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Storico-Intellettivo (9)
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Prima che Evans effettuasse gli scavi di Cnosso, l’interesse principale dell’archeologia preistorica dell’Egeo era la ricostruzione della protostoria della Grecia e il rapporto tra la sua tradizione mitica e la storia di Omero. Nel XVIII secolo, i viaggiatori europei consideravano le rovine della Grecia come vestigia di questa tradizione mitico-storica. Il conte francese Choiseul-Gouffier (1782), che visitò le isole greche e la Troade con una copia di Omero in mano, costruì mappe storiche che abbinavano la tradizione epica alle rovine fisiche e proiettavano la storia greca nella preistoria, senza ripensamenti. La parola miceneo non esisteva ancora e gli studiosichiamavano i popoli preistorici della Grecia Pelasgi, una designazione derivata da Ecateo ed Erodoto. Nello stesso periodo, lo studioso tedesco Karl Hoeck (1794–1877) ebbe l’idea intelligente di separare l’orizzonte culturale di Creta da quello della terraferma. Concepì la gente dell’isola come non-greca e quindi battezzò il periodo dell’età del bronzo cretese minoico.
Tale era lo stato delle cose quando Heinrich Schliemann
fece le sue spettacolari scoperte a Troia e Micene nel diciannovesimo secolo,
presumibilmente portando alla luce le città dei poemi epici omerici. Le rovine
di Micene erano state lì, naturalmente, visibili attraverso i secoli, ma le
ricche scoperte di Schliemann hanno reificato il mito. E quando annunciò le sue
scoperte al mondo, sembrava davvero che il metodo mito-storico degli studi
precedenti fosse stato verificato. La religione del periodo era considerata una
versione precoce del sistema di credenze omeriche. Quando Schliemann trovò
delle statuette di argilla nei suoi scavi, non esitò a identificarle come
versioni iniziali di Afrodite ed Era, e quando trovò delle asce doppie, le
identificò come l’armadi Zeus di Labranda.
Nuove basi furono aperte con “Mycenaean Tree and Pillar Cult and its Mediterranean Relations”, un ampio articolo di circa 100 pagine pubblicato nel 1901. Si noti che il termine ‘greco’ è vistosamente assente dal titolo, sebbene Evans non combattesse l’ortodossia rappresentata da Schliemann e altri (in realtà ammirava profondamente Schliemann). Evans fece sempre la concessione che alcuni elementi della religione greca erano in effetti prefigurati dalla religione della Creta dell’età del bronzo, e non di rado utilizzò il mito greco per sedurre il suo pubblico. Sapeva come scrivere una buona storia e inventare giochi di parole intelligenti: ‘In mezzo al labirinto delle congetture abbiamo qui un’Arianna per fornire l’indizio’. La rottura con la tradizione precedente è tuttavia ovvia.
Ma le innovazioni sono notevoli.
Esse consistono innanzitutto nell’ampliamento degli
orizzonti della religione dell’età del bronzo con l’inclusione dell’Egitto e
del Vicino Oriente. In secondo luogo e cosa più importante, egli adotta una posizione
contraria all’idea semplicistica dell’evoluzione secondo cui il progresso è
costante e inevitabile nel tempo e che le culture successive sono sempre più avanzate
di quelle precedenti (questa tendenza si
era affermata nel campo dei classici fin dal XVIII secolo).
Contrariamente all’opinione di alcuni studiosi contemporanei, Evans aveva una nozione insolita e sofisticata del progresso storico e ammetteva la possibilità di una regressione. Gran parte di ciò era dovuto a Charles Darwin e al suo entourage, di cui si parlerà più avanti. Basti menzionare qui che in “L’origine dell’uomo”, Darwin sosteneva che le culture erano capaci di regressione sia intellettuale che morale e che i passi indietro nella civiltà erano dimostrabili nella storia. ‘Dobbiamo ricordare che il progresso non è una regola invariabile’, affermava, perché chi aveva mai superato i Greci?.
Al suo amico, il geologo Charles Lyell, Darwin scrisse
che la selezione naturale ‘non implica
alcuna tendenza necessaria al progresso’.
Evans affermò: ‘La
cultura greca non nacque dal nulla, disse, ma deve aver avuto precedenti nel
Mediterraneo, proprio come gli organi degli animali evoluti avevano precedenti
negli organismi inferiori’.
Questi sono i giorni delle origini e ciò che è vero per le forme più elevate di vita animale e per le attività funzionali è altrettanto vero per i principi vitali che hanno ispirato la civiltà matura della Grecia Invecchiando, Evans divenne più esplicito riguardo alla superiorità della religione minoica e difese con aggressività la sua rara brillantezza. Ma tornando al 1901, la sua innovazione più importante fu l’introduzione di un nuovo kit di strumenti mentali per lo studio della religione minoica, derivato principalmente dal lavoro dell’antropologo EB Tylor e del gruppo darwinista.
Il padre di Arthur Evans, Sir John Evans, aveva avuto un
ruolo non da poco nella formazione di una rete sociale e intellettuale che si
occupava principalmente delle prime origini dell’uomo e dell’evoluzione mentale
dell’uomo nel corso di centinaia di migliaia di anni. John Evans era
affettuosamente conosciuto tra i suoi amici della Royal and GeologicalSocieties
come ‘flint-Evans’ per i suoi importanti studi sugli utensili in pietra nella
Gran Bretagna preistorica. Fu così che catturò l’attenzione di Darwin, con il
quale scambiò lettere.
John Evans era anche amico dello specialista preistorico John Lubbock, amico di Darwin; il gruppo si consolidò ulteriormente attraverso interazioni sociali e idee. Un altro membro dell’entourage di Darwin era EB Tylor, l’antropologo più eminente in Gran Bretagna dopo la pubblicazione della sua opera in due volumi “Primitive Culture” (1871). Riguardo a questo libro, Darwin scrisse al suo amico Wallace: ‘A proposito, hai letto Tyler [sic] & Lecky? Entrambi questi libri mi hanno interessato molto’.
Cosa imparò Evans da Tylor e dal suo kit di ‘antropologia
mentale’, come Tylor stesso definì il suo lavoro? Una questione, forse la più
importante, riguardava l’essenza della civiltà stessa, che Tylor vedeva come
una combinazione di atteggiamenti morali ed estetici. L’umanità, fin dal suo
inizio, era capace di provare simpatia per altri esseri umani e persino per gli
animali? La risposta fu affermativa. La simpatia o empatia era la capacità di
entrare nella mente di un altro essere e condividere la sua sofferenza; ciò
costituiva la base del comportamento morale. Tale tesi era stata proposta da
Darwin, e ha un suo merito, poiché si dice che i criminali spesso mancano di
empatia.
La visione di Evans della civiltà è essenzialmente la stessa di Darwin e Tylor. Consisteva nella coltivazione dell’estetica da un lato, e nell’empatia istintiva con altri esseri viventi, persino animali, dall’altro (ecco perché considerava così importante il coinvolgimento dei Minoici con la natura). A differenza dei classicisti contemporanei che credevano che ‘primordiale’ andasse di pari passo con ‘primitivo’, Evans comprendeva la complessità della storia umana come una serie di picchi e regressioni. La cultura minoica era un picco (in termini di risultati estetici e umanistici), dopo il quale arrivò una relativa regressione, finché non ci fu un altro picco con i Greci e i Romani.
Ora occorre spendere qualche parola sulla teoria dell’animismo,
che è il tema principale dell’opera di Tylor. L’uomo è sempre stato un attento
osservatore della natura e ha notato le differenze tra entità vive, come piante
e animali, e quelle senza vita, come le pietre. Animali e piante crescevano ma
anche decadevano; al contrario, la materia rimaneva statica e immutabile. L’uomo
primitivo attribuiva la differenza alla presenza, o all’assenza, dell’anima(anima).
Cos’era
la vita se non l’inserimento dell’anima nella materia inanimata?
L’uomo primitivo trovò quindi una teoria logica per spiegare la vita e Tylor chiamò questo fenomeno ‘animismo’. La teoria ebbe il merito di spiegare anche perché gli spiriti dei sogni entravano nel corpo degli esseri umani di notte e li possedevano durante il sonno. Anche Darwin fu colpito da questa spiegazione di Tylor e la adottò per interpretare i fenomeni dell’esperienza religiosa:
‘È anche probabile, come ha dimostrato il signor Tylor, che i sogni possano aver dato origine per primi alla nozione di spiriti; poiché i selvaggi non distinguono facilmente tra impressioni soggettive e oggettive. Quando un selvaggio sogna, si ritiene che le figure che gli appaiono davanti siano venute da lontano e che stiano sopra di lui; oppure l’anima del sognatore esce per i suoi viaggi e torna a casa con un ricordo di ciò che ha visto. […] Tuttavia non posso farea meno di sospettare che ci sia uno stadio ancora precedente e più rozzo, in cui si pensa che qualsiasi cosa che manifesti potere o movimento sia dotata di una qualche forma di vita e di facoltà mentali analoghe alle nostre’.
Tylor spiegò attraverso la sua teoria dell’animismo perché nell’antichità esisteva il culto degli alberi e delle pietre. Quando gli spiriti si muovevano liberamente, entravano negli alberi, nelle pietre o nei pilastri e ne prendevano possesso, rendendoli i loro luoghi di dimora temporanea. La logica dell’uomo primitivo fu così resa accessibile all'uomo del diciannovesimo secolo. A parte il suo valore come pietra miliare nella storia delle idee, l’animismo è ancora applicabile alle prove emerse da allora.
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di Arianna (9)
La
mia veste diventava verde e i piedi sprofondavano nella terra molle. Sollevavo
le mani e da quelle crescevano foglie. Sapevo allora di essere diventata un
Albero e levavo il viso verso il sole.
È una classica metamorfosi. È diventata uno degli Alberi
della foresta, e perciò si comporta come un Albero; i piedi diventano radici,
le braccia rami e sta crescendo come cresce un Albero. Ne eseguì un dipinto. Il
rosso sullo sfondo è effettivamente il colore del sangue, perciò esito a
definirlo semplicemente fuoco. È un simbolismo piuttosto peculiare. Che cosa ne
pensate?
SIG.RA CROWLEY: forse alla fine, dopo quel lungo sviluppo a spirale verso l’lto, è radicata nella terra, forse ora il potere di tutte le religioni del mondo ha messo radici come il suo albero. Non è più uno scenario per il restante mondo storico, ma la storia sta andando da lei.
DOTT. JUNG: Questo è magnifico, che la storia vada da
lei.
S.C. : Intendo dire che diventa a-storica.
DOTT. JUNG: Sì, è vero.
DOTT. REICHSTEIN: Ha trovato un punto dove fermarsi. È
radicata, non può più venire spostata.
DOTT. ADLER: L’Albero è un collegamento tra terra e sole.
DOTT. JUNG: Sì, e al momento lei sta sollevando nuovamente il volto verso il sole.
DOTT. ADLER: Prima, era trascinata dal flusso di sangue,
senza di conseguenza poter avere alcuna influenza sul proprio destino o sul
proprio sviluppo. Ma in questo momento diventa un Albero; da una parte la vita
vegetale è lo stato vitale inferiore, ma dall’altra le piante sono le uniche
forme di vita che si nutrono per conto proprio; in questo senso sono autonome,
ed è quello che deve imparare.
DOT. JUNG: Esattamente, è giustissimo.
DOTT. BARKER: sebbene stia sollevando la faccia verso di
esso, non è più identificata con il sole.
DOTT. JUNG: Sì, ma voglio sapere come spiegate il
simbolismo dell’Albero.
SIG.RA SIGG: Forse significa che lei trae il proprio nutrimento dalla natura, in modo naturale.
PROF. EATON: Non si tratterebbe anche della logica
evoluzione della spirale? Prima c’era l’idea della spirale e ora abbiamo una
pianta che sta crescendo realmente; la spirale viene rappresentata
organicamente da un Albero.
DOTT. JUNG: È come se qui si fosse introdotta in qualcosa di assolutamente estraneo al mondo animale. La spirale è qualcosa di praticamente sconosciuto nel mondo animale, ma per il mondo vegetale è di somma importanza per lo sviluppo o la crescita, mentre nel sangue, cioè nella sostanza animale del suo corpo, scopre un principio del tutto diverso, che è anch’esso un principio vitale, sebbene non sia quello del sangue. Sapete, abbiamo già avuto diverse visioni che contenevano un tuffo verso il basso: all’inizio l’indiano e il cinese fissavano lo stagno nero e il cinese vi faceva immergere l’indiano, poi quella figura dionisiaca che non faceva altro che balzare giù da un livello all’altro. Ora qui vediamo che tutto quel movimento verso il basso, quello sforzo di giungere al fondo, era l’anticipazione di quest’ultima immersione nel sangue, dove scoprirà il grande tesoro.
Il grande
tesoro nel suo primo aspetto – l’oro non è che un’impressione fugace – è la
percezione della spirale, che dobbiamo considerare del tutto immediata e reale,
un’esperienza pressoché sensoriale. È come se avesse realmente percepito il
movimento a spirale, e questa è la prima indicazione del principio vitale,
totalmente diverso, delle piante. Come sapete, la vita si sviluppa
principalmente o nella forma animale o in quella vegetale, poiché tutti
apparteniamo alla stessa vita, piante e animali ne fanno entrambi parte.
Inoltre viviamo a spese delle piante, siamo parassiti delle foreste della terra.
La vita dell’uomo e delle piante è una sorta di simbiosi, perciò non possiamo
evitare di divenirne parte. Noi assumiamo la vita del partner biologico, il
nostro intero sistema è adattato al sistema del partner. In altre parole, la vita delle piante è anche in noi e
diventa il simbolo della quantità non-biologica, di ciò che chiamiamo
spiritualità. La vita vegetale diventa il
simbolo della vita spirituale. Il dischiudersi dello spirito si basa sulle
analogie con la vita vegetale. Qui la prima indicazione di ciò che è la
sensazione della spirale, e secondo il punto di vista della visione –
l’inconscio – essa è il valore più alto. Lo sviluppo conduce ad un livello più
alto, alla foresta nella quale sta mettendo radici in mezzo ad altri Alberi.
DOTT. JUNG: Sì, traggono il loro nutrimento direttamente dagli Elementi, invece gli animali compresi gli umani sono sempre dei parassiti che si cibano di piante. Perciò la forma di vita Primaria è quella vegetale, perché è basata unicamente sull’esistenza degli Elementi.
SIG.
BAUMANN: La pianta sarebbe un simbolo della spiritualità che è più vicina alla
Terra.
DOTT. JUNG:
L’animale, nell’uomo simboleggia sempre la vita fisiologica e biologica, perché
in ciò non è che un animale, e da quella prospettiva l’uomo naturalmente nega
la realtà dello Spirito, la quale come espresso poco sopra, in conflitto con la
‘materia’. Ci vuole un particolare tipo di esperienza per indurre le persone a
credere in qualcosa come un codice spirituale. È proprio questo genere di
esperienza che prova l’esistenza di un tipo interamente diverso di esistenza,
anche se in sé non è necessariamente spirituale. Si potrebbe dire che indichi
semplicemente la pianta, ma dal momento che non siamo piante e non siamo capaci
di vivere come piante, non può riferirsi alla pianta vera e propria. Pertanto
deve trattarsi della sua vita vegetale reale, che è la modalità inconscia dello
Spirito.
SIG. BAUMANN: Non potrebbe significare che l’animale esprime movimento, mentre l’albero è autosufficiente, immobile? Possiede la perfezione. In questo senso forse esprime meglio la spiritualità rispetto all'animale che si muove nello spazio.
DOTT. JUNG: Sì, sebbene ‘spiritus’ significhi vento e ‘animus’ respiro, che anch’esso si muove. Un fortunale potrebbe essere paragonato a dei cavalli al galoppo, per esempio; per le cose spirituali abbiamo simboli animali, senza dubbio. Lo spirito al quale stiamo alludendo non è però una ri-concezione dello spirito in generale, ma una concezione di un particolare tipo di spirito. In base alle vostre descrizioni, è uno spirito autosufficiente, autonomo, che si nutre degli elementi ed è piuttosto indipendente dalla vita animale. Denota perciò un tipo di spirito indipendente che non è una manifestazione della vita animale. È come se questa ‘donna’ (o l’eretico come sopra) avessero conosciuto, in qualità di spirito, solo la manifestazione della vita animale (attraverso un lupo o un orso), il respiro della creatura vivente con tutti gli eccessi ed i difetti (parliamo di un lupo...). Ma questo non è il vero spirito.
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l'inutile idiota (4)
Riesaminando
ciò che abbiamo discusso, si potrebbe osservare:
‘D’accordo su tutte queste speculazioni sul
cervello e sulla mente; ma che cosa si può dire delle sensazioni che
accompagnano la coscienza? Questi simboli hanno un bell’innescarsi l’un
l’altro; ma se non c’è qualcuno che percepisca il tutto, non vi è coscienza’.
Ciò appare
sensato alla nostra intuizione, a un certo livello, ma non ha molto senso sotto
il profilo logico; infatti, se il meccanismo che realizza la percezione di
tutti i simboli attivi non fosse compreso in ciò che abbiamo descritto finora,
saremmo costretti a cercare un altro modo per spiegarlo. Naturalmente per un animista non
sarebbe necessario fare ulteriori ricerche:
egli asserirebbe semplicemente che chi
percepisce tutto questo movimento neuronico è l’anima, che non può essere
descritta in termini fisici; punto e basta. Noi tuttavia tenteremo di dare una
spiegazione “non animista” del luogo in cui si manifesta la coscienza.
La nostra
alternativa alla spiegazione dell’animista (ed oltre tutto è un’alternativa
sconcertante) è di fermarci al livello dei simboli e di dire:
‘Eccola qui: questa è la coscienza. La coscienza
è quella proprietà di un sistema che scaturisce ogniqualvolta esistano in esso
simboli che obbediscono a strutture di attivazione più o meno simili a quelle
descritte nelle pagine precedenti.
Messa in forma così brutale, questa posizione può sembrare inadeguata: come spiega il senso dell’“io”, il senso del sé?
[…]
Un effetto
collaterale importantissimo del sottosistema del sé è che esso può svolgere le
funzioni dell’“anima”, in questo senso: comunicando continuamente con gli altri
sottosistemi e con gli altri simboli del cervello, esso si mantiene al corrente
di quali simboli sono attivi e del modo in cui lo sono. Ciò significa che esso
deve possedere simboli per l’attività mentale o, in altre parole, simboli per i
simboli e simboli per le azioni dei simboli.
Naturalmente
ciò non solleva la coscienza o la consapevolezza a qualche livello “magico” o
non fisico.
Qui la
consapevolezza è una conseguenza diretta della complessità dello hardware e del
software che abbiamo descritto. Eppure, nonostante la sua natura così terrena,
sembra che questo modo di interpretare la consapevolezza (cioè come un
controllo dell’attività cerebrale da parte di un sottosistema dello stesso
cervello) somigli a quella sensazione quasi indescrivibile che tutti conosciamo
e che chiamiamo “coscienza”.
Senza dubbio si può capire che qui la complessità è così grande da poter dar luogo a molti effetti inattesi. Ad esempio, è del tutto plausibile che un programma di calcolatore dotato di questo genere di struttura possa costruire enunciati su se stesso che avrebbero una grande somiglianza con gli enunciati che le persone formulano di solito su se stesse, comprese le asserzioni di possedere il libero arbitrio, di non essere spiegabili come “somma delle proprie parti” e così via. (A questo proposito si veda l’articolo “Matter, Mind, and Models” di M. Minsky nel libro da lui curato Semantic Information Processing).
Che garanzie vi sono che un
sottosistema che rappresenti il sé quale io l’ho postulato qui esista
effettivamente nel nostro cervello?
Potrebbe
svilupparsi un’intera rete di simboli complessa come quella descritta sopra
senza che si sviluppasse anche un simbolo del sé?
Come
potrebbero questi simboli e le loro attività raffigurare eventi mentali
“isomorfi” con gli eventi reali dell’universo circostante, se non esistesse un simbolo
dell’organismo ospite?
Tutti gli stimoli che entrano nel sistema sono concentrati in una massa che occupa un piccolo spazio. La struttura simbolica del cervello presenterebbe una lacuna madornale se non possedesse un simbolo per l’oggetto fisico in cui è alloggiata e che negli eventi che essa rispecchia ha una parte più importante di qualunque altro oggetto. Infatti, a pensarci bene, l’unico modo per poter attribuire un senso al mondo che circonda un oggetto animato circoscritto sembra essere quello di capire la funzione di quell’oggetto in rapporto agli altri oggetti che lo circondano.
Ciò
richiede l’esistenza di un simbolo del sé; e il passaggio dal simbolo al
sottosistema è semplicemente un riflesso dell’importanza del simbolo del sé, e
non è un cambiamento qualitativo.
J. R. Lucas scrisse nel 1961 un articolo memorabile, intitolato ‘Minds, Machines, and Godel’. Le sue opinioni sono del tutto
contrarie alle mie, eppure per raggiungere le sue conclusioni egli adopera in
qualche modo molti degli stessi miei ingredienti. Il passo seguente è molto
pertinente rispetto a ciò che abbiamo discusso sopra:
“Quando per la prima volta e nel modo più semplice si tenta di filosofare, ci si impegola nel problema se, quando si sa una cosa, si sappia di saperla e quale sia l’oggetto di riflessione quando si riflette su se stessi e da che cosa sia condotta questa riflessione. Dopo essere stati a lungo sconcertati e tormentati da questo problema, s’impara a non insistere su tali domande: ci si rende implicitamente conto che il concetto di un essere cosciente è diverso da quello di un oggetto privo di coscienza.
Dicendo che
un essere cosciente sa una cosa, non solo si dice che esso la sa, ma che sa di
saperla e che sa di sapere di saperla, e così via, per tutte le volte che
piaccia porre la domanda: si riconosce di essere di fronte a un’infinità, ma
non si tratta di un regresso all’infinito nel senso negativo, poiché sono le
domande e non le risposte che si esauriscono, dato che sono inutili.
Si sente
che le domande sono inutili perché il concetto contiene in sé l’idea della
capacità di continuare all’infinito a rispondere a siffatte domande. Benché gli
esseri coscienti abbiano la capacità di continuare, non desideriamo che questa
capacità appaia semplicemente come una successione di compiti che essi riescono
ad eseguire e neppure concepiamo la mente come una successione infinita di sé e
di super-sé e di super-super-sé. Anzi, l’accento vien posto sul fatto che
l’essere cosciente è un’unità e, benché si parli di parti della mente, lo si fa
solo metaforicamente e non vorremmo che ciò venisse preso alla lettera.
I
paradossi della coscienza nascono perché un essere cosciente può essere
consapevole di se stesso, come di altre cose, eppure non può essere realmente
interpretato come fosse divisibile in parti.
Ciò
significa che un essere cosciente riesce ad affrontare i problemi gòdeliani in un modo che alla macchina è
precluso, poiché un essere cosciente può prendere in considerazione tanto se
stesso quanto le proprie operazioni e nello stesso tempo non essere diverso da
ciò che ha compiuto quelle operazioni.
Una
macchina può essere costruita, per così dire, in modo da “prendere in
considerazione” le proprie operazioni, ma non può farlo senza diventare con
questo una macchina diversa, cioè la vecchia macchina con in più una “parte
nuova”.
Viceversa,
nell’idea che possediamo di una mente cosciente è implicito che essa può
riflettere su se stessa e criticare le proprie operazioni, e a questo scopo non
ha bisogno di alcuna parte in più: essa è già completa, e non ha nessun tallone
d’Achille.
La tesi
comincia così ad assumere il carattere di un’analisi concettuale più che di una
scoperta matematica. Ciò viene confermato se si considera un’altra
argomentazione di Turing. Finora
abbiamo costruito soltanto artefatti piuttosto semplici e prevedibili; può
darsi che, via via che accresceremo la complessità delle nostre macchine, ci
attendano delle sorprese.
Egli fa un
parallelo con il reattore a fissione: sotto una certa dimensione “critica” non
accade gran che, ma superata la dimensione critica cominciano a sprizzare
faville.
Lo stesso,
forse, accade per i cervelli e per le macchine.
Oggi la
maggior parte dei cervelli e tutte le macchine sono “subcritici”: reagiscono
agli stimoli d’ingresso in modo tedioso e pesante, non hanno alcuna idea
propria e possono fornire soltanto risposte stereotipe; ma già oggi alcuni
cervelli sono supercritici e scintillano spontaneamente, e probabilmente, in
futuro, si verificherà la stessa cosa per alcune macchine, Turing vuol suggerire che è solo una questione di complessità e
che, oltre un certo livello di complessità, compare una differenza qualitativa,
talché le macchine “supercritiche” saranno del tutto diverse da quelle semplici
immaginate finora.
Può darsi.
Spesso la
complessità introduce differenze qualitative. Benché non sembri plausibile,
potrebbe accadere che, oltre un certo livello di complessità, il comportamento
di una macchina non sia più prevedibile, neppure in linea di principio, e che
essa cominci ad agire di propria iniziativa; o, per impiegare un’espressione
molto significativa, essa potrebbe cominciare ad avere una mente propria.
Potrebbe
cominciare ad avere una mente propria.
Comincerebbe
ad avere una mente propria quando non fosse più totalmente prevedibile e
docile, ma fosse capace di fare cose che noi giudicheremmo intelligenti (e non
solo errori o uscite casuali), ma che non avevamo immesso in essa al momento
della programmazione.
Ma
allora essa cesserebbe di essere una macchina, nel significato proprio del
termine.
La
discussione sul meccanicismo non ha per oggetto come nascono, o come potrebbero
nascere le menti, ma come funzionano. Per la tesi meccanicistica è essenziale
che il modello meccanico della mente funzioni secondo “princìpi meccanici”,
cioè che si riesca a capire il funzionamento del tutto in termini del
funzionamento delle sue parti; e che il funzionamento di ciascuna parte sia o
determinato dal suo stato iniziale e da come la macchina è stata costruita,
oppure sia frutto di una scelta casuale tra un numero determinato di
funzionamenti determinati.
Se
il meccanicista fabbrica una macchina tanto complicata che per essa tutto ciò
non valga più, allora, ai fini della nostra discussione, quella non è più una
macchina, indipendentemente da com’è stata costruita. Dovremmo dire piuttosto
che egli ha creato una mente, nello stesso senso in cui oggi procreiamo le
persone.
Allora
vi sarebbero due modi di mettere al mondo menti nuove: quello tradizionale di
far nascere i bambini dalle donne; e un modo nuovo, quello di costruire sistemi
complicatissimi, per esempio, di valvole e di relais. Parlando di questo
secondo modo, dovremmo aver cura di sottolineare che ciò che è stato creato,
benché somigli a una macchina, in realtà non lo è, perché non coincide
semplicemente con la somma delle sue parti.
Non si riuscirebbe a dire ciò che essa farà in base alla sola conoscenza del modo in cui è stata costruita e dello stato iniziale delle sue parti; non si riuscirebbe neppure a definire i limiti di ciò che essa potrebbe fare, perché, anche messa di fronte a una domanda di tipo gòdeliano, fornirebbe la risposta giusta. In poche parole dovremmo dire che, di fatto, qualunque sistema che non sia sconfitto dal problema di Godel eo ipso non è una macchina di Turing, cioè non è una macchina nel senso legittimo del termine".
(D. R. Hofstadter)
Ed ancora,
una società che affida la propria ‘coscienza’ il proprio ‘intelletto’, il
proprio ‘sapere’, la propria ‘socialità’, e la comprensione dei termini stessi
che la stessa regola ed assume nella capacità del ruolo che la delegata funzione artificiale gestisce controlla, e in futuro, ‘pretende autonomamente’
(forse è ciò cui l’uomo veramente aspira
osservando il proprio Frankenstein) all’interno della stessa; nei termini
formali non solo conferiti da valori simbolici per come rivelata e rilevata la
capacità del funzionamento intellettivo corrisposto nella costruzione di una
macchina in grado più o meno fedelmente di riprodurlo, trascurando tutti quei
valori prettamente ‘umani’ che esulano dal calcolo economico conferito dal pil subappaltato e/o delegato ad una I.A.
Ed allora
non potremmo che dichiararci animisti,
ben consapevoli nei termini medesimi dell’astratto indecifrato simbolo delegato
ad un artificioso-artefizio il quale
risorge dall’abisso cui destinato, più o meno consapevolmente alla natura del
proprio Io, retrocede al proprio e primordiale Sé al di fuori di ogni schema e
simbolo prefissato, sino all’Infinito a cui aspira per sua Natura.
E solo
allorquando l’intera operatività per ogni apparato ‘socio-economico’ gestita da
un algoritmo, momentaneamente o a lunga durata, collasserà (o meglio crollerà
come una Torre di Babele) come ogni cosa regolata e/o costruita dall’uomo (e
non dalla Natura), giacché anche la macchina potrebbe soffrire d’un difficile
clima; il mondo non riuscirebbe neppure a prevedere gli esiti della disfatta, e
non solo di natura prettamente economica, ma per ogni parte non meccanica
affidata ad un determinato meccanicismo creato nostro malgrado.
Forse solo allora ci renderemmo conto quanto dalla ‘macchina’ dipendiamo, solo quando questo evento ci farà assumere piena coscienza e consapevole consapevolezza di quanto il nostro sé (animistico) può da lei dipendere per ogni evento più o meno meccanico, che fino a qualche anno fa era gestito in modo assai complesso, ma che apporterebbe nel tutto una paradossale e più difficile situazione a catena da risolvere nella medesima complessità gestita; se per complessità riteniamo una parte posta nell’insieme delle parti a cui alla macchina affidato non solo il controllo del tutto, oltre quello di orwelliana memoria da grande fratello della coscienza del singolo posto entro il tutto mutato suo malgrado).
(Giuliano)