giuliano

venerdì 30 agosto 2013

I DIAVOLI DELLA MONTAGNA (moderna geografia alpina) (56)








































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I 'Passi' dei pellegrini (55)

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Un Pagano risponde ad un Cristiano (57)













Moltissime leggende delle Alpi quasi tutte assai bizzarre, trattano di animali fanta-
stici, di terribili draghi, di combattimenti fra i Santi e le Serpi, ed in questo caso
come in tanti altri, troviamo una delle credenze più comuni fra il mondo del Me-
dioevo, derivata da miti antichissimi, e rimasta ancora nella coscienza degli alpi-
giani.
Preziose miniature, vecchie incisioni su legno e anche meravigliosi dipinti su vetri
di antiche cattedrali, ci provano come l'arte rinascente si attenesse alle credenze
popolari coltivate in ambito religioso, nel rallegrare in forma stranissima serpenti
che avevano qualche cosa di diabolico e dèmoniaco; e quasi sempre vedonsi sotto
i piedi della Madonna, o mentre trascinano nell'Inferno le anime dei dannati, se
non addirittura mentre divorano per intiero pargoli e putti.
Altre volte ancora uniti in numerosa schiera, si muovono a lotte feroci contro gli
angioli ed i santi o benedetti Cavalieri della croce.




Essi ritrovansi pure con frequenza nella poesia cavalleresca medievale, e ispecial-
mente in quella appartenente al ciclo di Artù... Spesso nel Medioevo non solo i
serpenti fecero parte della corte diabolica; ma il Diavolo stesso che vedemmo tra-
sformato sui ghiacciai, oltre la Valle d'Ala, in camoscio; che diventa Schiena di
Mul in Val di Genova, ed assume anche altre forme innanzi alla fantasia degli alpi-
giani, et esso prendea aspetto di Serpente alato o di orribile Mostro.
Fu ritenuto eterno nemico di ogni uomo o pellegrino.....
Secondo la credenza popolare, in moltissime valli e nelle gole più orride delle
Alpi vivevano in tempi lontani altre specie di rettili spaventevoli, che divoravano
gli alpigiani, distruggevano intere greggi, e potevano solo essere vinti dalla so-
vrumana potenza dei santi o del valore d'animosi guerrieri.




In questo caso ancora gli alpigiani inventarono favolosi racconti, ricordando pe-
rò sempre le credenze tramandate da secolo a secolo (fino ai nostri giorni...), e
la loro fantasia fu al pari di quella dei marinai o dei ciarlatani.....
Una vecchia pittura in Val d'Ala ricorda la leggenda del famoso cacciatore e del
diabolico camoscio; in un'altra che trovasi nell'antico convento della Novalese,
in Val di Susa, vedesi Sant'Eldrado che vince i serpenti, ed innumerevoli sono
anche in altri paesi i dipinti che rappresentano le vittorie dei Santi sui Mostri e
sui Serpenti.
Secondo certe credenze sparse fra gli alpigiani del Tirolo, le Serpi hanno il loro
impero e le loro leggi, et si uniscono in molto numero per la comune loro difesa.
In qualche leggenda delle Alpi, si può anche trovare memoria di una credenza
che fu quasi generale nel Medioevo, ed anche più tardi, quando dicevasi che gli
stregoni potevano percorrere rapidamente immense distese, essendo trasporta-
ti dalle serpi alate.




Nei racconti così popolari del Medioevo sui combattimenti degli angioli e dei santi
 contro le Serpi, che sono spiriti infernali, le figure che rappresentano il principio
del bene hanno una grandezza epica, la quale può ritrovarsi nel Milton; ma viene
anche resa colla maestria del verso e la potenza dell'immagine dal nostro Torqua-
to Tasso, quando egli descrive l'arcangelo che scende sulla Terra Santa; per di-
sperdere gli spiriti diabolici, intenti a rendere più vivo il furore dei Pagani contro
i cristiani.
Ritroviamo tutta la poesia del concetto popolare, che mette tanta gloria intorno
all'arcangelo Michele, che vediamo con molta frequenza pronto alla lotta o vinci-
tore, anche sugli antichi dipinti delle cappelle disseminate sulle Alpi, quando il
poeta ci dice ch'egli:

Venia scotendo con l'eterne piume
La caligine densa e i cupi orrori.
S'indorava la notte al divin lume
Che spargea scintillando il volto fuori.
Tale il sol nelle nubi ha per costume
Spiegar dopo la pioggia i bei colori.
Tal suol fendendo il liquido sereno,
Stella cader della gran madre in seno












martedì 27 agosto 2013

L' ECONOMIA CORROTTA (54)














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L'economia corrotta (53)

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I 'Passi' dei pellegrini (55)










.. Ricchissima divenne la Chiesa (crocevia di ogni pellegrinaggio ad uso
commerciale che con il tempo diverrà altro...), ci dicono numerosi croni-
sti: sicché si e venuta formando l'opinione che quel giubileo non solo fu
un grandioso affare finanziario, ma - fu detto nel processo di Filippo il
Bello - un affare pensato come affare (che poco o nulla aveva a che fa-
re con le ragione della fede o della verità...).
Tra le testimonianze magniloquenti ma generiche, vi è quella dello stori-
co Domenicano Bartolomeo Fiadoni, detto  (Grillo) Tolomeo di Lucca
(anche se i natali furono accreditati a Genova...) (1240/1327), che inve-
ce fissa delle cifre: 'Ogni giorno l'offerta dei pellegrini (paganti, fatta co-
me dono di devozione o come opera meritoria, fedeli al canone...) arri-
vava a mille (1000) libre provinciali', press'a poco, traducendo in fiorini,
a circa mille e settecento (1700) fiorini!




Determinare quanto valesse esattamente un fiorino è cosa impossibile,
(visti i diversi parametri di misura del valore della vita che ponevano le
distanze o le differenze della casta di appartenenza...) ché, non solo l'-
accresciuta circolazione monetaria, durante il giubileo, avrà mutato le
ragioni di scambio tra le varie monete circolanti, ma il 'valore' stesso at-
tribuito alla moneta (ed alla vita...) come tale, è troppo mutevole nei
tempi: da quel lontano 1300 troppi elementi, nel costume della vita e
nella produzione della ricchezza e nel commercio, sono cambiati, per
poter noi fare ragguagli persuasivi con le nostre cifre.
Un esempio qualsiasi: pensando che il fiorino d'oro pesava gr. 3,54,
e l'ospitalità di una notte, per un cavallo e una persona, costava un
tornese grosso, cioè la decima parte del fiorino, dovremmo dire che
era esorbitante - così trovava il cronista d'Asti, il Ventura - la richie-
sta d'un tornese, cioè qualcosa meno di 400 lire.




Comunque se dovessimo prendere alla lettera la frase del Fiadoni,
ogni giorno mille (1000) libre, e non intenderla come una indicazio-
ne di cifra di punta, certo un grande tesoro avrebbe adunato la
Chiesa: più di mezzo milione di fiorini.
Il nostro Stefaneschi, definita fonte ufficiale dell'affare, e che pos-
siamo ritenere attendibile quanto lo possa essere un politico del
Regno, riduce la somma a ben più modeste e credibili proporzioni:
'gli altari più frequentati di tutto il mondo, che da tempo fornivano
anno per anno offerte di pellegrini in quest'anno centesimo ne rese-
ro, quello del Principe trentamila, quello del Dottore circa ventimila'.
Una somma certo cospicua, come dono di pellegrini già oberati dal-
le spese del loro viaggio.




Stefaneschi ci informa, altresì, che le offerte ricevute (dopo la gra-
zia dispensata) furono interamente adoperate per l'acquisto di pos-
 sedimenti, ville e chiese con giardino, mezzi di trasporto, e manu-
  tenzione delle varie 'Basiliche' sparse per tutte le campagne......
'Giorno e notte due chierici stavano presso l'altare di S. Paolo, te-
nendo nelle mani rastrelli con cui 'rastrellavano' il denaro infinito',
racconta il Ventura, che li vide negli ultimi giorni dell'anno, 'face-
vano uno grande servigio a tutti li homini corrotti di quelli altari..'.
Il particolare pittoresco, di questi 'papal croupiers' come li chiamò
con ironia uno storico moderno, 'è che per la felicità e la benevolen-
za della religione da loro servita rastrellavano grandi donativi d'oro
e d'argento come spiccioli di moneta corrente di ciascuna provincia'.
Anche 'Dante il Fallito' come ben potete leggere partecipò alla ma-
cabra farsa.....
(A. Frugoni, Pellegrini a Roma nel 1300)












sabato 24 agosto 2013

FU' NOSTRA CULTURA (52)













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Fu' nostra cultura (51)

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L'economia corrotta (53)









.... Ma, oltre che un modello di poesia, Petrarca ne dettò uno di
vita.
Egli è un personaggio assolutamente nuovo: il grande 'umanista'
del Rinascimento.
Non è vero che fosse solo un cinico e frigido calcolatore, come
qualcuno lo ha descritto, intento solo al proprio tornaconto, al
successo e alla carriera, ebbe per il vero i suoi tormenti, le sue
angosce e malinconie...
La sua serenità era più nei suoi versi e nelle prose che nella sua
coscienza e nei suoi sentimenti o gli obblighi verso coloro che
se pur amava per quella gloria cui anelava, in realtà forse.......




Tuttavia, a differenza dell'uomo medievale, era interiormente li-
bero. Per lui il mondo non era affatto un 'sogno di Dio', ma una
cosa ben solida; se non si impegnò o meglio impegolò nelle tan-
te vicissitudini del mondo con tutti i suoi intrighi (pur essendo
stato un ottimo ambasciatore...) è perché, a differenza di Dan-
te, i suoi interessi furono solo di cultura....
E nella cultura egli vedeva un sacerdozio fine a se stesso, che
esentava da qualunque altro impegno.
Per un manoscritto raro egli avrebbe sacrificato non solo la po-
litica, ma perfino la sua amata.
Nel ' 42, quando era già un personaggio altolocato e alla moda,
si mise umilmente a studiare il greco col monaco calabrese Bar-
laam, cui per riconoscenza fece assegnare un Vescovato.




Non si consolò mai di non sapere quella lingua, e pagò di tasca
propria Leonzio Pilato per tenere dei corsi a Firenze in modo
che potesse imparare a tradurre in latino l'Iliade e l'Odisea.
Quest'uomo che non avrebbe rischiato una multa per un Papa
o per un Imperatore, si sarebbe giocato l'anima per un testo di
Omero.
Era vanitoso ma non meschino fino a tradurre una novella di
Boccaccio del suo 'Decamerone' in latino, affinché i letterati di
tutto il mondo potessero gustarla (purgata) della sua volgarità,
così disse....
Purtroppo fornì anche il modello di una cortigianeria (così sot-
tilmente simile al suo altolocato Decamerone tradotto....) de-
stinata a restare nel costume della 'intellighenzia' nazionale, an-
che quando questa ebbe perso ciò che lui possedeva per riscat-
tarla: IL TALENTO...
(I. Montanelli, Storia d'Italia)



 







 

venerdì 23 agosto 2013

NON ROMPETEGLI LE 'BAAL' (le visioni dei 'folli' e la follia del genere umano) (50)
















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Non rompetegli le 'Baal' (le visioni dei 'folli' e la follia del genere umano) (49)

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Fu' nostra cultura (51)












... Negli spettri della frenesia (nell'Inferno del 'Giardino delle Delizie), la Vanità
precede il diavolo come sua avanguardia, mentre il Rimorso lo segue come sua
inevitabile retroguardia.
Bosch colloca questi tormenti della coscienza dietro il trono del Diavolo.
Scopriamo là, per metà ricoperto dalle lunghe pieghe dello strascico del demo-
ne, un letto ove è disteso un dormiente inquieto. Esso è tormentato dal guancia-
le del Diavolo' e una rana, dai grandi occhi lucenti, sbuca strisciando dalla coper-
ta per opprimere il suo cuore con un incubo.




Dietro di lui si agita un gruppo di fantasmatiche ed empie suore. Riconoscibili dai
loro veli di monache, dalle loro cuffie e dalle loro mitre ornate da una falce di lu-
na, esse fanno sicuramente parte di qualche oscura conventicola; ciò è ancor più
sottolineato dal loro sguardo dormiente agitato, come un coro di spiriti vendicato-
ri.
La prima religiosa già solleva la tenda del letto. Cosa significano dunque queste
suore spettrali?




Grazie alle 'Bibbie dei poveri' dell'epoca, sappiamo che le loro cuffie sono quel-
le dei sacerdoti e delle sacerdotesse di 'Baal' e 'Astaroth'. Bosch si scaglia effet-
tivamente contro questi riti orgiastici; la prova ci viene da un disegno di Pieter
Bruegel, della serie 'Vizi e Virtù', che descrive il peccato mortale della lussuria.
Bruegel ha largamente attinto ai motivi di Bosch.




Nella riproduzione di Pieter van der Heyden, nell'angolo di destra si nota un mo-
stro con fauci da coccodrillo, accovacciato con una mitra a due corni sul capo:
è il grande sacerdote di un culto orgiastico consacrato ai misteri del dio Attis.
Alla sua destra è accovacciato un gallo, che agita estaticamente braccia e gam-
be, sul punto di castrarsi con un coltello, per non parlare dell'offerta ad Attis
che  tiene nella mano destra.
Sul promontorio posto di fronte alla Fontana della Giovinezza dello sfondo
siede, a lato di un uomo nudo, un grasso prete, che porta in guisa di coprica-
po una falce di luna.




Questo riferimento ai sacerdoti di Baal non vuole fustigare certe forme dege-
nerate assunte dalle religioni antiche. Il ciclo 'Vizi e Virtù' mostra la coscienza
sensibile e appassionata che Bruegel aveva in realtà del suo tempo: ciò che
egli combatte sono le sette e le confraternite e i culti idolatri contemporanei.
Bosch, personalmente coinvolto in conflitti gnostici, aveva un'altra ragione
per maledire le sette orgiastiche: vere degenerazioni dell'ala sinistra del Libe-
ro Spirito, esse agivano come un cancro e corrodevano i suoi sforzi verso u-
na purezza morale rigorosa.




Il sublime cammino verso la salvezza perseguito dal Libero Spirito, sintesi,
come s'è visto, dell'Eros serafico cristiano e dell'Eros cosmogonico, veniva
contaminato dai riti occulti di queste basse e meschine conventicole, ricac-
ciato al livello d'una sessualità odiosa.
Spesso confuso e calunniato con questi maniaci, il Libero Spirito era accusa-
to delle stesse ripugnnati pratiche.
Il nostro dormiente afflitto ha avuto, per sua sfortuna, contatti con tali spi-
riti, gravando così la sua coscienza senza scampo, o meglio potremmo dire
che li ha uditi, ma solo l'ascolto di tanta scemenza ha macchiato il suo spiri-
to.
 Nell'ultima scena, con una violenza ancora maggiore, Bosch regola i conti
con questi spiriti frenetici.




E' la più sconvolgente di tutto il dipinto: la caricatura della depravazione mo-
rale è qui spinta sino ad una oscenità infernale. Una donna bionda e grossa,
vestita ridicolmente, il pesante petto e le natiche rotonde impudicamente o-
stentati alla vista di tutti in tutta la sua enorme volgarità, striscia a terra co-
me una cagna copulante.
E' montata da un demonio scarnificato che ha lunghi speroni ai piedi. Con il
suo cappello piatto, calato profondamente sul capo, il viso pallido e la barba
appuntita, con i movimenti pressanti della schiena e delle braccia, questo o-
scuro viziato ci appare come lo Shylock spietato e laureato del desiderio ses-
suale...
(W. Fraenger, Il regno millenario di H. Bosch)













HAI GUARDATO PROPRIO BENE? (5)











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Forma e immagine: vera e falsa (4) &

Fu nostra terra









- E' una figura come un quadro....
Annuii. Lui doveva credermi in grado di seguire i suoi discorsi, a tutti
i costi.
- Hai occhi molto grandi,
disse allora lui.




Avvampai in volto.
- Lo dicono tutti, signore.
- Vuoi guardare di nuovo là dentro? (ma sei sicura di capire la simmetria
che intercorre fra l'immagine vista, colta, rubata, osservata, ...e il con-
tenuto con cui la vera forma si mostra....)
Non avrei voluto, ma capivo che non potevo dirlo (forse è vero quello che
cercava di dirmi, l'immagine contiene una forma non visibile, antica, un....
Dio o un Signore...uno spirito antico, un'anima ....)




Rimasi incerta per un po' (come se la terra tremasse...).
- Guarderò di nuovo, signore, ma solo se rimango qui da sola.
Si mostrò sorpreso, poi divertito.
- Va bene.
Mi porse la vestaglia.
- Tornerò tra pochi minuti e busserò alla porta prima di entrare.




Se ne andò, chiudendosi la porta alle spalle.
Afferrai la vestaglia, con le mani che mi tremavano (quale segreto mi na-
scondeva, cosa voleva dirmi, cosa voleva che in realtà guardassi?....)
Per un momento pensai che avrei solo finito di guardare, e poi avrei detto
di aver guardato (ma avevo visto?). Ma lui avrebbe capito che stavo men-
tendo. Inoltre ero incuriosita.




Fu più facile ragionarci sopra senza il suo sguardo puntato su di me (eppu-
re ero io che dovevo guardare, o forse lui attraverso....il dubbio mi colse
come un terremoto...).
Trassi un profondo respiro e guardai nella cassetta.
Sul vetro vedevo una sagoma confusa di quell'angolo della stanza.




Quando mi tirai la vestaglia sulla testa, l'immagine, come lui la chiamava,
divenne sempre più chiara (tutto il percepito era inerente alla realtà vista
ogni giorno....ma il suo sguardo quasi da filosofo mi lasciava un profondo
dubbio...): il tavolo, le sedie, la tenda gialla nell'angolo, la parete dello
sfondo con la carta geografica appesa, il vaso di ceramica scintillante sul
tavolo, la coppa di peltro, il piumino, la lettera....




Era tutto là, raccolti davanti ai miei occhi (tutti oggetti materiali, tutto co-
me ieri, e forse come domani, tutto in ordine...composto, solo lui mi sem-
brava diverso....), raccolti davanti ai miei occhi su una superficie piatta,
un quadro che non era un quadro (una realtà che non era ...questa realtà,
uno spirito invisibile ed una materia altrettanto visibile e sindacabile...un
contrasto strano....).




Con molta cautela toccai il vetro, era liscio e freddo, senza traccia di pit-
tura.
Mi liberai della vestaglia e l'immagine tornò a essere vaga, sebbene rima-
nesse dov'era. Tornai a tirarmi addosso ancora una volta la vestaglia, cre-
ando il buio, e rimirai i colori splendenti che erano tornati a mostrarsi.
Sul vetro sembravano più luminosi e più vivi di quanto non fossero nella
realtà, lì nell'angolo (più vivi, sì come se qualcosa o l'anima di ....).




Smettere di guardare nella cassetta fu difficile come lo era stato distogliere
gli occhi dal quadro della donna con la collana di perle la prima volta che
lo avevo visto.
Quando udii bussare alla porta feci appena in tempo a raddrizzarmi e a
lasciarmi scivolare la vestaglia dalle spalle prima che lui entrasse.




- Hai guardato ancora, Griet? ...Hai guardato proprio bene? (hai visto qual-
cosa Griet...oltre a quello che pensi aver studiato....?).
(T. Chevalier, La ragazza con l'orecchino di perla)













lunedì 19 agosto 2013

LA FORMA E' IL VUOTO E IL VUOTO E' LA FORMA STESSA














 

- Sedetevi, Kuchog,
dissi al visitatore.
- E' fatica sprecata la vostra. Non c'è nulla di curioso da vedere qui.
- Ci siete voi,
rispose il lama.
- Cosa fate qui?
- Aspetto che le piaghe delle mie bestie guariscano per ripartire.




- Da dove venite?
- Dal Nord, vicino alla Mongolia.
- Dove andate?
- A Sud, nel mio paese.
- Quale?
- Gyamed.
- Ma non siete cinese.
- No, come non lo sono i gyaronpa. Anche i gyamedpa sono diver-
si dai cinesi.




- Ah!
Questo nome lasciava il lama perplesso, non si immaginava bene
di quale regione si trattasse.
- Yunnan?
chiese.
- Più a Sud....
- E' molto lontano?
- Lontanissimo...




Seguì un lungo silenzio.
- E in questo paese, le persone sono nangpa (buddhiste)?
- Sì.
- Siete religiosa da tanto?
- Dieci anni.
Mi guardò per un po'.
- Cosa facevate prima?
- Ero sposata.




- Vostro marito è morto?
- No, mi ha permesso di abbracciare la religione... ha altre
due mogli.




La porta si richiuse all'improvviso dietro Yongden che scappò
per timore di non trattenere la sua ilarità. Non mi divertivo co-
me lui, questo interrogatorio mi infastidiva. Vi misi fine.
- In che modo tutto ciò vi può interessare, Kuchog?
- Non mi interessa per niente. I trapa mi hanno detto che qui c'-
era una ani straniera che per tutto il giorno recita libri religiosi
e mi è parso sorprendente.
...Cosa recitate?




- Non recito, leggo.
Mi guardò nuovamente con aria canzonatoria.
- Eh sì! Leggo,
ripresi quasi in collera.
- Leggo per cercare di sapere come 'la forma è il vuoto e il
vuoto è la forma stessa', come 'al di fuori del vuoto non ci
sia forma e al di fuori della forma non ci sia vuoto'.




Non rispose, si fece serio e alzandosi andò a esaminare i libri
che avevo sul tavolo (certamente è una cosa assurda, ma l'in-
telligenza unita all'antica sapienza mi imponeva di tacere...).
- Tempi brutti, jetsune kuchog,
disse, dopo aver finito l'ispezione.
- Lo spirito degli uomini è rivolto alla cattiveria (al male..),
pensano solo a fare e farsi del male. Cercando solo il proprio
bene, preparano la loro rovina.




Sono ciechi; gli manca la tranquillità (per questo la privano
agli altri...) nella quale sviluppare la 'visione profonda' che
produce saggezza.
I chirolpa e altri ancora hanno pensato, meditato, hanno a-
vuto saggi e santi, ma non hanno continuato a credere alla
realtà di un 'io' separato, isolato.
Di questa cosa inesistente hanno fatto oggetto di adorazio-
ne, per cui si tormentano...e tormentato gli altri.




Non hanno raggiunto la 'visione profonda' (per questo mor-
tificano l'anima altrui ...) che rivela l'irrealtà dell'io che appa-
re loro.
Fino a quando non avranno riconosciuto l'errore di credere
nell'io, saranno sottomessi alla dolorosa illusione della nasci-
ta e della morte. Riconoscere questo errore ed estirparlo dal-
la nostra mente, libera dalla morte.




Tacque a attesi in silenzio, come per non interrompere il filo
dei suoi pensieri se avesse voluto continuare, ma cambiò ar-
gomento.
- La mia famiglia era dei dintorni di Gartag,
riprese il lama.
- Ho avuto come guru un lama che aveva raggiunto la 'visio-
ne profonda'. Non era un gomchen, non aveva mai ritenuto
necessario ritirarsi in un eremo. Vedeva ogni cosa diversa-
mente da come la percepiamo noi attraverso la nostra igno-
ranza....
(Alexandra David Néel)











domenica 18 agosto 2013

TERZA GIORNATA (quarta novella) (48)





































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Terza Giornata (quarta novella) (47)

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Non rompetegli le 'Baal' (le visioni dei 'folli' e la follia del genere umano) (49)












Frate Puccio, tutto contento, disse:
- "Quel che mi hai detto non mi pare poi così pesante da farsi e nemmeno lungo.
Voglio cominciare domenica, nel giorno che prende nome da Nostro Signore
Domineddio".
Poi, domandò a Don Felice se poteva raccontare la cosa alla moglie e, ottenuto
il permesso, dopo averlo caldamente ringraziato, se ne tornò a casa, dove mise
a parte Isabetta del suo prossimo processo di beatificazione.
Lei comprese bene quali erano state le intenzioni del monaco quando aveva da-
to quelle istruzioni al marito. Aveva trovato il modo di non farlo muovere per
parecchie ore. Le sembrò un ottimo espediente e perciò disse a Puccio che tut-
to quel che lui faceva per il bene dell'anima sua non poteva che farle piacere.
Anzi, per aiutarlo, avrebbe digiunato anche lei. Il resto no, avrebbe dovuto far-
lo da solo, ché altrimenti temeva che non avrebbe avuto pieno valore.
Venuta dunque la domenica, frate Puccio cominciò la penitenza, mentre il mo-
naco, messosi d'accordo con sua moglie e facendo bene attenzione a non es-
sere visto da nessuno, cominciò a venire a cena a casa sua quasi tutte le sere.
Portava sempre ottimi vini e cibi prelibati, per cui lui e Isabetta mangiavano be-
ne e bevevano meglio.

 


Poi, godevano l'uno dell'altra fino alle tre del mattino.
A quell'ora, Don Felice se ne andava e il marito entrava sfinito nel suo letto.
Il posto scelto da frate Puccio per la sua penitenza era proprio a fianco della
camera della moglie, da cui era separato da un muro sottilissimo. Per cui capi-
tò una notte che i due amanti fecero un tale fracasso e si dimenarono a tal pun-
to che al penitente sembrò che venisse giù la casa.
Dato che cento paternostri li aveva già detti, pensò di poter fare una pausa.
Rimanendo sempre immobile, chiamò la moglie e le domandò che cosa stesse
facendo.
Isabetta, che aveva la risposta pronta, senza smettere di cavalcare per non per-
dere l'andatura, gli disse:
- Marito mio, io mi dimeno quanto posso.
Al che lui:




- Come sarebbe che ti dimeni? Che vuol dire questo dimenamento?
Lei, che era una donna di spirito, gli disse:
- Com'è che non sapete che significa? Ve l'ho sentito dire mille volte: chi la se-
ra non cena, tutta la notte si dimena.
Frate Puccio pensò che fosse il digiuno la causa di tutto quel suo movimento,
per cui, senza il minimo sospetto, le fece:
- Donna, ti avevo detto di non digiunare. Ma dal momento che lo hai voluto
fare, cerca di startene tranquilla e di riposarti. Dai dei colpi tali che fai tremare
tutto!
Lei fu pronta a replicare:
- Pensate a quel che state facendo voi, piuttosto, e non vi preoccupate per me.
So bene quel che sto facendo, ma non posso farne a meno.
frate Puccio si tranquillizzò e riprese con i suoi paternostri.
Da quella notte in poi, però, Isabetta e il monaco decisero di cambiare posto.
Fecero preparare un letto in un'altra parte della casa e presero ad andare a
sollazzarsi per il tempo che durava la penitenza di Puccio.




La cosa continuò senza altri intoppi.
A una certa ora, Don Felice se ne andava e Isabetta se ne tornava nel suo
letto, dov'era raggiunta poco dopo dal marito che, per quella sera, aveva con-
cluso le sue santificanti fatiche.
La donna, quand'era con il focoso monaco, a volte, scherzando, gli diceva:
- Tu fai fare la penitenza a frate Puccio, ma grazie ad essa siamo noi ad aver
guadagnato il Paradiso!
Si era talmente abituata al cibo che le veniva dato dopo tanta dieta e ne era
tanto soddisfatta che fece in modo di non smettere di mangiar bene anche
quando il marito avesse terminato il suo ciclo di espiazione.
Lei e Don Felice, si misero d'accordo per continuare a vedersi anche dopo,
con discrezione, ovviamente, ma sempre con grande piacere di entrambi.
Orbene, per riallacciarmi all'inizio del mio racconto, vedete bene che frate
Puccio, credendo con la sua penitenza di mettere se stesso in Paradiso, in
realtà ci mise il monaco, che gli aveva insegnato la via più rapida per andar-
ci, e la moglie, che con lui viveva in ristrettezze, bisognosa di quel che inve-
ce il sant'uomo, misericordioso come deve esserlo ogni buon cristiano, le
dava in abbondanza.....
(L. Corona Decameron di Boccaccio)