica, connotata da fruttuose implicazioni gnoseologiche, il giovane Pavel Aleksandrovič rimase subito attratto. Particolarmente felice risultò poco dopo l’integrazione della prospettiva “moscovita” con la teoria degli insiemi di Georg Cantor (1845-1918), preziosa per la sua capacità di unire uno e molteplice, finito ed infinito. Quell’infinito di cui è gravido ogni momento della storia e della vita di ciascuno di noi. 

(M. Di Salvo)







domenica 15 ottobre 2023

IL RACCONTO DELLA DOMENICA, ovvero, SO' TORNATI LI LUPI....

 









Precedenti capitoli 


per la predica 


della Domenica  


Prosegue con...: 


"niente" & "nulla"  


& con Anime 


e Demoni  (36)  


& il capitolo completo






Dico allo Francesco frate meco che junto lo tempo mesto de farsi lupi neppur santi somari o agnelli quali deovon farsi cibare da codeste scimmie ammaecstrate et halora frate mio te raconto cotal storia tu che dallo polo opposto venisti et jiungesti per porre retta justicia in ogni loco.


Tutto se rea invertito anche lo cardine della porta dello convento tutto in questa hora accompagnata dalla danza di codesta morte, tuta trapuntata ed anco assisa come la pecora vicino lo horto che neppure la scala la finestra quanto jungemmo fu ria tanto la contemplnaza de siffatta splenticta bestia.

 

Alcuni frate meco dello stesso convecto volevan per lo vero signore Iddio cavargli lo latte dallo di dietro e provare lo manico della panza intignere cotale sostanza e nepure mettere allo spiedo come solea frate meco Benedetto,  io solo fedele allo motto tuo o’ fermato cotale adunanza per non fare amuchiata.




Lo sud e lo nord smarrito tanto che fin vicino all’orto delle capre l’amico e frate Francesco non potea neppure nominare li poveri compari amici suoi che dello ramo s’erano anche impadronito misurato e su sopra non più lo nido ma l’insegna della taverna dove se pole anco bene bere magnare cacare e ciarlare e lo passero meco non po’ neppure piagne’ che la rotta sera smarrita e ita…

 

Allora caro Francesco ce semo fatti tutti Lupi per ire su per lo bosco e neppure pensare alle capre, tu me potrai comprendere e dire che semo eretici et anco uno poco scemi o umiliati, a te dico e risponno che qui se lo monno roversato come lo poeta ce dicea… e anco cantava nell’intervallo fra una Jostra et l’altra…

 

Ma la neve e lo ghiaccio ce fanno bona astinenza…




 Tutti quelli animali in tua lode se iti ju’ per lo Fiume nero ju per lo torrente e de concerto se volevan tutti quanti atfgore pur de’ non essere magnati da codesti novi filosofi et christiani…

 

…Non pozzo chiamà neppure Noe’ che l’arca se ria ammutinata giu’ l’offisina piu’ mutilata de come l’havea pensata… pensavo e a te dico de poter trovargli bona locanda ove se potreino arrampicare su e ju’ per la montagna…

 

…Aspetto tuo jiudicio… su tutta la questio et avenctura & nuovo miracolo speramo, deto fra noialtri, che non se magnino anco lo somaro straco….

 

Comunque l’orsi e li lupi me fano bona compagnia con loro se parla e poco se magna… se guarda la neve invece della donzella primavera se’ tutta scolpita come lo libro della antica miniatura pare un mobile antico una panca sciancata una madia senza lo pane e lo vino della nostra sacta divina comunione…

 

Te saluto frate meco….

 

Attendo comunione…


                                             

Sì come l’Africa, e l’Egitto generano li Lupi da poco, e piccoli Lupi, coſi la fredda parte di Settentrione (ſecondo Plinio, nell’ottauo libro, cap. XXII) li produce aſpri, e crudeli. E che ciò ſia vero, lo diamoſtra la loro fierezza, e malizia, e maſſime nel tépo del coito, e nel  maggior freddo, quando fa biſogno, che li viandanti vadano armati, per guardare e ſe, e li loro cavalli da le lor forze. E maſſime le donne, che son vicine al parto, a le quali, li lupi, conoſcendole al nafo fanno grandi infidie.

 

La onde non ſi laſcia andare in camino niuna femina fola, anzi sempre ha feco un cuſtode armato: ſi come nela figura, qui di ſopra poſta, ſi dimoſtra.




Perche per il piu interviene, nel meſe di Gennaio, che gli huomini, che fanno viaggio ſopra le carrette da verno, eſſendo da ogni banda aſſaliti da groſſe ſchiere di Lupi, ſe vogliono reſtare in vita, biſogna che con le ſaetteli diſcaccino, e con le bombarde; onde naſce, che dovendo li viandanti andare a li loro privati  negozi, o a qualche Pieue, o Chieſa di Villa, ſono de le dette armi proveduti, ceme ſe doveſſero andare a combattere, anzi che ſpeſſo vengono queſte fiere in tanta fierezza, erab bia, ſpinti dala fame, dal freddo, e da naturale uſanza, che entrando dentro ale habitazioni de gli huomini, quivi preſtamente aſſaltando gli armenti, o cavalli, quelli devorano, o coſi lacera, ti, ſeco nele ſelue ſe li portano.





Ma non fanno cio ſenza lor danno. Perche quegli habitatori, banno a queſti mali li remedi. Perche legano certe falci di ferro al cadavero, dentro a le nevi, accioche li lupi, che qui vi vanno per devorare la preda, troncandoſi li piedi, ſiano coſi puniti, o auero da ſaette percoſſi, ſubito muoiono, overo ſprofondati in alcune foſſe ſotterranee, per la avidità, che hanno de la preda, quivi di fame ſi conſumano.

 

Anzi che molte altre beſtie rapaci di diverſe ſorti, come li Goloni, é le Volpi, cadendo dentro ale medeſime foſſe, hanno de la doro morte compagne, le quali prima con ſimile crudeltà, contra altrui erano si fiere, e violente.




Perche nel preſente libro al XV. cap. ſi è trattato de le divcrſe ſorti de Lupi, ho giudicato, dover far coſa convenevole, ſe nel fine di queſto libro degli animali ſelvarichi, io giugneſſe quella ſorte di Lupi, che di huomini ſono doucntati, e conuerſi.

 

Il che Plinio afferma confidentemente, tal coſa eſſere da giudicare falſa, e fabuloſa. Di queſti tali Lupi, ne le terre, che aſſai ſon volte al Settetrione, molte ſi ritrouano fino a hoggi,  in Pruſſia, Liuonia, e Lituania, quatunque quaſi tutto l’anno ſiano quei popoli, sforzati a prouare la rapacità de Lupi, con gran lor danno, perche andando a groſſe ſchiere, dilacerano le lor pecore, ſe punto dal gregge ſi allontanano; nondimeno queſto danno, non è da loro reputatosi grave, quanto quello che eſſi ſono sforzati patire dagli huomini conuerſi in lupi.




Perche nella feſta del Natale di Chriſto, nel tempo de la notte, in un certo ordinato luogo, che tra lor häno già determinato, tanta copia di lupi conuerſi di huomini ſi raccoglie; la quale, ſubito la medeſima notte, cò marauiglioſa fierezza, si còtra gli huomini, si ancora còtra gli altri animali, di piaceuole, e debol natura incrudeliſce, che maggior danno riceuono quelli popoli da queſti, che da li veri lupi, e naturali.

 

Percheſi come è manifeſto, eſſi oppugnano le caſe degli huomini, che nele ſelve riruouano, con marauiglioſa atrocità, e ſi sforzano ſpezzarele porti, e coſi gli uomini conſumano, come gli altri animali, che quivi albergano.




Dentro a la Lituania, a la Semogethia, & la Caronia, ſi truoua un certo muro, rimaſto in piedi, d’un certo Caſtello ruinato, a queſto in un certo tempo del’anno, molte migliaia di  lupi vi ragunano, e quiuvi vi fanno pruova de la lor deſtrezza nel ſaltare; e qelli che sopra queſto muro non poſſono ſaltare, come auuiene quaſi a tutti li piu graſſi, da li lor caporali ſono flagellati.

 

Finalmente ſi afferma coſtantemente, che tra queſta moltitudine ſi ritruouano ancora deli Baroni, e Signori di quel paeſe; li quali, come ſiano venuti in queſta pazzia, e trasformazione aſſai terribile: e tale che poi non poſſono piu diſprezzarla, e diſcacciarla, e nel cap, ſeguente ſi moſtrerà.




Imperoche quando alcuno, cupido di coſe nuoue, oltra il divino ordine, & iſtituto, o ſia Germano del paeſe, deſidera d’eſſer meſſo nel collegio di queſti maladetti huomini; li quali, qual hora lor pare, in Lupi ſi cangiano: tale che in certi tempi del’anno, ad alcuni luoghi deſtinati, tutto il tempo de la vita loro, inſieme con li loro ſeguaci ſi ragunano, & agli altri huomini danno morte, e fanno altri danni, & a le pecore, & gli armenti e parimente, in queſto modo lo fanno trasformare, e prendere figura, molto contraria a la ſua natura, Che da uno, che di tale incanteſimo è eſperto, glie data una tazza di ceruoſa a bevere (pur che colui, che in queſto conſorzio è accettato, la voglia accettare) e dicendo alcune parole, ſubito ha l’intento ſuo.




 Di poi quando gli parerà il tempo opportuno, potrà la forma humana totalmente convertire in Lupo, entrando in qualche cantina, o in qualche ripoſta, occulta selva; finalmente può ancora, ſecódo il ſuo beneplacito, dopo alquato tépo laſciarla, e poi riprederla.

 

Ora, per venire agli eſempi, eſſendo un tratto un nobile gentil huomo, in viaggio, e caminando per una lunga ſelua, menava ſeco alcuni vili huomini, e di ſervil condizione, che di queſto incanto erano eſperti (come per il piu ſono in quelle parti). E già il giorno savvicinava al fine, e la notte veniviva, e biſognava alloggiare quella notte dentro ala ſelua, pere che non vi era luogo alcuno da alloggiare vicino; e finalmente erano molto oppreſſi da fame, e da penuria.




Finalmente uno di loro, propoſe un ſubito conſiglio, con patto, che gli altri doveſſero  acconſentirgli, e ſtar quieti, né eccitaſſero tumulto alcuno, ſe qualche nuova coſa veddeſſero, dicendo che egli vedeua di lontano un gregge di pecore paſcolare, e che voleva procurare, che almeno una di quelle haveſſero, per arroſtire a cena.

 

Quindi ſubito dentro ala oſcura ſelva ſe ne entrò; accioche’ da alcuno non poteſſe eſſer veduto, e quivi la forma del’huomo cangiò in Lupo. La qual trasformazione non pare, che in coſa alcuna ſia differente da quella di Licaone, ſe bene egli fu trasformato in Lupo, per le ſue ſceleranze; de la quale Ouidio fa menzione, nel primo lib. de le ſue trasformazioni, li cui verſi in qeſta lingua, in tal modo riſuonano.

 

,, E sforzandoſi in van parlar di rabbia,

,, Gonfia la faccia; e verſo il miſer gregge,

,, Il ſolito deſio di morte sfoga.

,, E ſi rallegra ancor di ſparger ſangue,

,, Cangia le veſti in peli, e i bracci in gambe,

,, Lupo doventa, e de l’antica forma

,, Ritiene i ſegni; e’l canuto colore

,, Gli reſta, e tien la ſua fierezza il volto,

,, Gli occhi riſplendon pure, e pur ſi moſtra

,, L’antica imagin ſua cruda, e feroce.




Patto queſto cò grande impeto, nel gregge de le pecore ſi fogò, & una rapitane, a dietro voltoſſi, e nella  la ſelva ſi fuggì; e quella non dopo molto tepo, in forma di Lupo al carro del Signore portò. Li compagni, che di queſta preda erano conſapevoli, con grato animo, lo ricevettero, e nel carro lo aſcoſero; e colui, che in Lupo sera cangiato, di nuovo ne la ſelva rientrò, e di nuovo ne la forma humana ritornò.

 

Ancora accadde in Livonia, non ſono molti anni, che la moglie d’un nobile huomo ,& un ſuo ſervo, tra loro vennero a parole: perche quivi è di queſti maggior copia in quel paeſe, che in altro luogo de’ Chriſtiani, e quitvianano tra loro, ſe gli huomini ſi poſſono convertire in lupi: finalmente quel ſervo le diſſe che ſubito le voleva moſtrare l’eſempio vivo di cotal coſa, pur che gli fuſſe data facultà di poterlo fare.

 

E coſi ſolo ſe ne entrò in cantina, onde poco dopo, uſcendo informa di Lupo, da li cani fu fatto fuggire, mentre che per il capo verſo la ſelva ſe ne andava, li quali gli cavarono un’occhio (quantunque aſſai valoroſamente ſi  difendeſſe) e l’altro giorno ritornò a la ſua padrona, con un’occhio ſolo.