martedì 31 luglio 2018
L'ABISSO DEL FILOSOFO: (5) (80)
Precedente capitolo:
L'abisso del Filosofo (4) (79)
Prosegue in:
L'abisso della Memoria (6)
Gente di passaggio: Francois Villon (81)
La casa dell'alchimista (3/4)
Pensava poco agli episodi della vita passata, già dissolti come sogni.....
A volte, senza apparente motivo, rivedeva la donna incinta che, con-
trariamente al giuramento ippocratico, aveva acconsentito a far abor-
tire in un villaggio della Linguadoca per risparmiarle una morte igno-
miniosa al ritorno del marito geloso, in un borgo della Provenza, op-
pure la smorfia di sua maestà Svedese nell'ingoiare una pozione, o
il valletto Alei mentre aiutava la mula a guadare un fiume tra Ulma e
Costanza, o il cugino Enrico-Massimiliano, che forse era morto.
Una strada infossata ove le pozzanghere non si asciugavano mai,
neppure d'estate, gli ricordò un certo Perrotin che gli aveva fatto la
posta sotto la pioggia, sul margine d'una strada solitaria, l'indomani
d'un litigio i cui motivi gli sfuggivano o forse non aveva mai saputo...
Rievocava due corpi avvinghiati nel fango, una lama lucente a terra,
e Perrotin trafitto dal suo stesso pugnale allentare la stretta, diven-
tato lui stesso fango a terra.
Vecchia storia che non importava più, né sarebbe importata di più
se il cadavere molle e caldo fosse stato quello d'un chierico di vent'-
anni.
Quello Zenone che camminava con passo affrettato e talvolta sban-
dato, sul selciato viscido di Bruges si sentiva penetrare, come il ven-
to d'alto mare tra i suoi vestiti consunti, dall'ondata delle migliaia di
esseri che avevano già occupato questo punto del globo, o che vi
si sarebbero avvicendati fino alla catastrofe che chiamiamo fine del
mondo; quei fantasmi attraversavano senza vederlo il corpo di que-
st'uomo che, loro vivi, non esisteva ancora, e quand'essi sarebbero
esistiti non ci sarebbe stato più......
Gli ignoti incontrati un istante prima per la via, intravisti con un'oc-
chiata, poi subito ripiombiati nella massa informe di ciò che è pas-
sato, aumentavano di continuo quella legione di larve.
Il tempo, il luogo, la sostanza perdevano gli attributi che costitui-
scono per noi le loro frontiere; la forma non era più che la scorza in
brandelli della sostanza; la sostanza fluiva via goccia a goccia in un
vuoto che non era il suo contrario; il tempo e l'eternità erano la stes-
sa cosa, come un'acqua nera che fluisce in una falda d'acqua nera
immutevole....
Zenone s'inabbisava in tali visioni come un cristiano nella meditazio-
ne di Dio.....
Anche le idee scivolavano.
L'atto del pensare l'interessava ora più degli incerti prodotti del pen-
siero. Si esaminava nell'atto di pensare come avrebbe potuto conta-
re col dito sul polso i battiti dell'arteria radiale, o sotto le costole l'an-
dirivieni del suo respiro.
Per tutta la vita si era stupito di questa facoltà che hanno le idee di
agglomerarsi freddamente come cristalli in strane figure vane, di cre-
scere come tumori che divorano carne che li ha concepiti, o anche
di assumere mostruosamente i contorni della persona umana, come
quelle masse inerti che danno alla luce talvolta le donne e che altro
non sono se non la materia che sogna....
Molti prodotti della mente erano essi pure mostri difformi....
Altri concetti, più precisi, più netti, come forgiati da un abile artigia-
no, erano di quegli oggetti che illudono a distanza; non ci si stancava
di ammirarne gli angoli e le parallele; e nondimeno non erano che
sbarre nelle quali l'intelletto si rinserra, e la ruggine del falso divora-
va già quelle astratte ferraglie.
A momenti c'era da tremare come al limite d'una trasmutazione, sem-
brava che nel crogiolio del cervello umano si formasse un po' d'oro,
e invece si approdava a una pura equivalenza; come in quegli esperi-
menti truccati, nei quali gli alchimisti di corte tentano di dimostrare
ai loro principeschi clienti di aver trovato qualcosa, l'oro sul fondo del-
la storta era quello di un banale ducato passato per le mani di tutti e
che vi era stato messo dall'alchimista prima della fusione.
I pensieri periscono come gli uomini: nel corso di mezzo secolo ave-
va visto diverse generazioni d'idee cadere in polvere.....
Una metafora più fluida, effetto delle ormai lontane traversate marit-
time, si andava insinuando in lui. Il filosofo che tentava di considerare
nel suo insieme l'intelletto umano vedeva sotto di sé una massa sotto-
posta a curve calcolabili, percorsa da correnti di cui era possibile trac-
ciare il percorso, scavata da solchi profondi sotto la violenza dell'aria
e la pesante inerzia delle acque....
Le figure via via assunte dallo spirito subivano la stessa sorte di quel-
le grandi forme nate dall'acqua indifferenziata che si scagliano le une
contro le altre o si susseguono alla superficie dell'abisso; ogni concet-
to ricadeva alla fine nel proprio contrario, come due marosi che urtan-
dosi si annullano in una sola candida schiuma.
Zenone guardava fuggire quel flutto disordinato che si portava via,
quasi relitti d'un naufragio, le poche verità sensibili di cui ci crediamo
sicuri.....
A volte gli sembrava d'intravvedere sotto il flusso una sostanza immo-
bile che era per le idee quel che le idee sono per le parole.......
(M. Yourcenar, L'opera al nero)
domenica 29 luglio 2018
LE GENERAZIONI DI SPIRITI MALIGNI (2)
Precedenti capitoli:
L'eclissi della Luna nuova
Prosegue in:
Il magico tellurico mondo degli Dèi antichi (3)
Qual
fuoco s’accende
nel mare
d’una antica avventura
saggezza
affogata
nella
precoce rovina
d’una sapienza
taciuta
ogni
Ulisse piange la verità perduta (9)
E Cecco continuò:
— Sarà regina di un possente e fiorito reame e
donna di altissimo senno; ma si lorderà le mani del sangue de’suoi; e nell’opera
di lussuria resterà famosa tra coloro che chiameranno antico questo tempo…
— Ah cane patarino! finalmente vedrò la vendetta mia!
Ora si parrà che cosa ti gioveranno le tue diaboliche arti: or si vedrà che
cosa è questa tua gran sapienza astrologica [— e dando in un infernale scroscio
di risa, si volse al cancelliere —] E’ legge il futuro lassù nelle stelle, e
non vi ha letto questo suo meritato fine! [— E ridendo da capo, anche più
sgangheratamente —] Che bel falò, messer lo cancelliere! mi par già di vederlo dibattere
tra le fiamme [— e come era proprio ebbro dalla gioja, né sapeva nemmeno quel
che si dicesse, concluse:] — Voglio essere io quello che appiccherà il fuoco al
capannuccio, per più suo martorio, e perché vegga che cosa gli sono costati all’ultimo
gli scherni e le villanie fatte a un mio pari. E’ mi predisse ch’io morrei poco
appresso di lui... Sciagurato! intanto falla tu la morte degli eretici, e de’
negromanti. Al resto ci penserà la provvidenza; e ad ogni modo sarà quel che
sarà: morirò contento dopo aver gustato la vendetta.
— Messere, o zelo santo, o odio senza termine, tutti
e due vogliamo veder Cecco arso per eretico. Non facciamo dispute teologiche;
ma pensiamo piuttosto a far sì che il solenne astrologo, il medico, il filosofo
non ci esca dalle mani.
—Bisogna, rispose il vescovo, incominciare dalla formale
denunzia al sacro tribunale dell’Inquisizione. Piacevi egli il farla tosto?
— Se a voi pare che sia da far tosto, si farà: sol
che non vi gravi l’assistermi. E come il cancelliere assenti, così il maestro
si pose a scrivere, parlando quel ch’egli scriveva, per invitarne alla
correzione del cancelliere; e cominciò in questa forma:
“Reverendo padre in Cristo Signore Gesù. —Io,
mastro con Garbo, medico e cittadino nominato, indegno figliuolo della santa
chiesa cattolica, come colui che più non posso sopportare i garriti della mia
coscienza, né voglio andare incontro alle pene che il santo tribunale della
sacra Inquisizione minaccia a coloro che i rei di eretica pravità non
denunziano ad esso, acciocché si possano revocare a penitenza, e, perfidiando nel
loro peccato, dargli nelle mani della giustizia secolare, affinché gli metta
alla pena del fuoco,secondo che ordinano le sue leggi; denunzio a voi con tutta
verità, e con ogni solenne giuramento, il nomato Filosofo, per negromante ed
eretico pestilentissimo. Affermo e giuro come, essendo in Bologna, fece un
trattato sopra la Sfera, ammettendo che nelle sfere di sopra sono generazioni
di spiriti maligni, i quali si possono costringere per incantamenti sotto
certe costellazioni a poter fare molte meravigliose cose, mettendo ancora in
quel trattato necessità alle influenze del corso del cielo".
“Affermo e giuro ch’egli insegna(va) come Cristo
venne in terra, (e come Lui similari Profeti) e, ancor peggio, come Dio Padre suo manifesta Idea e Pensiero, andando
diffondendo pregando e scrivendo talune idee pervenute dall’Oriente,
accordandosi il volere di Dio colla necessità del corso di astrologia; e che
doveva, per la sua natività morire della morte che egli morì; e come, invece, l’Anticristo
debba (sempre) venire (e regnare) per corso di pianeti in abito ricco e potente”.
“Affermo e giuro che quel suo libello fu
riprovato in località montana presso li monti di Bergamo, ed egli si ebbe
sentenza e penitenza d’eretico, promettendo e giurando che più non l’userebbe;
e che nondimeno, dispregiando la benignità del sacro tribunale della
Inquisizione, e il fatto giuramento, e’ lo ha seguitato ad usare in altri loci;
dove altresì ha pubblicamente dette parole di dispregio contro i propri confratelli;
schernito e vilipeso la efficacia delle papali scomuniche; esercitato la
negromanzia e le arti magiche; vituperate le case de’ grandi cittadini di costruite a suo dire là ove Dio non vole e
pote; ajutando per opera di magia illeciti amori con la Natura sua vera e sola
Madre; e bestemmiato e deriso sempre le cose più reverende e più sante”.
“Tutto questo affermo e giuro nel nome della
santa e individua Trinità, a gloria maggiore della santa madre Chiesa, per
satisfazione della mia propria coscienza, per il formale debito di ubbidiente e
fedele cattolico”.
….E frate Lamberto da…
venerdì 27 luglio 2018
VEGIO CHE ARDE QUI IL GRANDE FUOGO (brevi parentesi storiche....) (28)
Precedente capitolo:
Un uom val cento... e cento non fan uno.... &
Vegio ch'è tolto l'ordene e lo bene (brevi parentesi storiche...) (27)
Prosegue in:
E morì come visse: urlando e bestemmiando (brevi parentesi storiche...) (29)
In riferimento a Cecco:
Un uom val cento... e cento non fan uno... &
Dante e Cecco
....Certo a noi dispiace vedere uomini colti apprezzare sunterelli venuteci
d'oltre Alpi, come lo 'Speculum naturae', e denigrare Cecco che fu italiano
e martire ed ebbe il merito di risalire le fonti.....
Dunque, alla sua giovinezza povera e studiosa perché gli ignoranti maligni
tendono insidia?
Se egli avesse studiato l'animo di certe persone quanto era esperto degli
usi e costumi degli animali, non si sarebbe loro affezionato: 'Perché son
nati molti - Che parlano secondo il Tempo antico; - Ché del saper cose
meravigliose - Alcun frutto non v'è, dicon gli stolti - Stizzando le lor boc-
che disdegnose. - grande è la pena qui, e più il tacere. - Convienci di par-
tir da questa gente'.
E doveva certo soffrire vedendo schernita la sua coltura da ricchi ignoran-
ti, che gli facevano sapere d'elemosina lo stipendio, 'Ché troppo ha sale
la cena col pranzo - De l'altrui pane: tu vedi ben como!'.
Il colloquio (nell'Acerba...) con se stesso continua.
La migliore risposta a quella gente è il silenzio; non bisogna pensare lo-
ro, bensì ai problemi che l'animo non sa lasciare senza risposta, e il tem-
po fugge.
'O quanto io temo!'.
Così distratto dai suoi tristi pensieri, eccolo di nuovo affannarsi in que-
stioni di ottica, lasciare da parte Aristotele che più non risolve un suo
dubbio sulla natura della luce e delle ombre, e con una distinzione cavar-
si d'impaccio.
'O quanto, distinguendo, nasce frutto, - Quando per sua fallacia alcun
contende!'.
Ma la premura continua di risolvere senza disgressioni lo ha sfinito:
'Qui più non resisto'.
Ripiglierà più tardi, e dimostrerà che avarizia ed usura non possono
desiderarsi da un animo bennato, perché dov'è intelletto si eleggono
le cose più degne, cioè virtù, scienza ed onore, e si pregia la ricchez-
za, anzi, la si consuma per procurarsi la fama.
'E' con la fama congiunta la spesa, - E ciò non può fuggir chi ha valo-
re, - E contro lei non può far mai difesa'.
D'un tratto rompe in un'invettiva contro le donne, che già erano da
lui paragonate al fango, e l'uomo al sole. Ormai sembra che il dram-
ma volga alla fine.
Le risposte ai quesiti hanno l'aria d'un testamento: 'Di' da mia parte,
se già mai ragioni - Con uomo che del vero sia sentito'.
Alla domanda, come si spieghi l'immaginare profetico o suggestivo,
egli così risponde sottovoce: 'Tien l'udito passo, - Se ti diletti di ciò
giudicare'.
E soggiunge che le immaginazioni volontarie non corrispondono mai
all'effetto, ma quelle mosse dal cielo si compiono. E dopo aver de-
scritto le vene e le arterie e la circolazione del sangue, e spiegato
perché un'improvvisa allegrezza può troncare la vita, consola l'allie-
vo e lo invita a compiacersi di non essere 'di più bassa schiera', a re-
sistere nel bene, a far tacere e suoi desiderii in Dio.
'Ogni natura è creata al fine, - Lo qual per l'alma non è in questo mon-
do; - Ma quando vederà lo suo Fattore - Di vista con l'altre divine, -
Sentirà pace dell'eterno amore'.
Ma, dice l'altro, come può l'uomo stare di fronte all'infinito? E il mae-
stro rimanda la risposta a dopo la morte: 'Or qui convien ch'io taccia,
- Ma quando vederò lo tempo e il loco, - Di ciò conviene ch'io ti sati-
sfaccia'.
Lo sdoppiamento della personalità assume ora l'aspetto di un'allucina-
zione.
L'allievo domanda che valore abbiano i sogni, così trascurati dal volgo;
e prima di rispondergli, il maestro, ricordando gli alunni di Bologna e
la spia di Firenze che lo hanno tradito, assieme ad altri 'uditori', escla-
ma: Se mi induci a parlare su questo argomento per mettermi nelle ma-
ni de' miei nemici, procurami almeno il rimedio della morte.
'E se tu m'hai disposto, ch'io non credo, - Alla mercede altrui per gran
difetto, - almen la morte mi da' per rimedo'.
...Povero poeta credeva nella sua astrologia, nel suo mondo più vero
dei suoi miseri alunni delatori, ed ora la sconsolata amarezza di avere
inutilmente vissuto e sofferto, e la mortale passione di essersi fidato
di allievi ed amici che tradivano costantemente ... il sapere...
Ed io a lui........
Povero eretico,
son io che ti osservo
nell'angolo nascosto
accanto alla brocca,
dove non sapendo,
stai bevendo l'antico tormento
confuso con lieto piacere.
Dona segreta parola
nell'infinita ora:
stai creando nuove stelle
in questo Universo
dove ti sei appena perso.
Fiumi di parole e tanti pianeti,
eterni prigionieri di una strana materia,
perché sempre avanza per questa cella
specchio di una diversa creanza.
Pensiero già detto di un Dio
forse non troppo perfetto.
Stai parlando con il tuo Giuda
ora signore di questo cielo maledetto
e i suoi trenta denari:
strani accadimenti e nuovi tormenti
per questi elementi.
Argomento perfetto nella lenta agonia
di questo Universo appena detto.
Vita seminata nell'eterna illusione
di una vaga speranza,
intrisa e confusa
con vile materia gettata alla rinfusa.
Coltivata con la peggiore infamia,
poi rivenduta pregata e adoperata
per santa creanza.
(Cecco d'Ascoli, L'Acerba &
G. Lazzari, Frammenti in Rima, Dialogo in-crociato,
17, 25; 17,26)
giovedì 12 luglio 2018
IL TEMPO & LA MEMORIA (2)
Precedente capitolo:
Il Tempo & la Memoria (1)
Prosegue in:
Il Tempo & la Memoria (3)
Raccontare la
frattura che si preannunciava in quella Chiesa, non è la ‘storia’, ma un evento
della nostra geografia. Io in tutta la mia umiltà così ho percepito e visto.
Perché non ho mai varcato il sottile confine fra ciò che va detto e ciò che va taciuto. Questa
differenza, questo abito, questo costume da pagliaccio che indosso, ancora mi
danno l’onore della vita, se questa può dirsi vita. Prego anche’ io chino di fronte alla croce, e
quando l’alto prelato incrocio, nel silenzio di qualsiasi sermone, abbasso gli
occhi e prego per la mia vita e quella del prossimo. Nel lento scorrere della
litania, della preghiera, recito la mia parte, la mia ora, il mio giorno, nel
divenire del tempo. Nel lento camminare del giardino chino ammiro la vita della
foglia che trasuda la sua umidità invernale. Prego lei, fra la sua e la mia litania.
In questo girare in tondo, qualche libro abbiamo ‘miniato’ nel segreto della
biblioteca e abbiamo nascosto agli sguardi attenti dei fratelli. Così ora anche
di giorno riesco a leggere qualcosa della radice della pianta, mia sola
compagna, mia sola amica, mia sola anima, di questo Inverno che si preannuncia
severo. Ma i primi freddi alle ossa sono il nulla di fronte ai brividi della
caverna che scende, fino alle volte insperate di panorami di altri secoli.
Quello di cui io ora sono testimone, e di cui spero mai mortificare il mio
umile spirito dentro queste carni già sofferenti, è la costanza dell’ Assoluto,
divenuto parola attraverso il mio confratello -
Eraclio - .
Nel lento deambulare
e girare attorno noi stessi abbiamo imparato che la sua parola è più della
nostra vita, che il suo dire è più della luce che riusciamo a vedere ogni
mattina, che il suo pensare è un conversare con Dio, a cui noi ancora non ci è …. e mai sarà concesso.
Il tramite del nostro parlare con la Croce, il miracolo della vita, il nostro
mangiare e sopravvivere, è opera di nostro fratello Eraclio. Tutto, con il
tempo, abbiamo imparato da lui dipendere. Nel segreto della nostra cella
vediamo e preghiamo nostro fratello – Eraclio - . L’uomo che ora io vedo aver
preso voce da quella fitta boscaglia dietro l’altare…. e parlare… domandare. E
con lui i figli d’altare, a cui spesso confuso nel fitto cerimoniale attorno ad
esso, non riusciamo più a dar un nome. Con lui i suoi fratelli e sudditi, i
dottori, da cui – Eraclio - insegna ed apprende, nel lento fluire del
tempo, immobile, di fronte all’assoluto della verità.
Con lui Vescovi e
Cardinali, i medici della nostra anima, dei nostri dolori, custodi delle nostre
celle, padroni dei nostri pensieri, seminatori dei nostri sogni, raccoglitori
della nostra semenza . Con lui il lento
trasmutare della storia, il lento progredire della scienza Teologica in seno
alla verità scientifica. La stagione di una verità scorre attraverso la
mutabilità apparente, apparenza del tempo. Lento deambulare in circolo per
questo giardino. Questo il nostro camminare, pregare…. e troppo spesso sperare.
Nella solitaria quiete dell’ Eremo le stagioni sono ricorrenze da calendario.
Sono Messe da celebrare, penitenza da rispettare, comunioni per i nostri visitatori
di tutto il feudo, di cui disconosciamo persino i confini. Sono cornici ed usanze, litanie ripetute fino
allo stordimento. Così incorniciamo lo scorrere lento del tempo e con esso la
vita che spesso vediamo e ammiriamo da lontano . La vita, per noi, dissidenti
cultori della biblioteca, si nasconde in cornici di quadri ammirati da lontano:
è profumo di Primavera, spensieratezza di neve, freddo e gelo, e poi i colori
assordanti dell’Estate. Quei quadri li
possiamo ammirare e vedere… talvolta…..
Ma ben attenti a non essere visti. Non essere osservati nel nostro lento
volare verso altri luoghi. La nostra –
anima - , così ci spiega Eraclio, è la parola donata da nostro Signore, è il
mistero del – verbo - , il sacrificio a cui tutti noi ci dobbiamo umiliare, per
comprendere, capire… e poi celebrare. Il
nostro – Spirito – , ci insegna , deve perseguire la dura disciplina della
penitenza, della severità, del castigo. La nostra – Salvezza – il pregare
quell’ anima che un giorno incontrerà la gloria dei cieli. La penitenza della
preghiera e la paura del potere Divino, che nostro Signore e Padrone possono su
di noi. La vita, tramanda fratello –
Eraclio – , può conoscere solo questa umiliazione, questo castigo, questa eterna
penitenza. La luce della preghiera deve penetrare in noi, dall’alto di quella
feritoia nella Chiesa, come immagine manifesta di Dio. La prima ed assoluta
creazione, la prima sua manifestazione, la prima sostanza.
Così nel buio della
nostra anima, il corpo deve prendere forma e spirito. Nel nostro pregare nel buio dei nostri
patimenti, possiamo sperare solo nella salvezza di quella luce. La prima luce
dell’ – Altissimo - . Il creatore di tutte le cose. Quando fratello – Eraclio –
parla in codesto modo, ci illumina tutti. Apre ai nostri occhi chiusi la
comprensione vera del Mondo, del Creato, dell’ Universo. Io, e tutti i miei confratelli, dai lontani
tempi del seminario, abbiamo compreso la verità tangibile del mondo attraverso
la parola di fratello – Eraclio - . Con
i fratelli più anziani abbiamo imparato che la luce della sostanza della
materia creata si deve riflettere su tutte le opere che leggiamo, sulle
preghiere che recitiamo, sulle pitture che componiamo. Sulle croci che
fabbrichiamo. Quelle e solo quelle sono le nostre stagioni, gli sguardi di un
desiderio di vita e salvezza. Panorami
di verità. Il resto è vista di un mondo che ci è proibito vedere,
ammirare, contemplare. E’ solo l’immagine di quel Dio di cui i nostri occhi
debbono celebrare in eterno la sua venuta, la sua figura, il suo martirio. Gli occhi
di quel Dio riflessi nella sua sostanza, nell’ icona, e sacrificati per
sempre alla sua opera creata. Ma con il tempo l’ opera creata ha mosso i nostri
animi, gli spiriti, la segreta volontà non del tutto assopita della conoscenza.
Nella rigida regola dell’ Eremo, ci è concesso celebrare il – Verbo – incarnato
in diversa maniera. In questo fratello – Eraclio - , ci ha sempre stimolato,
insegnato, e poi comandato.
Nella regola del
quotidiano vivere orologio del tempo,
oltre alle tre funzioni giornaliere, abbiamo la possibilità di prestare la
nostra ignoranza alla – Sacra – conoscenza.
La biblioteca diviene spesso il nostro rifugio. Diviene la fuga, lo
sguardo, la vista. La voglia di vivere dinnanzi ad una non manifesta cecità. In quanto, pur ciechi, tutti noi, almeno
quando prestiamo attenzione alle scritture, sembriamo vedere.
Ma dalla cecità, in
realtà troppo spesso passiamo solo ad una forte miopia. Raramente ci è concessa la vista. Quando io , ed altri miei fratelli vi
riusciamo, cerchiamo di nascosto a fratello – Eraclio – di coniugare la luce
interiore con quella esteriore....
(Prosegue....)
(Prosegue....)
mercoledì 11 luglio 2018
IL TEMPO & LA MEMORIA (4)
Precedenti capitoli:
Il Tempo & la Memoria (1) (2) (3)
Prosegue in:
Il Tempo & la Memoria (5)
…. Quando il 6 aprile 1252 frate Pietro da Verona si avvia verso Milano,
non poteva immaginare che si stava incamminando verso la ‘santità’ e che la sua
morte sarebbe stata un volano repressivo. Quando nel 1307 frate Lanfranco da
Bergamo termina la stesura del suo ‘quaternus
racionum’, mai avrebbe pensato che quel quaderno contabile, così
disordinatamente pasticciato da numeri cancellati e riscritti, sarebbe
diventato una delle fonti superstiti più preziose per lo studio
dell’inquisizione: una fonte dalla vertiginosa ricchezza informativa. Quando
nell’ottobre del 1303 il frate Predicatore Niccolò di Boccassio diventa
Benedetto XI, non poteva prevedere che, nonostante la brevità del pontificato,
la sua azione ai vertici della Chiesa sarebbe stata un capitolo importante per
la storia dell’inquisizione..
Una santità antiereticale, la contabilità della repressione, un
progetto di governo della Chiesa e di coercizione all’ortodossia: alcuni frati
Predicatori sono i protagonisti di specifici contesti – assai diversi, anche
per la produzione documentaria – che diventano pilastri tematici e tiranti
problematici dell’architettura di questo libro… E’ evidente che non si è in
procinto di leggere una sintesi di storia dell’inquisizione medievale, bensì
una ricostruzione mirata di fatti (e effetti) in uno specifico spazio
geocronico: una provincia italiana del nord percorsa dai frati Predicatori
inquisitori negli anni che dall’azione di frate Pietro da Verona, e soprattutto
dalla reattività della sua morte santa nel 1252, giungono all’esaltazione
artistica della sua funzione storica quando è portata a termine l’arca dedicata
a san Pietro martire nel 1337.
Attenzione prevalente è concentrata sul Duecento in quanto fase ancora
dinamica del consolidamento dell’ ‘officium fidei’ che si definirà in forma
stabile a partire dai primi decenni del secolo successivo. Le vicende della
repressione in questa porzione di territorio italico sono state per lo più
trascurate: non ne troviamo riferimento
alcuno nelle più recenti e mediate rassegne storiografiche, nonostante che
in quest’aria e in questi anni si manifesti un’importante produzione sia
giudiziario-inquisitoriale sia polemistico-idelogica: un riferimento importante
per la storia dell’inquisizione medievale in Italia (e non solo).
Apparentemente locali e di medio raggio, i contatti professionali e confessionali
emergenti dalle note contabili di frate Lanfranco non si riducono ad una specie
di microstoria, ma si dilatano a dimensioni di vertice illustrando il ruolo
propulsivo dell’Ordine dei frati Predicatori in una doppia fortunata
congiuntura: alla metà del XIII secolo con l’omicidio di frate Pietro da
Verona, tra la fine del XIII secolo e l’inizio del secolo seguente quando frate
Niccolò da Boccassio da maestro dell’Ordine diventa papa Benedetto XI. E’
chiaro come l’inquisizione si ponga in un delicato punto d’intreccio tra
diverse competenze specialistiche – religioso-istituzionali,
politico-istituzionali, economico-finanziarie, giuridiche – nel passato, ma
pure nel presente per chi accinga a studiarla: tale delicato intreccio deve
essere affrontato per liberare l’involucro documentario da una astratta
fragilità intrinseca e per offrire una realtà allargata e poliedrica al fine di
chiarire a fondo il funzionamento di una macchina repressiva che, nella metà
del Duecento, si caratterizza per dinamicità e duttilità.
Ciò palesa nuovi orizzonti e nuovi problemi lessicali: si dovrà
scrivere ‘Inquisizione’ o ‘inquisizione’? Il termine minuscolo presente nelle
pagine di questo libro dà ragione di una stagione di mobilità perpetua e di
flessibilità adattativa, di progressiva acquisizione di spazi nelle istituzioni
già esistenti (ecclesiastiche e civili), prima di diventare realtà
giuridicamente strutturata.
Nel settembre 1304 frate Lanfranco da Bergamo si reca a Milano. In
occasione del capitolo provinciale dei frati Predicatori e a margine delle
sedute, consegna 40 fiorini al confratello priore del convento di
San’Eustorgio. Regolarmente la spesa viene registrata nel ‘liber racionum’, il libro che frate Lanfranco compila nel corso
dei lunghi anni in cui è titolare dell’ ‘officium
fidei’ di Pavia. L’esborso di 40 fiorini viene giustificato allegando al
rendiconto la lettera che frate Giacomo da Bologna, vescovo di Mantova e
familiaris di papa Benedetto XI, aveva inviato nel mese di febbraio dello
stesso anno al frate Guido da Coccolato, priore provinciale di Lombardia. In
essa il nome del pontefice, il vescovo Predicatore sollecitava il completamento
del sepolcro monumentale del beato Pietro martire in costruzione presso il
convento milanese, richiedendo un contributo di 200 fiorini ai frati
inquisitori di Lombardia Guido da Coccolato, Tommaso da Como, Raniero da
Pirovano e Lanfranco da Bergamo.
‘Volens obbedire dominio pape’,
durante l’incontro capitolare frate Lanfranco consegna al priore milanese una
parte dei fiorini richiesti. Il monumento funebre del martire inizia a prendere
concreta forma architettonica nel 1297, durante il capitolo generale di
Venezia, quando l’allora maestro generale frate Niccolò da Treviso aveva
sollecitato la ricerca di aiuti finanziari per la costruzione dell’opera
d’arte… Divenuto Benedetto XI, egli insiste richiedendo aiuti anche agli
inquisitori dell’ officium fidei’ per
commissionare l’opera….
Passeranno circa trent’anni prima che l’artista e scultore Giovanni di
Balduccio da Pisa sia chiamato a Milano per realizzare in Sant’Eustorgio
un’opera in forma e materia simile alla ‘structura solempnis’ che Nicola Pisano
nel 1267 aveva terminato per san Domenico nella omonima chiesa bolognese. Gli
inquisitori collaboreranno, seppur tardivamente, anche al compimento di questo
progetto…. All’anno 1317, nei libri contabili di frate Corrado da Camerino, ‘inquisitor haereticae pravitatis’ a
Ferrara, Modena e Reggio, leggiamo che alcuni di loro avevano versato 10 lire
bolognesi per l’opera a celebrazione perpetua di san Domenico….
(M. Benedetti, Inquisitori lombardi del Duecento)
Mi vide tremare,
di fronte
alle porte
di uno
sperduto altare.
Non
conosce la morte,
né il
paradiso o l’inferno.
Un corpo
calato nella fossa
profonda,
forse
solo un mausoleo…
nominato
tomba.
Perché
non v’è dimora
per un
anima…,
e
l’infinita sua ora. (26)
Tanti
toccano la bara onorano
la salma,
chiedono
il miracolo domandano
perdono,
mostrano
la lacrima
per chi
non farà più ritorno.
Hanno
barattato la donna
con un
santo devoto e orgoglioso.
Non
conosce l’amore
solo
castità nominata dolore.
Non
conosce desiderio di vita,
solo
penitenza che mortifica
il corpo.
Perché il
suo sogno…
non è mai
nato,
nella
difficile semina..,
di un
diverso racconto. (27)
Ora
pregano la speranza
di un
mondo migliore:
l’osso di
un santo guarisce
la vita,
e un
popolo in attesa di una fine
peggiore.
Mentre
fuori muore l’intero mondo…
di
dolore. (28)
Chi
confuse la verità
con una
antica superstizione,
chi
confuse l’inganno
con nuovo
dolore.
La bara,
la fossa, e l’intero
mausoleo,
e la
grande chiesa sopra
al
tempio,
custodiscono
il silenzio
e il
ricordo…
di un
corpo morto,
giammai
l’anima di un sogno
mai
raccolto. (29)
Ora la
preghiera dona denari
alla
santa congrega… ,
sopra la
tomba di una dèa (nostra amata Natura).
Sogno di
un Primo Dio disceso
nella
materia,
mai
seminato in questo
strato di
terra.
Denari
tesoro e l’intero raccolto,
per
illudere con il miracolo
l’intero
volgo.
Volgo che
prega una strana
preghiera,
lenta
cantilena cancella
il
ricordo.
Una
stella e la sua dèa
mi
donarono la parola
una
fredda mattina.
Vicino ad
un orto
ed a uno
strano
volto:
maschera
e ombra d’un regno
mai
morto. (30)
Chi
chiede la vista
per un
occhio
che non
vuol più vedere
tutte
queste pene.
Chi di
alleviare le piaghe
di una
crosta di pelle
già
decrepita e morente,
per le
troppe ulcere
donate da
un male banale,
e figlio
di una guerra
ché il
mio vero sogno
è smarrito…
in questa
loro eterna preghiera. (31)
Eterno
parto di una terra
che non
conosce tregua:
amore
senza pane
e con
troppa fame. ( 32)
Chi
chiede di camminar retti
per la
via,
che la
gamba ha perso un giorno
quando la
vita gli fu restituita.
Freddo di
rancore
quando
l’ascia l’ha amputata
per un
poco di pena donata,
e per il
troppo odio…
in nome
d’un Cristo risorto.
Con
l’elmo e la spada
comanda
la mia nuova
preghiera,
scordando
per sempre la vera
rima
dentro ad una chiesa.
Ed ora
fuori a quella,
prego la
mia nuova cantilena. (33)
Chi la
febbre del fanciullo,
che lo
lascia muto e senza parola,
con il
viso idiota.
Domanda e
implora una cura
nuova
per il
male che divora.
Chi un
solo tozzo di pane
per
alleviare la fame.
Chi
l’ulcera d’una malattia
che si
nutre della zolla rigogliosa,
prega
come me
la Madre della
terra,
affinché
l’antica promessa
cresca
ancora…,
nella
poesia della mia Rima. (34)
Chi un
riparo dal giorno e la notte
per non
morir massacrati di botte,
per poi
essere dimenticati nella fossa
senza
neppure un nome sulle ossa.
Chi non
vuol sentir carestia,
e chi
dolore che lentamente
porta
via.
Chiude
gli occhi e muore
dentro
una grotta….
in nome
di un’anima risorta.
Chi un
soldo per un bicchiere
di vino,
che la
vita ha confuso lungo
il
cammino.
Chi una
moneta per l’infante
magro più
della carestia,
che pian
piano lo trascina via.
Chi un
fuoco di legna,
per
scaldare la zolla dove
senza
tetto riposa.
Chi un
indulgenza
alla
sottana del prete,
perché ora
geme assieme
alle sue
preghiere.
Dopo aver
sacrificato
l’anima
mia,
fin
dentro la sacrestia. (35)
Per un
tozzo di pane
in nome
della sola fame,
che
trascina più in basso
del
letame.
E della
nuda terra
ne fa
solo nutrimento,
e a noi
non rimane
che la
sua preghiera
e
l’eterno suo tormento.
Pasto di
un prelato
e il suo
grande sovrano,
fieri del
loro regno
in questo
sogno indegno. (36)
Questa la
triste visione
di una
stella mai morta
e per
sempre risorta.
Nel
miracolo della creazione,
illumina
il cielo
quale
eterna visione,
di un
diverso Creatore…
….Ed i
suoi poveri perfetti
senza
neppure un nome….
sotto
questo sole. (37)
Nella
sacra dottrina
la vera
fede è solo
eresia,
perché il
pane della vita
dividiamo
con il Primo Dio.
Mentre la
fede pregata
nella
chiesa,
chiusa
nell’ortodossia
della
vita,
chiede
obbedienza e amore,
contraccambiato
con terrore
per il
resto delle ore.
Ad un
Secondo Dio
confuso
nel dolore. (38)
Vendo
ancora e per sempre
la stessa
parola,
ora
quotata anche in borsa.
Ho
accesso alle segrete stanze
del
potere talare,
posso
contare sulla compiacenza
tradotta
da questa storia antica
in
complicità segretezza
e
discrezione…,
di una
banca antica.
Non deve
rendere di conto
né ad una
strega né ad una zingara,
né ad un
pazzo che scava la terra
e si
crede… anche profeta. (3)
Son re d’
una diversa dinastia
con il
compito di conservare…
memoria:
è dono di
gloria
privata
della cattiva coscienza
assente
alla vera parola….
perché
son padrone della storia. (4)
Inquisitore
dell’eretica parola
ogni sera
e ogni mattina,
come una
Natura per sempre
sconosciuta,
da noi
nominata solo Eresia.
Non
conosce parola e scrittura,
ricchezza
infinita della mia dinastia.
Cognome
composto e celebrato
su ogni libro
di questo grande creato.
Narrano
di un mondo senza peccato,
letto
custodito e interpretato
nella
grande biblioteca vicino
al
sacrato.
E da noi
sempre celato
per
questa Genesi satura
di ogni
innominato peccato.
Cui noi
accogliamo l’anima malata
entro la
sicura ortodossia,
e curata
nella vera parola
prigioniera
della loro strana
menzogna….,
chiusa
nell’eterno peccato.
Che non
sia mai narrato
per
questo sacrato!
Dopo
l’immensa sacrestia
che
arreda la grande storia
della
sacra Dottrina. (5)
Ne orna
l’unica e sola memoria:
Stato
antico nominato Pontificio,
simbolo
araldico di un grande prelato
eletto
quale grande e unico sovrano.
Solo per
caso cinge corona di Papa,
pur
essendo peggio di qualsiasi
monarca,
da lui
solo inventato nel nobile
e fiero Creato.
Per
nostra salvezza
è re e
padrone di questa
grande
terra.
E custode
del potere immacolato.
La
nobiltà si inginocchia
e prega
parola,
un uomo
prezioso quanto
il grande
quadro ammirato.
Orna la
grande cappella
col viso
affranto e umiliato
per ogni
loro peccato.
Ma il
nobile prega il valore
della
tela,
questo è
il suo vero mercato. (6)
Con lui
il marmo decorato
sulla
piazza,
ove con
lo sguardo schifato
immoliamo
e puniamo
il
peccato già nominato.
Se gli
occhi del disgraziato sacrificato
sono
uguali a quelli del quadro…,
non
datemene colpa.
L’idea mi
viene quando brucio
ogni
eretico
per
vedere stessa pena,
…perché
il popolo allieta.
Questa è
l’arte mia segreta
non
andate di fretta.
Commissionata
ad ogni artista
che non
vuol fare ugual fine
nel
quadro della storia,
perché
narra il mio ardire
e sposa
la vera fede
con la
sacra memoria.
Così la
tela per mano del pittore
dona la
luce alla vista assopita
di un
diverso ricordo.
Ora
ammira in alto sul soffitto
dipinto
l’intero paradiso,
memoria
di un rogo
che l’ha
appena ucciso.
È l’Abbazia della storia,
io ne
curo arte e architettura
…specchio
della vera Parola. (7)
Sono il
muratore della segreta
Loggia…
….scontate
ogni mia colpa
popolo
che in nome mio…
prega e
lavora..
Il mio
araldo è borsa e vita,
non va a
braccetto con quella
lurida
rima,
con
quella strega o zingara
che sia.
Neppure
con una bestia feroce,
o altra
maledetta idiozia.
Sono io
mercato e denari,
padrone
della storia
e di ogni
dottrina,
perché
orna pensiero e mistero
di ogni
sogno taciuto e soppresso
….per
questo mio Regno. (8)
(G.
Lazzari, Frammenti in Rima, Il Primo Dio - secondo dialogo - fr. 25/38;
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