giuliano

mercoledì 11 luglio 2018

IL TEMPO & LA MEMORIA (4)

















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Il Tempo & la Memoria (1)  (2)  (3)

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Il Tempo & la Memoria (5)















…. Quando il 6 aprile 1252 frate Pietro da Verona si avvia verso Milano, non poteva immaginare che si stava incamminando verso la ‘santità’ e che la sua morte sarebbe stata un volano repressivo. Quando nel 1307 frate Lanfranco da Bergamo termina la stesura del suo ‘quaternus racionum’, mai avrebbe pensato che quel quaderno contabile, così disordinatamente pasticciato da numeri cancellati e riscritti, sarebbe diventato una delle fonti superstiti più preziose per lo studio dell’inquisizione: una fonte dalla vertiginosa ricchezza informativa. Quando nell’ottobre del 1303 il frate Predicatore Niccolò di Boccassio diventa Benedetto XI, non poteva prevedere che, nonostante la brevità del pontificato, la sua azione ai vertici della Chiesa sarebbe stata un capitolo importante per la storia dell’inquisizione..
Una santità antiereticale, la contabilità della repressione, un progetto di governo della Chiesa e di coercizione all’ortodossia: alcuni frati Predicatori sono i protagonisti di specifici contesti – assai diversi, anche per la produzione documentaria – che diventano pilastri tematici e tiranti problematici dell’architettura di questo libro… E’ evidente che non si è in procinto di leggere una sintesi di storia dell’inquisizione medievale, bensì una ricostruzione mirata di fatti (e effetti) in uno specifico spazio geocronico: una provincia italiana del nord percorsa dai frati Predicatori inquisitori negli anni che dall’azione di frate Pietro da Verona, e soprattutto dalla reattività della sua morte santa nel 1252, giungono all’esaltazione artistica della sua funzione storica quando è portata a termine l’arca dedicata a san Pietro martire nel 1337.
Attenzione prevalente è concentrata sul Duecento in quanto fase ancora dinamica del consolidamento dell’ ‘officium fidei’ che si definirà in forma stabile a partire dai primi decenni del secolo successivo. Le vicende della repressione in questa porzione di territorio italico sono state per lo più trascurate: non ne troviamo riferimento alcuno nelle più recenti e mediate rassegne storiografiche, nonostante che in quest’aria e in questi anni si manifesti un’importante produzione sia giudiziario-inquisitoriale sia polemistico-idelogica: un riferimento importante per la storia dell’inquisizione medievale in Italia (e non solo).




Apparentemente locali e di medio raggio, i contatti professionali e confessionali emergenti dalle note contabili di frate Lanfranco non si riducono ad una specie di microstoria, ma si dilatano a dimensioni di vertice illustrando il ruolo propulsivo dell’Ordine dei frati Predicatori in una doppia fortunata congiuntura: alla metà del XIII secolo con l’omicidio di frate Pietro da Verona, tra la fine del XIII secolo e l’inizio del secolo seguente quando frate Niccolò da Boccassio da maestro dell’Ordine diventa papa Benedetto XI. E’ chiaro come l’inquisizione si ponga in un delicato punto d’intreccio tra diverse competenze specialistiche – religioso-istituzionali, politico-istituzionali, economico-finanziarie, giuridiche – nel passato, ma pure nel presente per chi accinga a studiarla: tale delicato intreccio deve essere affrontato per liberare l’involucro documentario da una astratta fragilità intrinseca e per offrire una realtà allargata e poliedrica al fine di chiarire a fondo il funzionamento di una macchina repressiva che, nella metà del Duecento, si caratterizza per dinamicità e duttilità.
Ciò palesa nuovi orizzonti e nuovi problemi lessicali: si dovrà scrivere ‘Inquisizione’ o ‘inquisizione’? Il termine minuscolo presente nelle pagine di questo libro dà ragione di una stagione di mobilità perpetua e di flessibilità adattativa, di progressiva acquisizione di spazi nelle istituzioni già esistenti (ecclesiastiche e civili), prima di diventare realtà giuridicamente strutturata. 


    
Nel settembre 1304 frate Lanfranco da Bergamo si reca a Milano. In occasione del capitolo provinciale dei frati Predicatori e a margine delle sedute, consegna 40 fiorini al confratello priore del convento di San’Eustorgio. Regolarmente la spesa viene registrata nel ‘liber racionum’, il libro che frate Lanfranco compila nel corso dei lunghi anni in cui è titolare dell’ ‘officium fidei’ di Pavia. L’esborso di 40 fiorini viene giustificato allegando al rendiconto la lettera che frate Giacomo da Bologna, vescovo di Mantova e familiaris di papa Benedetto XI, aveva inviato nel mese di febbraio dello stesso anno al frate Guido da Coccolato, priore provinciale di Lombardia. In essa il nome del pontefice, il vescovo Predicatore sollecitava il completamento del sepolcro monumentale del beato Pietro martire in costruzione presso il convento milanese, richiedendo un contributo di 200 fiorini ai frati inquisitori di Lombardia Guido da Coccolato, Tommaso da Como, Raniero da Pirovano e Lanfranco da Bergamo.
‘Volens obbedire dominio pape’, durante l’incontro capitolare frate Lanfranco consegna al priore milanese una parte dei fiorini richiesti. Il monumento funebre del martire inizia a prendere concreta forma architettonica nel 1297, durante il capitolo generale di Venezia, quando l’allora maestro generale frate Niccolò da Treviso aveva sollecitato la ricerca di aiuti finanziari per la costruzione dell’opera d’arte… Divenuto Benedetto XI, egli insiste richiedendo aiuti anche agli inquisitori dell’ officium fidei’ per commissionare l’opera….
Passeranno circa trent’anni prima che l’artista e scultore Giovanni di Balduccio da Pisa sia chiamato a Milano per realizzare in Sant’Eustorgio un’opera in forma e materia simile alla ‘structura solempnis’ che Nicola Pisano nel 1267 aveva terminato per san Domenico nella omonima chiesa bolognese. Gli inquisitori collaboreranno, seppur tardivamente, anche al compimento di questo progetto…. All’anno 1317, nei libri contabili di frate Corrado da Camerino, ‘inquisitor haereticae pravitatis’ a Ferrara, Modena e Reggio, leggiamo che alcuni di loro avevano versato 10 lire bolognesi per l’opera a celebrazione perpetua di san Domenico….

(M. Benedetti, Inquisitori lombardi del Duecento)
























 






Mi vide tremare,
di fronte alle porte
di uno sperduto altare.
Non conosce la morte,
né il paradiso o l’inferno.
Un corpo calato nella fossa
profonda,
forse solo un mausoleo…
nominato tomba.
Perché non v’è dimora 
per un anima…,
e l’infinita sua ora. (26)

Tanti toccano la bara onorano
la salma,
chiedono il miracolo domandano
perdono,
mostrano la lacrima
per chi non farà più ritorno.
Hanno barattato la donna
con un santo devoto e orgoglioso.
Non conosce l’amore
solo castità nominata dolore.
Non conosce desiderio di vita,
solo penitenza che mortifica
il corpo.
Perché il suo sogno…
non è mai nato,
nella difficile semina..,
di un diverso racconto. (27)      

Ora pregano la speranza
di un mondo migliore:
l’osso di un santo guarisce
la vita,
e un popolo in attesa di una fine
peggiore.
Mentre fuori muore l’intero mondo… 
di dolore. (28)

Chi confuse la verità
con una antica superstizione,
chi confuse l’inganno
con nuovo dolore.
La bara, la fossa, e l’intero
mausoleo,
e la grande chiesa sopra
al tempio,
custodiscono il silenzio
e il ricordo…
di un corpo morto,
giammai l’anima di un sogno
mai raccolto. (29)

Ora la preghiera dona denari
alla santa congrega… ,
sopra la tomba di una dèa (nostra amata Natura).
Sogno di un Primo Dio disceso
nella materia,
mai seminato in questo
strato di terra.
Denari tesoro e l’intero raccolto,
per illudere con il miracolo
l’intero volgo.
Volgo che prega una strana
preghiera,
lenta cantilena cancella
il ricordo.
Una stella e la sua dèa
mi donarono la parola
una fredda mattina.
Vicino ad un orto
ed a uno strano
volto:
maschera e ombra d’un regno
mai morto. (30)

Chi chiede la vista
per un occhio
che non vuol più vedere
tutte queste pene.
Chi di alleviare le piaghe
di una crosta di pelle
già decrepita e morente,
per le troppe ulcere
donate da un male banale,
e figlio di una guerra
ché il mio vero sogno
è smarrito…
in questa loro eterna preghiera. (31) 

Eterno parto di una terra
che non conosce tregua:
amore senza pane
e con troppa fame. ( 32)

Chi chiede di camminar retti
per la via,
che la gamba ha perso un giorno
quando la vita gli fu restituita.
Freddo di rancore
quando l’ascia l’ha amputata
per un poco di pena donata,
e per il troppo odio…
in nome d’un Cristo risorto.
Con l’elmo e la spada
comanda la mia nuova
preghiera,
scordando per sempre la vera
rima dentro ad una chiesa.
Ed ora fuori a quella,
prego la mia nuova cantilena. (33)  

Chi la febbre del fanciullo,
che lo lascia muto e senza parola,
con il viso idiota.
Domanda e implora una cura
nuova
per il male che divora.
Chi un solo tozzo di pane
per alleviare la fame.
Chi l’ulcera d’una malattia
che si nutre della zolla rigogliosa,
prega come me
la Madre della terra,
affinché l’antica promessa
cresca ancora…,
nella poesia della mia Rima. (34)

Chi un riparo dal giorno e la notte
per non morir massacrati di botte,
per poi essere dimenticati nella fossa
senza neppure un nome sulle ossa.
Chi non vuol sentir carestia,
e chi dolore che lentamente
porta via.
Chiude gli occhi e muore
dentro una grotta….
in nome di un’anima risorta.
Chi un soldo per un bicchiere
di vino,
che la vita ha confuso lungo
il cammino.
Chi una moneta per l’infante
magro più della carestia,
che pian piano lo trascina via.
Chi un fuoco di legna,
per scaldare la zolla dove
senza tetto riposa.
Chi un indulgenza
alla sottana del prete,
perché ora geme assieme
alle sue preghiere.
Dopo aver sacrificato
l’anima mia,
fin dentro la sacrestia. (35)

Per un tozzo di pane
in nome della sola fame,
che trascina più in basso
del letame.
E della nuda terra
ne fa solo nutrimento,
e a noi non rimane
che la sua preghiera
e l’eterno suo tormento.
Pasto di un prelato
e il suo grande sovrano,
fieri del loro regno
in questo sogno indegno. (36) 

Questa la triste visione
di una stella mai morta
e per sempre risorta.
Nel miracolo della creazione,
illumina il cielo
quale eterna visione,
di un diverso Creatore…
….Ed i suoi poveri perfetti
senza neppure un nome….
sotto questo sole. (37)

Nella sacra dottrina
la vera fede è solo
eresia,
perché il pane della vita
dividiamo con il Primo Dio. 
Mentre la fede pregata
nella chiesa,
chiusa nell’ortodossia
della vita,
chiede obbedienza e amore,
contraccambiato con terrore
per il resto delle ore.
Ad un Secondo Dio
confuso nel dolore. (38)


Vendo ancora e per sempre
la stessa parola,
ora quotata anche in borsa.
Ho accesso alle segrete stanze
del potere talare,
posso contare sulla compiacenza
tradotta da questa storia antica 
in complicità segretezza
e discrezione…,
di una banca antica.
Non deve rendere di conto
né ad una strega né ad una zingara,
né ad un pazzo che scava la terra
e si crede… anche profeta.  (3)

Son re d’ una diversa dinastia
con il compito di conservare…
memoria:
è dono di gloria  
privata della cattiva coscienza
assente alla vera parola….
perché son padrone della storia. (4) 

Inquisitore dell’eretica parola
ogni sera e ogni mattina,
come una Natura per sempre
sconosciuta,
da noi nominata solo Eresia.
Non conosce parola e scrittura,
ricchezza infinita della mia dinastia.
Cognome composto e celebrato
su ogni libro di questo grande creato.
Narrano di un mondo senza peccato,
letto custodito e interpretato
nella grande biblioteca vicino
al sacrato.
E da noi sempre celato
per questa Genesi satura
di ogni innominato peccato.
Cui noi accogliamo l’anima malata
entro la sicura ortodossia,
e curata nella vera parola
prigioniera della loro strana
menzogna….,
chiusa nell’eterno peccato.
Che non sia mai narrato
per questo sacrato!  
Dopo l’immensa sacrestia
che arreda la grande storia
della sacra Dottrina. (5)

Ne orna l’unica e sola memoria:
Stato antico nominato Pontificio,
simbolo araldico di un grande prelato
eletto quale grande e unico sovrano.
Solo per caso cinge corona di Papa,
pur essendo peggio di qualsiasi
monarca,
da lui solo inventato nel nobile
e fiero Creato.
Per nostra salvezza
è re e padrone di questa
grande terra.
E custode del potere immacolato. 
La nobiltà si inginocchia
e prega parola,
un uomo prezioso quanto
il grande quadro ammirato.
Orna la grande cappella
col viso affranto e umiliato
per ogni loro peccato.
Ma il nobile prega il valore
della tela,
questo è il suo vero mercato. (6)

Con lui il marmo decorato
sulla piazza,
ove con lo sguardo schifato
immoliamo e puniamo
il peccato già nominato.
Se gli occhi del disgraziato sacrificato
sono uguali a quelli del quadro…,
non datemene colpa.
L’idea mi viene quando brucio
ogni eretico
per vedere stessa pena,
…perché il popolo allieta.
Questa è l’arte mia segreta
non andate di fretta.
Commissionata ad ogni artista
che non vuol fare ugual fine
nel quadro della storia,
perché narra il mio ardire
e sposa la vera fede
con la sacra memoria.    
Così la tela per mano del pittore
dona la luce alla vista assopita
di un diverso ricordo.
Ora ammira in alto sul soffitto
dipinto l’intero paradiso,
memoria di un rogo
che l’ha appena ucciso.
È  l’Abbazia della storia,
io ne curo arte e architettura
…specchio della vera Parola. (7)

Sono il muratore della segreta
Loggia…
….scontate ogni mia colpa
popolo che in nome mio…
prega e lavora..
Il mio araldo è borsa e vita,
non va a braccetto con quella
lurida rima,
con quella strega o zingara
che sia.
Neppure con una bestia feroce,
o altra maledetta idiozia.
Sono io mercato e denari,
padrone della storia
e di ogni dottrina,
perché orna pensiero e mistero
di ogni sogno taciuto e soppresso
….per questo mio Regno. (8)

(G. Lazzari, Frammenti in Rima, Il Primo Dio - secondo dialogo - fr. 25/38;
 Dialogo con il nobile che vende parola - fr. 3/8)

(Prosegue...) 

















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