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Prosegue con...
Progetti separatisti... (19)
& What shall it profit (?) (20)
Il
giornale del Partito fascista, ‘Il Popolo d’Italia’, lo sostiene in modo esplicito:
Non mi meraviglierei che dovesse risultare domani come la mano stessa che forniva
a Londra all’on. Matteotti i documenti mortali, contemporaneamente armasse i
sicari che sul Matteotti dovevano compiere il delitto scellerato. L’autore
dell’articolo si nasconde dietro lo pseudonimo di ‘Spettatore’, ma a ispirarlo
– è stato appurato – è direttamente la presidenza del Consiglio, cioè Mussolini.
Seppur
velatamente, il cronista pare individuare il mandante del delitto proprio nella
britannica Anglo-Persian.
La
contraddizione, almeno all’apparenza, è evidente: perché la mente che ha armato
Matteotti contro Mussolini, consegnandogli documenti compromettenti, avrebbe
dovuto contemporaneamente armare anche la mano dei suoi assassini prima che
potesse pronunciare il suo discorso in parlamento?
L’ipotesi
del presunto doppio gioco degli inglesi non trova altro fondamento certo,
tuttavia la domanda resta, poiché una responsabilità diretta del duce non è mai
stata provata in nessuno dei tre processi per il delitto; neppure in quello,
l’ultimo, celebrato subito dopo la guerra, nel 1947, quando il regime si era
ormai dissolto, Mussolini era morto, l’Italia era stata liberata ed era ormai
una repubblica democratica. Ma oggi, alla luce dei documenti riguardanti
Churchill e l’affaire Dumini rinvenuti negli archivi nazionali
britannici di Kew Gardens a Londra dagli autori di questo libro, è forse
possibile aggiungere le tessere mancanti del mosaico.
Dopo
l’assassinio il governo annulla l’accordo con gli americani
La
prima tessera è proprio l’ambigua figura di Dumini, l’uomo della Ceka che ha guidato
il commando dei rapitori e degli assassini di Matteotti. Massone iscritto alla
Gran Loggia nazionale di piazza del Gesù con il terzo grado, quello di Maestro,
vanta con il regime rapporti stretti almeno quanto quelli che intrattiene con
il mondo anglosassone.
Dumini
è nato nel 1894 a Saint Louis, negli Stati Uniti, e il padre Alfredo è un mercante
d’arte fiorentino. La madre, Jessica Wilson, è invece rampolla di una facoltosa
famiglia inglese: ha due sorelle che conducono una vita molto agiata nei pressi
di Londra, un fratello, ricco commerciante, che si è stabilito in Australia, e
un altro fratello, ingegnere, che svolge un compito piuttosto delicato in
America per conto del governo inglese nel settore della costruzione di navi da guerra.
Qualche tempo dopo il delitto, nel 1933 – racconta Peter Tompkins, l’uomo dell’Oss
(ovvero l’Office of Strategic Services, il servizio segreto Usa in tempo di
guerra, poi ribattezzato Cia) in Italia –, Dumini, forse sentendosi abbandonato
dal regime, scrive un memoriale e lo invia a due legali di estrema fiducia, uno
in America e l’altro in Inghilterra, con l’invito a renderlo pubblico nel caso
in cui venga assassinato. Ma non gli succede nulla. Anzi, viene inserito nei
ranghi dei servizi italiani e inviato in Libia. Scoppiata la guerra, quando gli
inglesi entrano a Derna, nel 1941, lo arrestano e lo fucilano. Viene solo
ferito, però, e riesce a scappare dopo essersi finto morto.
Questa,
almeno, è la versione ufficiale diffusa dagli stessi britannici.
Nel
1943 Dumini segue Mussolini a Salò, dove continua a svolgere il suo ruolo di
agente segreto per conto dell’intelligence della Repubblica sociale e con ogni
probabilità anche di Londra. Arrestato nuovamente dagli inglesi nel 1945, a guerra
conclusa, due anni dopo viene processato e condannato all’ergastolo per il delitto
Matteotti. Ma la pena è prima ridotta a trent’anni e poi, grazie a una serie di
indulti, praticamente annullata. Ed è davvero difficile pensare che dietro la clemenza
dei vari tribunali non ci siano ragioni inconfessabili, per esempio qualche
debito da saldare nei confronti di un personaggio che aveva ben servito la
causa.
La
seconda tessera è il gerarca fascista De Bono, alle cui dipendenze lavora Dumini
all’epoca del caso Matteotti. Il capo della Milizia è legato alla Gran Bretagna
da un filo doppio: attraverso la massoneria, come abbiamo visto; e in quanto
fiduciario di Casa Savoia, i cui rapporti con la Gran Bretagna non sono mai
venuti meno, rafforzandosi anzi con il passare degli anni.
Assume
quindi una certa importanza il fatto che una copia delle carte compromettenti
sulla convenzione Sinclair, quelle che erano nella borsa di Matteotti, finisca
proprio nella cassaforte di De Bono. Il gerarca utilizza quei documenti per
ricattare Mussolini e ottenere un risultato favorevole agli interessi
britannici?
Ipotesi
più che plausibile. Di sicuro – e la coincidenza non può non impressionare –
subito dopo l’assassinio del deputato socialista, quando si diffonde la notizia
dei suoi incontri londinesi e delle informazioni che ha raccolto nella capitale
inglese, il governo italiano annulla immediatamente gli accordi con la
Sinclair. Non solo. Anni dopo, deposto Mussolini il 25 luglio 1943, tra i
gerarchi della corrente filobritannica che hanno partecipato al golpe firmando
l’ordine del giorno proposto da Dino Grandi, c’è anche De Bono. Il quale,
processato a Verona da un tribunale della Repubblica sociale e condannato a
morte insieme ad altri, tenta di salvarsi la pelle consegnando a Mussolini i
documenti di Matteotti.
Quel
materiale si trova probabilmente fra le carte sequestrate dagli inglesi a Mussolini,
a Dongo, poco prima che il duce sia fucilato: il famoso archivio sui rapporti
segreti tra il fascismo e il governo di Londra, che tanto avrebbe imbarazzato
Winston Churchill e la Corona britannica se fosse finito in mano ai partigiani
o, peggio, a conoscenza dell’opinione pubblica. I profili e le storie personali
di Dumini e De Bono portano certamente a Londra. E il loro speciale legame con
quel governo autorizza quantomeno a ipotizzare un qualche doppio gioco da parte
loro.
Quale
potrebbe essere, dunque, il tassello mancante del caso Matteotti?
Le
carte segrete e la finta morte di Dumini
Facciamo un passo indietro e torniamo all’inizio
del 1941. Quando gli inglesi conquistano Derna, in Libia, la prima cosa che
fanno gli uomini dell’intelligence è raggiungere l’abitazione di Dumini. La
ragione di tanta fretta è che gli agenti di Sua Maestà cercano qualcosa che per
loro è di enorme importanza. Infatti, dietro una finta parete, il tenente Duff
e i suoi uomini del Naval Service trovano l’archivio segreto del sicario di
Matteotti. Materiale scottante, con molte lettere di Mussolini e altri
documenti su quel delitto assai pericolosi per il duce.
Ma solo
per lui?
Dumini,
con le sue carte, viene subito trasferito al Cairo, dove valuta con i servizi
britannici quale possa essere il modo migliore di gestire la faccenda. Le sue
controparti sono il colonnello George Pollock (Special Operations) e l’agente
Rex Leeper. Molto probabilmente Dumini si assicura l’incolumità offrendo il suo
archivio all’intelligence in cambio della protezione inglese. La spia italiana
rimane per qualche tempo al Cairo, in gran segreto, mentre i suoi documenti
vengono immediatamente trasferiti a Londra e messi al sicuro negli archivi del
Naval Service. Qualche mese dopo, ai primi di novembre, le autorità militari
britanniche al Cairo, assieme all’ambasciatore in Egitto Sir Miles Lampson,
propongono un piano al Foreign Office (il ministero degli Esteri britannico):
redigere un falso certificato di morte dell’agente italiano, la cui ‘fucilazione’
sarebbe avvenuta il 7 aprile 1941.
Si
punta a ottenere due risultati. Da un lato, la sua scomparsa allontanerà ogni
sospetto sui suoi rapporti con l’intelligence britannica, che anzi potrà
continuare a servire anche negli anni successivi. Dall’altro, sapendo che il sicario
di Matteotti ha inviato un memoriale a due legali in America e in Inghilterra,
pregandoli di renderlo pubblico in caso di morte, la diplomazia britannica è
certa che la notizia del suo decesso indurrà gli avvocati a diffondere quel
documento, con effetti propagandistici devastanti per l’immagine del duce. Londra
approva il piano il 13 novembre 1941. Ma l’ambasciatore in Egitto e il Foreign
Office, che probabilmente non sono informati su tutti i retroscena dell’affaire
Dumini, non hanno messo in conto la reazione di Churchill. Una reazione
furibonda. E incredibilmente strana. Non appena viene messo a conoscenza del
piano predisposto dall’ambasciatore Lampson e dal Foreign Office, il 14
novembre, il premier si inquieta non poco, perché ‘la faccenda sembra molto
seria’.
Tre
giorni dopo, durante una riunione del War Cabinet, il gabinetto di Guerra,
ordina infatti di mettere tutto a tacere. La vicenda Dumini, leggiamo nei
documenti inglesi, dev’essere ‘attentamente valutata’ perché potrebbe provocare
‘attacchi’ in grado di danneggiare il Regno Unito. Al ministero degli Esteri
britannico appare del tutto incomprensibile il comportamento di Churchill. Il
Foreign Office non capisce perché non si debba sfruttare contro Mussolini
un’occasione così ghiotta. La faccenda sembra chiusa. Trasferito il suo
archivio a Londra, Dumini scompare nel nulla, salvo riapparire più tardi di
nuovo al fianco di Mussolini, a Salò.
Ma
c’è un imprevisto che getta Londra e Churchill di nuovo nel panico. Nel maggio
del 1942, un anno dopo il ritrovamento dell’archivio a Derna, nonostante sia
stata bloccata l’idea di utilizzare quelle carte contro Mussolini, chissà come,
perché e da chi, a un giornalista australiano al Cairo, John Lardner, viene
riferita la notizia della ‘morte’ di Dumini. Ignaro ovviamente dei retroscena,
il giornalista la prende per buona e la ‘gira’ alla stampa americana. L’articolo
esce sul ‘New York Times’ il 14 maggio 1942. Londra entra subito in fibrillazione,
temendo la pubblicazione del materiale che l’assassino di Matteotti ha inviato
anni prima ai suoi legali in Inghilterra e Stati Uniti. L’agitazione britannica
risulta con tutta evidenza dalle pressanti richieste di chiarimenti inviate da
Londra alla sua ambasciata di Washington. Ma Churchill, anche in questa
occasione, ha molta fortuna, oppure riesce ancora una volta a insabbiare il tutto.
Perché l’avvocato londinese non rende pubblica neppure una riga. Mentre quello
americano, Martin Robertson (San Antonio, Texas), si limita a divulgare, il 16
maggio 1942, un innocuo memoriale di un centinaio di pagine, in cui Dumini
ammette di aver partecipato al sequestro del deputato socialista, professando
però la propria innocenza per la sua morte: tutto lì, non emerge nient’altro.
Il
potenziale esplosivo di quei documenti viene così disinnescato. E il premier
britannico tira un sospiro di sollievo.
Mussolini
pagato dagli inglesi
Torniamo
allora alla domanda iniziale: perché Churchill ha tanta paura di quello che
potrebbe saltar fuori dalle carte sul delitto Matteotti?
Le
risposte sono diverse.
Alcune
ipotetiche perché basate solo su indizi, per quanto molto seri. Altre certe,
perché fondate su documenti trovati negli archivi londinesi dagli autori di
questo libro. Ad angosciare il premier ci sarebbe innanzitutto il rischio che
venga alla luce che Dumini fosse al servizio dell’intelligence britannica già
dal 1919-1924, cioè nel periodo che va dall’ascesa al potere di Mussolini fino
al delitto Matteotti.
Vediamo
ora, invece, le risposte certe.
Intanto,
in quello stesso periodo, anche il duce intrattiene rapporti con i servizi segreti
di Londra. Nel gennaio del 1918, subito dopo la disfatta italiana a Caporetto,
il diplomatico inglese Samuel Hoare apre a Roma una sede dell’MI5 (Military
Intelligence, Sezione 5, ovvero l’agenzia britannica per la sicurezza e il controspionaggio).
Con una missione molto precisa: spostare l’opinione pubblica italiana dalla
parte delle potenze alleate che combattono contro gli imperi centrali,
reclutare uomini politici e giornali e tenere d’occhio i filotedeschi (tra questi
ultimi, come risulta da decine di rapporti inviati a Londra da Hoare, c’è anche
il cardinale Eugenio Pacelli, il futuro Pio XII). Nella fase finale della prima
guerra mondiale i servizi britannici foraggiano abbondantemente uomini di
partito, direttori di giornali e giornalisti perché conducano una campagna di
stampa a favore di Gran Bretagna e Francia. E tra costoro c’è anche Benito
Mussolini, ex esponente di punta del Partito socialista, che percepisce 100
sterline alla settimana da Sir Hoare.
Churchill
evidentemente sa che il duce è un uomo degli inglesi. Di più: è un suo ammiratore
e intrattiene con lui intensi rapporti epistolari. Ne favorirà l’ascesa al potere
per contenere non solo il pericolo social-comunista in Italia, ma anche quello
bolscevico in Europa. E non esita, in seguito, all’epoca in cui il regime fascista
è nel pieno del suo splendore, a esprimergli pubblicamente tutta la sua ammirazione,
definendolo il ‘salvatore dell’Italia’ e ‘il più grande legislatore vivente’.
Quando
nell’aprile del 1924 Matteotti si reca in gran segreto a Londra per incontrare
i laburisti, i Tories sono all’opposizione. È assai probabile che gli uomini
dell’intelligence vicini ai conservatori apprendano che il deputato socialista
è ripartito dalla Gran Bretagna con le prove sulle tangenti pagate in Italia
dall’americana Sinclair Oil, e che utilizzerà quelle carte in parlamento contro
Mussolini.
Churchill,
dunque, non può consentire che il regime italiano rischi di cadere, travolto
dalle carte di Matteotti, compromettendo anche la politica petrolifera inglese
(di cui lo statista è uno dei grandi strateghi sin dai primi del Novecento). Come
abbiamo visto, proprio alla vigilia del caso Matteotti, la britannica Apoc ha
messo in piedi il suo progetto di assalto al mercato italiano. Puntando in due
direzioni. Da un lato, l’obiettivo è l’americana Standard Oil. Dall’altro la stessa
Italia, o meglio: quella parte meno ‘anglofila’ del regime che comincia a scommettere
su una politica energetica autonoma attraverso la costituzione di un ente
petrolifero nazionale. Un disegno pericoloso quanto la presenza degli Usa, per
gli interessi britannici nel Mediterraneo e in Medio Oriente, e che Londra tenta
di contrastare in tutti i modi attraverso le sue quinte colonne italiane.
Gli
interessi inglesi sono salvi. E Mussolini pure
Tra
il 1920 e il 1921, pur tra mille difficoltà, il governo liberale costituisce la
Direzione generale dei combustibili (Dgc), che ha il compito di ridurre la dipendenza
energetica italiana dalle compagnie straniere. Ma una commissione parlamentare,
istituita per elaborare una proposta di riordinamento dell’amministrazione
dello Stato, verso la fine del 1921 conclude i suoi lavori con la proposta di
abolire la Dgc, provocando la violenta reazione di una parte del governo. Il
ministro dell’Agricoltura, da cui la Dgc dipende, dichiara che se tale proposta
fosse accettata, comprometterebbe, ‘con grave pregiudizio dell’economia
nazionale, la politica di combustibili all’estero, e particolarmente l’approvvigionamento
degli olii minerali’, cioè quella politica avviata dalla Dgc per assicurare al
paese ‘le fonti di petrolio all’estero, onde emanciparsi dal servaggio imposto
all’Italia dai grandi trust internazionali’.
Un’esigenza
– dettaglio non di poco conto in quel contesto – che induce tra l’altro il
governo italiano a stipulare con la neonata Urss, nel 1923, un accordo per le
forniture petrolifere; scelta che Mussolini giustifica alla Camera con queste
parole: ‘Il trattato con l’Unione Sovietica nasce dalla necessità di rinsaldare
l’indipendenza del nostro mercato dai trust internazionali nelle cui mani non
possiamo affidare l’avvenire della nostra industria e la stessa sicurezza dei
servizi pubblici, in particolare quelli attinenti la difesa della nostra Patria’.
È
un atto che i britannici non gradiscono.
Innanzitutto,
perché un loro agente ha osato ‘muoversi in proprio’, andando addirittura
contro la decisione di boicottare il petrolio ‘comunista’ presa l’anno
precedente, nel 1922, alla conferenza dell’Aja. E poi perché, visto che gli
inglesi si accingono a dare l’assalto al mercato italiano, anche i rapporti tra
Roma e Mosca (come quelli con le americane Standard Oil e Sinclair Oil)
costituiscono una minaccia per i loro interessi. Insomma, non vogliono che il
nostro paese si trovi un giorno nella condizione di emanciparsi dalla
dipendenza energetica, e quindi anche politica, britannica. Un obiettivo che
coincide con quello di una parte del ceto politico e del mondo
dell’informazione italiani dell’epoca.
La
Direzione generale combustibili viene chiusa nel 1923, con una decisione
imposta dallo stesso Mussolini. E con quell’atto si spalancano alla Gran
Bretagna le porte del mercato italiano e le vie del petrolio dal Medio Oriente
all’Europa, proprio attraverso l’Italia.
Dunque,
nonostante certe sue intemperanze e velleità autonomistiche, il duce è per
Churchill, e per gli interessi economici che il leader conservatore britannico
rappresenta, una pedina troppo importante perché si possa correre il rischio
di perderla.
L’assassinio
di Matteotti, proprio alla vigilia del suo importante discorso alla Camera,
quello in cui avrebbe denunciato le tangenti legate alla convenzione con la
Sinclair, risolve ogni problema. A Mussolini. Alla britannica Apoc. E a
Churchill che, attraverso le carte di De Bono e quelle di Dumini, può
continuare a tenere in pugno il duce. Gli americani sono messi da parte,
Mussolini non cade perché Matteotti non riesce a pronunciare la denuncia in
parlamento, e gli interessi inglesi sono salvi. Churchill insomma sceglie il male
minore, pur di salvare il duce da una catastrofe annunciata.
(Cereghino/Fasanella,
Il golpe inglese)