giuliano

martedì 31 ottobre 2017

PER TUTTI I DIAVOLI! (28)






































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Laudati si' mi' Signore.... (27)

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'Laudato sii o mio Signore per nostra sora morte corporale...' (29)














In molte leggende delle Alpi appare il diavolo come figura malefica e minacciosa. Ora egli invidia gli uomini e riesce a perderli per tutta l’eternità; ora si accinge a qualche terribile opera di distruzione, ma non riesce a compierla secondo il suo desiderio, ed è vinto dalla forza sovrumana dei santi…

Altre volte ancora come nelle leggende più strane e paurose, note alle nazioni cristiane del Medioevo, prende forme spaventevoli, che muta a suo talento; o trasporta enormi sassi da un sito all’altro, facendosi pure con frequenza costruttore ardito di ponti. Era inevitabile che molte leggende di formazione medioevale accennassero in modo speciale alle cime delle Alpi, dicendole predilette dimore del nostro secolare nemico.
Esse nei tempi lontani erano state credute dalle antiche genti, sedi eccelse dei numi; perché i padroni della folgore ed altre divinità adorate dai Celti, dai popoli retici e dagli Slavi, dovevano al pari di Giove Olimpico avere altissimi troni; ed essendo le Alpi i veri giganti di Europa, si sfidarono infiniti pericoli per elevare sulle più alte cime il tronco d’albero, il sasso enorme, la colonna, che furono i simulacri e le prime are delle divinità. Di certo i primi alpinisti furono sacerdoti accesi dal desiderio di onorare i numi, nelle regioni più alte del loro dominio terreno.



  
Si credette pure che più facilmente si potesse conoscere l’avvenire interrogando i numi sulle alture e sulle cime delle montagne, che divennero sacre innanzi ai popoli delle Alpi. I Celti credevano che sulle vette sublimi si compiacesse Beleno, prima che conoscessero il nome di Giove Olimpico; ma coll’andare del tempo le divinità degli alpigiani dovettero cedere il posto d’onore agli dei vittoriosi di Roma; o per meglio dire, non potendo quelle antiche genti perdere la memoria del proprio culto, e disprezzare le divinità nazionali, per adorare unicamente quelle dei Romani, che erano innanzi ad esse invasori e nemici, accettarono per nuovi numi quelli che più si avvicinavano nella figura del mito, nel carattere, e nella potenza ai loro dei. Per questa ragione Giove si confuse col Taranis dei Celti e col Penn dei Vallesani. Minerva si unì nel concetto popolare con Belisana, Apollo con Beleno. La stessa confusione accennata fra le divinità dei Celti e quelle dei Romani, si ripeté fra quelle dei popoli retici e dei nuovi invasori; però tutte divennero, innanzi ai popoli cristiani del Medioevo, numi infernali, demoni che atterrivano le genti, e stavano ancora sui troni eccelsi delle Alpi, come fra gli ultimi baluardi dai quali era difficil cosa bandirli per sempre. Dalle Alpi Marittime fino alle Pennine si ebbe culto verso questa divinità. Non sarebbe una lontana immagine della dea Bercht del Tirolo e della Berta svizzera? Czoernig, nella sua opera Die alten Völker oberitaliens, Wien, 1885, vuole che fra le poche divinità dei Reti, di cui si conosca il nome, si trovassero Cuslanus, Rhamnagalle e Squanagalle. Non ne trovai memoria nelle leggende alpine. Un’antica credenza ricordata gravemente dal Thesauro, faceva sicuri i nostri avi che un demonio ‘tiranneggiava l’una e l’altra Alpi Graie e Pennine, e da quell’alte rupi, come da eccelso trono, tutte le soggette valli con barbarie non più udita infestava’.




La sede prediletta di questo terribile demonio alpino trovavasi, secondo la narrazione del Thesauro, sul monte che ora dicesi ancora di Giove ed ove alzavasi una statua del sommo dio dell’Olimpo. I Vallesani l’avevan gittata a terra innalzando in sua vece quella del loro dio Pennino; ma Terenzio Varone, conquistatore della Valle di Aosta, rimise a suo posto la statua di Giove, che divenne la dimora del terribile demonio alpino; il quale derubava i passeggeri e spesso li gettava in profondi burroni. Questo signore delle Alpi era così spaventevole, che faceva ‘impallidire al suo aspetto le stelle, tremare al suo moto la terra, vestita della più nera caliggine; il cielo accozzar vento con vento, infestar le aure col fiato, far piangere le nubi e grandinar sassi’.
Forse questa leggenda accenna ai Saraceni che predarono a lungo su tanti varchi alpini, e nel Breviario di Aosta, citato dal Thesauro, è scritto che sull’altare del dio Giove o Pennino, i demoni facevansi pagare la decima parte di quanto possedevano gli abitanti di quelle montagne, e imponevano a coloro che passavano sui pericolosi sentieri dei colli, il pagamento di forte tributo; quando non credevano di seguire miglior consiglio derubando gl’infelici, e facendoli precipitare nei profondi burroni.
Alcune volte i Saraceni passarono come nembo devastatore sulle Alpi, ritirandosi prontamente nel loro temuto ricovero di Frassineto col bottino raccolto; ma vi è anche prova che essi rimasero in altri casi a custodia di molti varchi alpini; e narrasi che Ugo conte di Arles, nipote di Lotario re di Lorena, fu chiamato a regnare sui Longobardi e venne accolto così bene in Milano, che ebbe origine in quell’occasione il proverbio provenzale: ‘Être reçu comme le Roy Huguet’.




Egli affidò ai Saraceni, dei quali era pure stato nemico terribile, la custodia delle Alpi. Più tardi Ugo fu di nuovo in guerra coi Saraceni che scacciò verso la Provenza, ma poi lasciò che molti si ritirassero sulle Alpi Cozie, e vi si fortificassero esigendo tributi, ed è probabile che si avvalsero a lungo di questa facoltà anche sulle vicine Alpi Graie e Pennine. In ogni modo la leggenda narra che giunsero un giorno in Aosta nove pellegrini francesi, che dissero lo spavento provato e i danni sofferti, per la malvagità del demonio che imperava sul monte Giove. San Bernardo pensò subito di andarlo a combattere e salì sui monti dirupati, vestito di bianco e col bastone pastorale in mano. Terribile fu il combattimento fra il diavolo ed il santo, ed accrescevano il terrore di quella scena, degna di esse re descritta dal Milton ‘horrendi ruggiti, larve, spettri e tutto ciò che può per gli occhi mettere il terrore in un'anima’. Ma San Bernardo fu vittorioso ed il demonio delle Alpi precipitò in una voragine profondissima chiamata Maglio.

L’antica leggenda del Rocciamelone, narrata nella preziosa cronaca della Novalesa, dice che era impossibile salire sull’acuminata vetta del monte, ove i demoni accoglievano con una pioggia di sassi i curiosi, e difendevano il tesoro accumulato lassù da un certo Re Romolo. Questo tesoro non fu trovato mai, sebbene innanzi all’ardimento di un marchese Arduino, il quale andò sull’alta cima, seguito dal clero e col suo vessillo superbamente alzato, i terribili demoni sparirono. Vi è una certa somiglianza fra questa leggenda e quella che diceva esservi sui Pirenei il terribile Principe del vento, il quale imperava dalle cime dei monti fino alle acque burrascose dell’Atlantico, ed era anche a custodia di tesori. Egli però non accoglieva coll’imperversar della tormenta i coraggiosi che volevano conoscere i segreti delle montagne, ma sapeva allettarli con mille inganni onde menarli a sicura rovina.




Fu credenza molto estesa quella che ritenne anche i ghiacciai custoditi da innumerevoli spiriti malvagi, che impedirono a quanto pare i nostri avi di dedicarsi con animo sereno all’alpinismo. Nelle regioni ove non penetrarono i Saraceni, e le loro temute figure non si poterono confondere con quelle di crudeli divinità, si dovette pur conservare dagli alpigiani, un invincibile terrore per certi spiriti malefici, i quali secondo alcune credenze dei pagani, che furono anche comuni ai popoli del Medioevo, si aggiravano nell’aria, ed impedivano alle anime di salire verso il cielo.
I popoli Slavi chiamarono questi malefici spiriti Vijulici; essi potevano colla forza sovrumana rendere impossibile agli uomini di andare nelle alte regioni. Dicesi che trovansi forse ancora nei siti più inaccessibili della Macedonia.

Il Monte Bianco fu pur detto in tempi lontani il Monte maledetto, e veniva guardato con terrore dagli alpigiani. Forse più di qualsiasi altro monte o ghiacciaio leggendario, fu dalla fervida fantasia delle genti, popolato con animali favolosi, con esseri soprannaturali o divinità di un ordine inferiore, addette alla custodia di grotte dalle pareti di brillanti; alle quali era impossibile che si avvicinassero gli uomini, essendo difese da abissi spaventevoli e da crepacci paurosi. I demoni divennero pure, innanzi alla fantasia popolare, signori dello stesso monte, e si disse che le tormente erano cagionate da quegli spiriti infernali. Fu pur creduta opera loro l’avanzarsi dei ghiacciai, che in certi anni giunsero fino alle case di parecchi villaggi, e coprirono terre coltivate; di maniera che gli alpigiani usarono di pregare caldamente per vincere la malefica potenza di quei demoni. Vedremo in altri capitoli come le popolazioni superstiziose delle Alpi, tremanti al ricordo delle antiche loro divinità, costringevano i parroci a benedire i laghi ed a esorcizzare i temporali; egual cosa avvenne rispetto al Monte Bianco, e dicesi che verso la fine del secolo XVII trovandosi Monsignor Giovanni dìArenthon a Chamonix, non solo benedisse la popolazione che si era inginocchiata ove egli passava, ma dietro le calde preghiere di quella buona gente, dovette avvicinarsi ai ghiacciai ed esorcizzarli.




Anche nelle basse regioni delle Alpi ebbero, ed hanno ancora, secondo la credenza popolare, dimora i demoni. Nella Svizzera tedesca chiamansi Tobel certi strettissimi valloni, ove non vedesi un'abitazione di pastori. Chiusi da alte e nere pareti hanno aspetto selvaggio e nel cantone di Berna sono detti Krachen. In quei siti desolati dimorano, secondo le leggende, folletti, diavoli, o altri spiriti malvagi, mentre nel Trentino i montanari della Rendena, credono che nella Valle di Genova, così imponente e bella coi suoi vasti ghiacciai dominati dall’Adamello, ed ove il Sarca balza negli spaventevoli burroni, il Concilio di Trento, o qualche santo potente abbia mandato in esilio tutte le streghe e i demoni del Trentino.
E per una stranezza della fantasia popolare, parecchi grossi massi che trovansi a piè delle dirupate pareti, portano i nomi dei demoni più noti nella valle. Fra questi vi è Zampa de Gal, il quale prende aspetto di elegante giovanotto per ammaliare le belle fanciulle, ma non può mutar forma al piede di gallo che gli serve di mano. Poi trovasi Schiena de Mul, il quale possibilmente offre i suoi servigi a qualche viandante, nel desiderio di portarlo sulle montagne, finché gli riesca di farlo precipitare in un burrone e di prendergli l’anima. Manarot è il demone tentatore dei contrabbandieri, Calcarot manda sogni terribili agli Alpigiani, Balajal, che ha orgoglio pari all’indomabile coraggio, è il re di quella temuta schiera di demoni.




Il diavolo delle Alpi Cozie, del quale trovasi ricordo in Frossasco, ha qualche somiglianza col galante e bellissimo Zampa de Gal della Valle di Genova. Narrasi in quel comune che una giovanetta andava a ballare tutte le sere all’insaputa dei suoi genitori. Con infinita cura, per non destare i suoi che dormivano tranquillamente, essa chiudeva l’uscio di casa, e l’amante, che l’aspettava vicino alla casa paterna, l’accompagnava al lieto convegno. Una sera ella uscì secondo il solito e nell’oscurità diede il braccio ad un giovane, che stava fermo sulla via, e che le parve il suo promesso; ma colui non le disse una parola ed invece di camminare accanto a lei, la sollevò nell’aria. Con sommo suo sgomento la fanciulla capì che era in balia del diavolo, il quale rideva fra la notte oscura, mentre dagli occhi mandava faville. La povera fanciulla aveva la mano destra libera ed appena si riebbe alquanto, dopo la prima impressione terribile di spavento, poté fare il segno della Santa Croce, che valse a liberarla subito dal suo nemico, che la lasciò cadere a terra. Nel mattino seguente certi contadini usciti pel lavoro la trovarono più morta che viva, in vicinanza di una chiesetta dedicata alla Madonna, e che ora vedesi ancora. Non v’è altro monte nel Friuli il quale, per l’aspetto imponente, possa più del monte Canino divenire innanzi alla fantasia popolare un monte leggendario.

Nelle vicine valli di Raccolana e della Resia, gl’immensi massi trasportati dagli antichi ghiacciai formano cumuli spaventevoli, che sembrano rovine delle città dei giganti; mentre altre rocce immense si elevano verso il cielo come una fortezza immane, e sono anche dimore dei diavoli e dei dannati. Il vano gigantesco che trovasi su quelle e dicesi Prestrelenich, è, secondo una leggenda, la finestra dalla quale il diavolo si affaccia; e forse non poche volte quando le nubi nere si addensano sulle alte cime e le saette flagellano le rupi, qualche pastore atterrito vedesi innanzi all'accesa fantasia una gigantesca figura, che si alza fra le rupi, imponente e truce; adattandosi mirabilmente alla grandezza del paesaggio alpino, e che forse guardando la valle, ride da quell’altezza sulle miserie dei poveri mortali.




Oltre la valle d’Ala, fra le maestose moli della Bessanese e della Ciamarella, ritroviamo il diavolo, non in aspetto di mostro spaventevole, come lo dissero tante leggende che divennero popolari nel Medioevo, ma in forma di camoscio; mentre corre da ghiacciaio a ghiacciaio, balza da rupe a rupe, innanzi alle palle di un cacciatore pazzo d’ira, che non aveva ancora fino a quell’ora fallito il colpo, e che non riesce nella corsa vertiginosa a ferire il suo nemico. Poi l’uccide, ne beve il sangue e come ebbro di gioia, discende portandolo sulle spalle, verso l’incantevole Pian della Mussa, ove trionfa in tutta la sua bellezza la flora alpina; ma pargli che la strana bestia diventi di piombo e affranto la getta sull’erba. Gli occhi del camoscio si fanno in un baleno fiammeggianti, e con voce minacciosa quella bestia infernale chiede come cosa sua l’anima del cacciatore atterrito che salvasi invocando San Giorgio. Questa leggenda che udii narrare in Balme nell’allegro villaggio alpino, all’imboccatura della valle che volge al Piano della Mussa, parmi una delle più belle che si trovino sulle Alpi; ed acquista un fascino maggiore se pensasi al paesaggio sublime, in mezzo al quale il cacciatore leggendario seguì il suo diabolico nemico.

Anche assai grandiosa nel concetto è la leggenda che ci mostra il diavolo in aspetto terribile, mentre passa nel volo audace sulle cime della Levanna e della Ciamarella, e sui ghiacciai di Sea, oltre l’estrema punta di Val Grande; portando orgogliosamente l’enorme rupe detta Pietra Cagna, ch’egli deve far piombare sopra una città .maledetta. La notte è profonda e il diavolo ride, finché spossato, affranto in modo nuovo, e per una ragione che gli pare incomprensibile, è costretto a lasciare la rupe nel vallone del Torrione, mentre la preghiera di un santo eremita, il quale dimorava nel sito ove ora sorge il Santuario della Madonna di Groscavallo, ha ottenuto il perdono dei condannati.
Per un caso strano, raccontasi nella Svizzera una leggenda simile a questa, e dicesi che mentre cominciava a sorgere la città di Berna, il diavolo ebbe vaghezza di distruggerla; ed avendo sollevato un masso enorme sul Gottardo lo portava superbamente, volando con rapidità, verso la città condannata, volendo farlo piombare su quella; ma Iddio conobbe il suo triste proposito leggendogli nell'animo perverso, e prima che egli giungesse alla meta del suo viaggio perdette ogni forza lasciando cadere il masso, che vedesi ancora nel sito ove avvenne la sconfitta dell’orgoglioso nostro nemico. Esso chiamasi il Peso del diavolo.




Circa ai due terzi della strada che, da Alagna in Val Sesia, conduce al Col d’Olen, per discendere a Gressoney, si vede un grosso macigno spaccato in due da cima a fondo, e vien chiamato il Sasso del diavolo. Questo nome basta a farci intendere che deve avere la sua leggenda, e narrasi che nel mentre gli abitanti di Gressoney la Trinité fabbricavano la loro chiesa, il diavolo volle di struggere la parte già costrutta, e prese nel fondo della valle sulla sponda della Sesia, o come altri afferma, in vicinanza di Roma, un grosso macigno; e caricandolo sulle spalle lo portò nella Valle di Olen, coll’intenzione di farlo precipitare dalla vetta della montagna, appena vi fosse giunto, verso l’altro versante; ove nella caduta avrebbe atterrato la parte della Chiesa che sorgeva dal terreno. Ma questa volta ancora, come eragli già avvenuto in altre regioni alpine, mentre voleva compiere opere nefande di distruzione, egli fu vinto da somma stanchezza, ed a poca distanza dalla vetta del colle di Olen, dovette per riprendere lena lasciare il gran peso del sasso. Quando volle riprenderlo sulle spalle, non ci fu verso che vi riuscisse, rimanendo il sasso immobile sulla terra; ed allora vinto da un tremendo impeto di rabbia, il diavolo scaraventò un violento pugno sul masso, che si spaccò con enorme fenditura. Poi come a manifestare ancora il proprio furore egli urlò in modo orrendo dicendo anche la parola Prebretz, che forse nel suo diabolico linguaggio era qualche terribile bestemmia, e da quel tempo il macigno fu chiamato sempre il Sasso del diavolo o Prebretz-Stein.




Una leggenda del Trentino ci mostra anche il diavolo spossato, vinto in una delle sue tristi imprese notturne. Egli vestito di rosso e cogli occhi sfavillanti, trovavasi a piè della Cima Gaiarda, mentre la luna irradiava il bizzarro gruppo di Brenta e la Cima Tosa. Poi tolse da terra un involto pesante, se lo caricò sulle spalle e andò innanzi fra boschi e burroni, senza nessuna fatica, benché fosse assai grave il peso ch’egli portava. Ma in un attimo cominciò a sentirsi affranto, a curvarsi e andò a stento innanzi, mentre eragli apparsa alla Svolta dei Cavai una croce, innanzi alla quale era stato acceso un lumicino a ricordo di una recente sventura. Finalmente egli fu costretto a gettare a terra l'involto, il quale conteneva danaro rubato, e andò subito a sollevare un grosso masso erratico che collocò sul suo tesoro; poi, mentre guardava sempre la croce vittoriosa, diresse il volo verso la Valle di Genova onde tornare nel suo triste regno. Nel giorno seguente una vecchietta passando vicino al masso erratico, vide delle monete d’oro sparse a terra, che il diavolo aveva perdute, mentre nascondeva il tesoro. Ella si fermò inutilmente per raccoglierle, perché da una spaccatura della montagna, vicino al ghiacciaio di Lares, detta il Crozzon del Diavolo, costui soffiava con tanta violenza verso il masso, che non era possibile prendere le monete. Intanto siccome al cacciatore della Valle d’Ala avvenne di perdere la Messa, quando pazzamente inseguiva il camoscio, così mentre la vecchia affannavasi nel volere raccogliere le monete, essa mancò al suo dovere di buona cristiana; ed è forza credere che fu dannata, perché ora ancora dicesi che si aggiri intorno al masso ed alletti i passeggeri, facendo splendere innanzi ad essi, sulla via, delle monete che non giungono mai a raccogliere; mentre il diavolo continua a soffiare senza posa dal leggendario Crozzon.

Nell’alta Vallemaggia trovasi pure il Sasso del diavolo, enorme blocco di roccia, che si eleva innanzi al villaggio di Prato e vicino al fiume. La leggenda vuole che il diavolo si adirò fortemente contro quei di Prato, e divisò di chiudere il corso dell’acqua vicino al paese, trasportando in quel sito il blocco; e di certo egli si allietava nel pensare che presto avverrebbe una tremenda inondazione a minaccia del villaggio, travolgendo ogni cosa nella sua furia indomabile. Ma la Vergine non gli permise di eseguire il suo terribile disegno, ed egli fu costretto a lasciare il masso nel sito ove ora trovasi. La gente di Prato a testimoniare la sua gratitudine, eresse alla Vergine una piccola chiesa che sol da poco tempo fu abbattuta.




Le leggende delle Alpi italiane in cui i massi erratici segnano terribili sconfitte del diavolo, possono dirsi in relazione colla credenza espressa in certe leggende francesi, che li dicono rimasti nei siti ove si trovano, dopo tremende lotte fra il principio del bene e quello del male.
In Valle d’Aosta ritroviamo il nostro secolare nemico, mentre vuole impedire il passaggio del colle di St. Théodule al gran Santo che gli aveva dato il nome, essendo stato il primo a varcarlo dopo il passaggio dell’Ebreo errante; ma non avvenne a quella sublime altezza un epico combattimento, pari a quello ricordato dal Thesauro a proposito di San Bernardo. Invece il diavolo della Valle di Aosta prese sulle spalle una delle enormi caldaie che servono ai pastori, e si mosse allegramente per varcare il colle, perché il santo gli aveva promesso di farsi suo schiavo, se egli avesse potuto portarlo a Valtournanche; ma ad un tratto mentre senza guide attraversava il ghiacciaio, egli perdette la forza e precipitò volgarmente colla caldaia fino a Zermatt, nè dopo quella sconfitta ha più osato lasciarsi vedere sul colle.




Altra strana leggenda delle Alpi è quella in cui troviamo, nel genio del male, un ricordo del nordico Wuothan, del quale già parlai come capo dei cacciatori selvaggi. Questo dio, che si potrebbe chiamare il Marte dei Barbari, dilettavasi specialmente di cacce e di battaglie, mentre Voldunus era una divinità dei Celti alla quale consacravasi il fuoco. La sua bizzarra trasformazione medioevale avvenne sulle Alpi di Vaud, ove egli prese anche il nome di Vaudai o Wodan. La leggenda che lo riguarda accenna, forse al pari del combattimento sostenuto da San Bernardo, alla lotta acerba fra il paganesimo e la nuova legge d’amore; ed essa narra che or sono circa 1500 anni Wodan, essendo costretto a ritirarsi innanzi al cristianesimo vittorioso, scelse come suo ultimo baluardo sulle Alpi l’alta punta dei Diablerets a 3250 metri; ma spiacendogli la solitudine volle intorno tutto lo splendore della sua corte infernale, ed imperava sopra innumerevoli schiere di demoni, di streghe e di dannati. Pur fra tante anime maledette non trovava pace sulle alte vette delle Alpi, perché sembravagli che da un momento all’altro sarebbe vinto sull'ultimo suo baluardo; ed egli decise finalmente di fare quanto potrebbe, per ottenere una suprema vittoria, e vendicarsi in modo terribile dei suoi nemici. Con questo desiderio nell’animo perverso, chiamò tutti i suoi sudditi e diede loro ordine di seguirlo, poi in aspetto maestoso, discese dal suo trono eccelso, per andare verso le sorgenti del Rodano. I demoni neri in volto e cogli occhi sfavillanti, i dannati orribili che gettavano all’aria montana urla di dolore e maledizioni tremende; le streghe coi capelli irti sulle fronti ingiallite, gli stavano intorno in aspetto minaccioso, e vi era guerra fra le montagne ed il cielo, in un violento imperversare della tormenta; mentre il vento flagellava le rocce ed il fulmine colpiva nelle valli armenti e villaggi.




Finalmente Wodan sedette sopra un trono formato dalle acque del Rodano, sollevatesi al suo comando, e andò seguendo la corrente del fiume. Egli aveva sul capo un serto fiammeggiante, mentre in una mano stringeva lo scettro di fuoco, e ridendo in modo spaventevole si avvicinava sempre in mezzo alla sua corte paurosa verso le prime case abitate dai cristiani; finché ordinò al Rodano di cominciare una terribile opera di distruzione, volendo che precipitasse nella valle con impeto violento e travolgesse ogni cosa nella sua rabbia. Il fiume ubbidì: in un istante le acque livide, spumeggianti, balzarono contro le rocce, frangendosi con violenza innanzi ai massi enormi che facevano ostacolo alla loro furia, e Wodan rideva ancora, mentre le grida di trionfo dei suoi seguaci coprivano la gran voce del fiume, che toccava quasi le modeste case di un villaggio chiamato San Maurizio; quando in un baleno l’acqua non poté andare avanti. Con furia maggiore il Rodano percosse le rupi, balzando più scuro, più minaccioso ancora; ma la croce venerata dai santi difendeva il villaggio, e Wodan umiliato e vinto dovette ritornare su certe altissime cime delle Alpi, donde soffia con violenza il terribile Vaudaire, o vento del diavolo, che passa sibilando nelle foreste, e solleva l’acqua dei laghi. Ma il vecchio dio, dopo la sua terribile sconfitta, rimane con maggior frequenza sulla cima dei Diablerets, ove comanda al fulmine ed alla tormenta; ed in mezzo alla sua corte infernale, fra la quale arrivano di continuo le anime dei suicidi, egli cagiona infiniti danni alle valli, colla caduta di nuove frane, ed il rovinio di spaventevoli valanghe.




Forse questa leggenda è anche il ricordo di una terribile inondazione del Rodano, della quale trovai memoria nella storia ecclesiastica dei Franchi, di Gregoire de Tours; ma se ciò non fosse si potrebbe domandare a quale terribile invasione dei barbari accennasi in questa leggenda delle Alpi. Non è facile indovinarlo, ma il Rodano a dispetto del suo corso, così breve, vicino a quello di altri maggiori fiumi di Europa, doveva avere le sue leggende bizzarre. La sua importanza somma, innanzi alla fantasia popolare, è stata cagionata dal ricordo di lotte tremende avvenute nelle regioni ove scorre, mentre dalle Alpi volge al mare, e dai passaggi famosi d’invasori. 
Così dicesi il suo nome in certe leggende che ricordano il fatto storico del passaggio di Annibale, o che accennano alle invasioni degli Unni. Ritroviamo pure la sua grandezza leggendaria nelle canzoni di gesta, che ricordano le lotte tra i Saraceni ed i Franchi; e credo che si potrebbe scrivere a lungo sulla poesia delle credenze popolari, che si sono formate intorno ad esso, uscendo però anche dalle regioni alpine, ove trovasi ricordo dell’audace impresa del dio Wodan. Il diavolo sulle Alpi di Vaud chiamasi anche Bocan, perchè secondo la credenza popolare assume spesso forma di bouc, caprone, quando è a custodia di un tesoro, o presiede alle colpevoli adunanze del sabato.

Sono pure innumerevoli sulle Alpi della Svizzera tedesca le strane leggende sul diavolo; ma non mi è parso di trovare traccia della credenza nei demoni custodi dei varchi. Vediamo però spesso su quelle montagne il diavolo come costruttore ardito di ponti; ed al pari della leggenda così popolare in Piemonte sulla costruzione del ponte del Diavolo, che trovasi vicino al comune di Lanzo, sulla Stura che scende dalle Alpi, accennano anche ad un patto col nostro eterno nemico le leggende sparse non solo sulle Alpi della Svizzera e nel Tirolo, ma anche in gran parte di Europa intorno alla costruzione dei ponti del diavolo; ed esse ci mostrano quasi sempre lo spirito malefico tratto in inganno da qualche astuto mortale, dopo la terribile promessa fatta.




La leggenda svizzera del ponte del Diavolo sulla Reuss, non ha minore importanza di quella del ponte leggendario sulla nostra Stura; ed essa narra che un giovane alpigiano non poteva andare a visitare la sua fidanzata senz’attraversare la Reuss, con infinito suo disagio e pericolo; o era costretto a fare un lunghissimo giro per giungere fino alla casa ove essa dimorava. Un giorno egli era sopra una piccola altura, e guardava sgomentato le acque furiose della Reuss, straordinariamente ingrossata mentre si scioglievano le nevi sulle montagne. Era pur triste cosa non andare vicino alla fanciulla amata, e di questo egli dolevasi in cuor suo finché esclamò: ‘Ah ! se il diavolo venisse a costruire un ponte laggiù’. Aveva appena pronunziato quelle parole quando si vide allato il diavolo, non già in aspetto spaventevole o grottesco, ma sorridente e con insolita espressione di benevolenza sul volto. Il pastore che era un buon cristiano non si smarrì e guardò in faccia il suo terribile vicino, il quale gli disse che avrebbe in un attimo fabbricato il ponte, sol che gli venisse promessa l’anima del primo essere vivente che se ne fosse avvalso per attraversare la Reuss. Il giovane pastore promise ciò che voleva il diavolo, tale era l’amore ch’egli aveva nel cuore ed il desiderio di vedere fabbricato quel ponte, che gli avrebbe resa agevole la via per andare dalla fidanzata. Il diavolo cominciò subito l’arduo lavoro che però egli seppe compiere in un baleno, secondo la sua promessa; poi con una gioia intensa nel cuore aspettando il prezzo del suo lavoro, rimase sul ponte ardito. Ma il giovane non osava essere il primo ad avvalersene, ricordando la promessa fatta all’infernale costruttore; quando fortuna volle che un camoscio apparisse sulla sponda del fiume. Con piede leggiero s’inoltrò sul bel ponte nuovo e divenne subito preda del diavolo, il quale furente nel vedere che non eragli riuscito di far sua un’anima umana, sbranò la povera bestia gettandone i pezzi sulle rupi vicine.




Un’altra leggenda mostraci San Gottardo come costruttore del medesimo ponte, mentre il diavolo con mille arti infernali provavasi a non fargli continuare l’opera cominciata; ma il ponte si elevò sulla Reuss a suo dispetto, ed all’impressione di meraviglia che provasi nel vedere fra le montagne quell’arditissima costruzione, si unisce un senso di mestizia se pensasi che l’ira degli uomini turbò in quel sito la pace solenne delle Alpi, ove pure si svolgono tanti drammi nelle ardue lotte dell'uomo contro la natura. Nel 1799 quando gli Austro-Russi battevansi contro i Francesi sulle Alpi, e l’azione principale aveva luogo sul Gottardo; gl’Imperiali attaccati con impeto violento dai Francesi, dopo molte ore di accanita difesa si concentrarono nelle gole, presso il leggendario ponte, avendo perduto 2000 uomini fra morti e feriti.

Una leggenda quasi simile a quella che ci fa vedere il diavolo come costruttore del ponte sulla Reuss, ritrovasi in lontano paese. Essa dice che il ponte di Domingo Terne fu fatto dal diavolo che volle aiutare due fidanzati divisi da un fiume. Tutte le sere lo spirito malefico gettava sull’acqua il ponte ove il giovanotto affrettavasi a passare, e lo lasciava eretto finché egli tornava a casa. Vi fu chi si avvide di questo fatto, ed essendo un gran bene per molta gente, se il ponte rimanesse per sempre in quel sito, le cose furono disposte in maniera che un frate poté seguire il giovane, mentre egli passava sul ponte, e benedicendolo prontamente tolse al diavolo la facoltà di farlo sparire e di danneggiarlo in qualche modo.




Altre leggende somiglianti a queste si trovano pure sulle Alpi del Tirolo, e sempre il diavolo si offre a costruire un ponte in sito, ove l’arte umana incontrerebbe immense difficoltà per superare gli ostacoli; come pure egli chiede sempre nel patto infernale l’anima del primo essere vivente che passerà sul nuovo ponte. E come se l’inganno nel quale fu tratto una volta, non bastasse a metterlo in guardia, trovasi invariabilmente chi usando un po’ d'astuzia fa passare sul ponte un animale; che secondo le diverse leggende è un gatto, un cane, un lupo o un topo.
In una leggenda tirolese la bestia rimasta sopra un ponte nuovo fu una capra, alla quale il diavolo acceso d’ira strappò la coda. Anche un ponte del diavolo vedesi nella leggendaria valle bernese di Lauterbrunnen, e molti se ne trovano ancora in Germania ed in Francia; come pure sono numerosi i racconti in cui il diavolo vuole impedire la costruzione di ponti, di chiese, di cappelle; e credo che una delle più antiche leggende scritte su quest’argomento si trovi in una delle versioni della celebre canzone di gesta detta Le Moniage Guillaume.
Essa narra che re Luigi di Francia era assediato in Parigi da un brigante chiamato Isoré, ed egli mandò a chiamare il celebre guerriero Guglielmo d’Orange, che erasi fatto eremita.




Il prode cavaliere accorse per salvare il re, ma giunto nelle vicinanze di Parigi non poté, a causa della sua gigantesca statura, trovar riparo in una piccola capanna che vedevasi sulla strada, ed avvenne un prodigio; perché il tetto dell'umile dimora si elevò insieme alle mura, e Guglielmo poté entrarvi. Egli sfidò Isoré, lo vinse in duello e poté ritornare in una specie di deserto per fabbricare – belement son Moustier – poi si accinse a costruire un ponte sopra un torrente che passava a piè di una collina; ma il diavolo rovinava di notte il lavoro che il guerriero, mutatosi in eremita, aveva fatto di giorno. Il santo uomo ebbe pazienza per un mese intero, poi essendo stanco di vedere distrutta in quel modo l’opera sua, aspettò una sera il diavolo, e quando gli fu vicino l’afferrò per un braccio e lo gettò in un vortice del torrente. Non di rado su qualche pietra in vicinanza di ponti infernali vedesi, come ciò pure avviene sul leggendario Ponte del Diavolo sulla Stura, l’impronta del piede diabolico, che rassomiglia a quello del caprone e del cavallo. In altri siti delle Alpi egli lasciò pure con frequenza l’infernale impronta, e questa vedesi anche vicino ad una piccola cappella dedicata a San Rocco, non lungi da Melchtal in Isvizzera. In quella cappella i pastori di un villaggio, fabbricato assai in alto sulle Alpi, vanno d’estate ad assistere alle funzioni religiose. Essa è fabbricata vicino ad un tranquillo lago alpino e ad una rupe detta il Salto del diavolo. Pare che costui balzò da un altissimo sasso su quella pietra, volendo impedire ai pastori di costruire la cappella; ma non poté andare avanti, e per castigo della sua audacia dovette lasciare sulla rupe, coll'impronta del piede maledetto, una traccia della sua sconfitta.




In certe leggende francesi il diavolo è detto anche il vieux Gérôme o il vieux Guillaume, ed ha secondo il solito, piede di caprone o di cavallo e corna minacciose. Egli porta un mantello rosso, e, secondo certi racconti, assume con frequenza aspetto così imponente che è chiamato – Le grand seigneur. – Spesso monta, al pari di Teodorico divenuto cacciatore selvaggio, un cavallo nero, che ha grande importanza leggendaria, o si mostra in forma di cane barbone; e vario è il modo in cui egli sparisce dopo che si è lasciato vedere dagli uomini. Alcune volte mutasi in vento o fumo coll’indispensabile odore di zolfo, altre volte ancora in pioggia. Spesso la distruzione segna il suo passaggio, le case sono atterrate senza che più riesca agli uomini di rifabbricarle, gli alberi sono abbattuti, e la fertilità cessa nei campi. Se posasi nel suo passaggio sopra un pezzo di legno, questo diventa nero, e le pietre sulle quali si ferma portano l’orma del suo piede maledetto o quella dei suoi artigli. Dicesi che nel 1798 quando giunsero i Francesi nel cantone di Lucerna, preceduti da pessima fama, vi fu chi ricordando forse le strane credenze sui diavoli, guardò curiosamente i loro piedi, perché dicevasi che li avevano simili a quelli dei caproni!Anche su certe pietre dette delle streghe, sulle Alpi, vedonsi secondo la credenza popolare, impronte di piedi di caproni e di artigli enormi, e nella Valle Grande di Lanzo, sulla leggendaria Pietra Cagna, le tracce lasciate dal passaggio di qualche antico ghiacciaio, sono credute impronte segnate dal diavolo in un momento di cieco furore, quando dovette abbandonarla nel Vallone del Torrione.

Una leggenda della Valsesia narra ancora che or sono molti e molti anni un buon giovanotto in una sera d’estate, passava soletto sulla via che da Alagna mette all’alp di Bors per andare a passare qualche ora di allegria, insieme alle fanciulle che stavano a custodia del gregge. A poca distanza dal ponte sulla Sesia, dietro la cappella di Sant’Antonio, il poveretto fece un tristissimo incontro, il quale poteva atterrire gli uomini più coraggiosi; poiché vide sorgere dietro un gran sasso una figura d’uomo altissima e nera, e di certo si trovò di fronte il diavolo, che l’afferrò e gettandolo contro il sasso si provò a strozzarlo. Ma l’infelice riuscì con una mano libera a fare il segno della croce, ed il diavolo urlando in modo spaventevole sparì. Nel macigno scorgesi ancora in modo distinto l’impronta della spalla e della testa di un uomo, a ricordo eterno del caso pauroso.




Altra leggenda assai diversa spiega la causa di certi segni profondamente impressi sopra uno dei molti massi erratici che si vedono ancora in Savoia, sul vasto piano fra Reignier, l’Arve e le montagne di San Sisto. Questi massi, come spesso avvenne anche in altri siti, furono usati dai Druidi come are pei sacrifizi, ed ora al pari dei massi sparsi, come già vedemmo, nel Trentino, in Val di Genova, ciascuno di essi ha un nome. Così vedonsi laggiù – la pietra dei morti – la pietra delle fate – la pietra del tesoro – la roccia del diavolo – il passo del cavallo – ed è quest’ultimo masso il quale ha la sua leggenda bizzarra, e trovasi non lungi dal villaggio di Arbusigny.

Troveremo in altre leggende delle Alpi ricordo di Pilato e di Erode, ma la leggenda del – passo del cavallo – dovrebbe superare le altre in antichità, poiché risale fino a Noè! Dicesi che dopo la scelta da lui fatta degli animali che volle ritirare nell’Arca, tutti quelli che al pari di tanti uomini rimasero in balìa delle acque invadenti, si diedero a precipitosa fuga; o con rara prudenza cercarono siti ove credevano di trovar sicuro riparo. Fra questi un cavallo, pazzo di terrore, saltò sul masso erratico nel piano in vicinanza di Arbusigny e si credette al sicuro, ma parecchi uomini pensarono che sarebbe stato per loro gran ventura se potevano salirgli in groppa. Essi non vi riuscirono perché il cavallo difendevasi gagliardamente, ed a forza di battere sul sasso lasciò l’impronta dei ferri, i quali, a quanto pare da questa leggenda, si usavano già nei tempi antidiluviani. Però a nulla valse il suo egoismo, perché a poco a poco le acque salirono e lo travolsero nella loro furia.




Anche nelle leggende così numerose sulle Alpi, intorno ai tesori, che secondo le credenze popolari trovansi ad ogni passo, appare con frequenza il diavolo, quando le belle regine delle montagne, i draghi spaventevoli o i nani, che hanno però tutti qualche cosa d’infernale, non sono addetti alla loro custodia.
Una di queste leggende parla del così detto oro del sole, che ritrovasi pure in molte regioni alpine, e che forse potrebbe nella sua lontana origine collegarsi a qualche mito solare, oppure ci ricorda l’uso che si ebbe di chiamare certe monete – d’oro del sole. – In ogni modo, secondo la leggenda, un certo cavaliere Runo di Gastelen era uomo avido di ricchezze, il quale avrebbe fatto volentieri un patto col diavolo per divenire l’uomo più ricco del suo paese. Il diavolo conobbe il suo segreto pensiero e gli apparve un giorno, quando egli era sopra una montagna, in vicinanza del suo castello. Questa volta, come avviene quasi sempre, la leggenda si adatta all’ambiente e ci mostra il diavolo in aspetto nuovo. Egli si lasciò vedere dal Cavaliere Runo, come uomo di alta statura, con un bastone nodoso in mano, i piedi di caprone ed il muso d’orso, e fece subito un patto coll’avido signore, che senza curarsi della terribile importanza della sua promessa, anelava solo al momento di vedere le nuove ricchezze che gli erano state promesse. Con un sol cenno del suo bastone il diavolo fece avvenire sulla montagna un cambiamento meraviglioso. Le rupi, gli altissimi abeti, i fiori alpini divennero in un baleno di un oro così lucente, che vinceva al paragone lo splendore del sole; ma il rapace cavaliere non poté reggere a lungo nel guardare il fulgore che lo circondava, ed ebbe appena il tempo di vedere quali tesori erangli donati dal diavolo; poi perdette la vista per sempre, ed ammalandosi pure gravemente pel dolore di non poter guardare l’oro cotanto amato, divenne presto preda del diavolo. Lo splendido tesoro è però sparito sotto terra, ma una volta all’anno, nel Venerdì Santo, a mezzanotte, appare di nuovo sulla montagna; dalle rupi e dagli alberi partono raggi di vivissima luce e scintille; all'alba tutto ritorna nella terra, senza che sia dato ad alcuno di possedere il tesoro del Cavaliere Runo.




Anche altre leggende delle Alpi svizzere e tirolesi accennano all’apparizione, in certe epoche determinate, di splendidi tesori, i quali mandano una luce vivissima sulle montagne; mentre sempre avviene che non riesce agli uomini d’impossessarsene; ma nella Vallemaggia trovasi una variante nelle leggende sui tesori, i quali, secondo la credenza popolare, appariscono pure in quella regione, nella notte di Natale o nel Sabato Santo, quando si celebra la Messa. Questi tesori appartengono agli spiriti delle montagne che li mostrano così all’aperto; essi spariscono subito innanzi agli uomini, e potrebbe solo impossessarsene chi vedendoli fosse pronto a gettare un oggetto sui cumuli d’oro. Forse in queste innumerevoli leggende sui tesori, che sono quasi sempre sotto la custodia del diavolo, si possono anche avere lontanissime reminiscenze di miti solari; confusi stranamente colla convinzione che in tante regioni delle Alpi si trovano preziose miniere d’oro, a scoprire le quali molte persone perdettero il tempo inutilmente o con poco risultato; essendovi anche però delle regioni ove l’oro si trovò in abbondanza, come nella Bessa, vicino alla Serra Biellese; immenso deserto coperto di ciottoli e stranamente sconvolto, ove si dice che Roma mandasse a cercar l’oro.




Era inevitabile che specialmente nei tempi in cui per combattere il lusso e la corruzione di una civiltà decrepita, si predicavano con maggiore entusiasmo le virtù dell’umiltà ed il merito della povertà, le ricchezze essendo ritenute come fonte di perdizione, il diavolo fosse innanzi alla fantasia popolare addetto alla custodia dei tesori; e non solo nelle leggende delle Alpi e di tutta la Germania lo troviamo destinato a quest’ufficio, ma le leggende francesi ce lo mostrano come padrone di tutte le ricchezze che si ascondono nelle viscere della terra; dicendolo beato se può riuscirgli di menare a perdizione un’anima che aneli al loro possesso.
Il Monte Cistella, dal quale scorgesi tanta parte della catena delle Alpi, sta come gigante fra il paesaggio maestoso e indescrivibile che abbraccia il Monte Rosa, il Monte Bianco, la Jungfrau, il Breitt e l’intera catena delle pittoresche Alpi Bernesi. Esso ha pure la sua importanza leggendaria, ed in Varzo e Valle Antigorio dicesi che racchiuda tesori e che: Però mi sembra che la riputazione del Monte Cistella non giunga all’altezza di quella che ha in Val Grande di Lanzo la Pietra Cagna, che già dissi, secondo la credenza popolare, trasportata dal diavolo, poiché vuolsi che:Bec Ceresin e Pietra CagnaValgon più di Francia e Spagna.
Ma ritornando al Monte Cistella, esso ha pure, come dimora prediletta di misteriosi spiriti, la stessa importanza della cima dei Diablerets, del Monte Pilato, del Monte Canino e di altri colossi alpini, intorno ai quali narransi in maggior numero portentosi racconti. Vi è pure chi dice che nel Monte Cistella si trovano pozzi di mercurio, ma coloro che li vedono e vanno a prendere recipienti per attingerne, non li trovano più al loro ritorno. I pastori raccontano che il Piano del Cistella è il gran salone da ballo del diavolo, e che ne incoglierebbe male a chi si trovasse di notte lassù, mentre forse Satana vi tiene corte bandita e si odono urla e grida che fanno spavento.




Parecchi volumi non basterebbero a contenere tutte le leggende delle Alpi in cui entra il diavolo, e che trovansi specialmente nelle regioni appartenenti all’Italia, alla Svizzera ed all’Austria. Ora dirò solo che secondo il concetto che ho potuto farmi sui racconti creati dalla fantasia popolare, che vide apparire Satana sull’immensa catena, si trova in essi, in modo assai spiccato, la grande influenza che l'ambiente ha sull’animo degli uomini.
Dante che aveva in cuore un alto ideale della bellezza nell’arte, ed era avvezzo alla classica forma degli antichi, volle, descrivendo molti demoni, attenersi pure alle credenze sparse da tante leggende popolari; ma non diede neppure a Lucifero la deformità abominevole e triviale, che la figura del diavolo ha con tanta frequenza, in certe leggende ed in molti dipinti del Medioevo.

Gli alpigiani che stanno fra paesaggi grandiosi ed imponenti, e sono avvezzi a vedersi dinanzi la meravigliosa bellezza delle montagne, adattano la figura di Satana all’ambiente che li circonda. Essi lo descrivono quasi sempre come terribile o vinto signore di monti altissimi e di valloni spaventevoli, e danno una grandezza epica alla sua figura gigantesca. Altre volte se lo mettono in condizione più umile, e fanno vedere la sua malizia infernale vinta dall’astuzia degli uomini, o dal potere soprannaturale dei Santi; la sua figura non è neppur tale da far provare indicibile ribrezzo e nausea a chi può immaginarla secondo il concetto popolare. Ed anche se appare nelle leggende delle Alpi in forma di caprone, di drago, di cavallo, basta risalire fino ai miti oscuri delle religioni diverse, per ritrovare l’antica grandezza epica di certe figure, che ricordano il genio del male, il quale doveva essere vinto innanzi allo splendore eterno della Croce….
















mercoledì 25 ottobre 2017

LUPI & LUPARE (25)












































Precedenti capitoli:

....E voi cheffrega?... (24/1)

Prosegue in:

Storia di un Eretico (in onor alla Storia fedele a se stessa e ferma nella propria

ed altrui....) (26)














Quello che mi accingo a raccontare è il frutto di una lunga confessione di un vecchio disgraziato che incontrai per la prima volta su di una panchina…
Dall’aspetto non era per il vero tanto vecchio, ma i modi e il suo fare, nel complesso, lo rendevano più datato di quanto era. Di lui, oggi, dopo l’impegno che mi sono assunto, non ho saputo più nulla. L’ho cercato per valli e monti, l’ho forse intravisto da lontano, anche rincorso, oggi spesso vivo nel riflesso della sua ombra. Ma poi è svanito, come un fantasma, delegandomi unico esecutore testamentario della sua vicenda, di questo gravoso impegno.

Nei termini, da lui indicati, fra il romanzo ed il taglio giornalistico.

Nei termini di questo patto, dove ora da lontano vedo scorrere acqua limpida e fragorosa, ho combattuto in prima persona per mantenere l’impegno, del suo narrare e confessarsi, a metà tra il romanzo ed il racconto autobiografico. Sin dall’inizio mi fece preghiera affinché divenissi custode e banchiere della sua esperienza.

Il disgraziato lo incontrai molte volte, in un arco temporale di circa venti anni. Se da principio erano fugaci incontri, a cui entrambi non davamo troppo peso, in seguito divenne amicizia sincera.

Ci vedevamo sovente in luoghi apparentemente differenti, ma in realtà sempre uguali. Belli ed infiniti, come gli incubi, che di volta in volta trasudavano dalla pelle di quell’uomo, nell’apparenza di una morte imminente, che si affacciava come una verità nuova mio braccio. Brancolando nel lucido delirio di un bosco pieno di fantasmi. All’inizio, pensavo, che erano null’altro che spettri della sua mente, i deliri di un malato. Poi mi convinsi del contrario.

…Eppure ho incontrato ancora quell’uomo, quella Natura afflitta, premessa di un Eretico Dialogo mai cessato, e l’ultima volta in medesimo posto rimembrato come un luogo confuso della coscienza che gli aguzzini impongono o vorrebbero comporre per propria demenza, mi narra e racconta una Storia apparentemente sconnessa, fatti di Lupi e cacciatori i quali assolvono il loro potere terreno, mi dice che nel suo solitaria e ultima perseguitata dimora ove tanti e troppi cavalieri accompagnati dai propri fidi scudieri compiono le cosiddette opere materiali dell’uomo: cioè edificano e ristrutturano quanto può apparir meglio allo scopo ultimo della detrazione finale in cima alle scale e non certo quelle del Paradiso….

Mi narra una Storia antica, un pubblico monito cui trarre suggerimento in merito ad una antica caccia mai estinta che vuole il lupo erede di una immagine demonizzata dell’Eretico che meglio lo incarna…

In codesto luogo non lontano da similari dove Pensiero e Ragioni perseguitati e torturati, l’uomo mi narra il pubblico monito mentre i muratori battano e incidono il Tempo di un aguzzino e leggo in vero il raccapricciante manifesto in tutta la sua demenza:




…Il giorno all’interno del cortile e dell’abitato un lupo viene avvistato lasciato libero di azzannare e disturbare il fedele gregge dei viandanti della notte; la notte quanto il giorno il lupo viene visto ed avvistato da chi già ubriaco di fumo sparso senza collare e museruola aggirarsi per vicoli e scalinate  entro e fuori cortili cancelli e mura urinando su’ per le scale e lasciando l’intero popolo della Cascata interdetto e ammutolito per il ritorno del fiero Lupo presso l'antico ovile... e giammai sia detto il vero nome do codesto regno! Di notte spesso viene udito spostare mobili ed altri oggetti mentre fuggono da una tortura centenaria, forse solo demenza tornare a scalciare proprio secolare sterco… moneta di un diverso Dio pregato; tanto da arrecar disturbo al muratore aguzzino... di turno…



….Caro amico, ti rispondo è l’antica caccia dell’uomo, giacché tutte le Creature son pur benedette altre invece dovrebbero essere solo… giacché lo penso e forse è meglio non dirlo per i lupari che dopo arriveranno: ma tutta la tua pubblica ‘defecatio’ insieme all’urina avvistata è una benedizione per cotal cemento sparso; va e corri assieme al tuo amico e le mie parole ti siano di conforto e a te io benedico…

…E leggo a mo’ di sermone similar intento dalla Storia tratto:




…I Lupi per diverse ville del borgo della Cascata andavano manzando de piccoli et de grandi, ritrovandose uno et doi et tre et più de compagnia ala volta, quali facevano de brusci assalti a doi et tre homini che se trovavano insieme, così a piè come a… cavallo…; contra li quali lupi tutta la Patria de villa in villa era estretta a farli ogni previsione de cazze et lazzi, et perseguitandoli in ogni modo; et hera venuti da Greccio del reame Pontificio, certi che havevano portato d’una polvere d’un herba, qual si meteva sopra la carne, qual manzandola li lupi morivano, et cani et gatte et sorzi similmente, d’onde ne seguiva così anche danno; ma nulla nuoceva tal polvere at homo perché questa essere polvere industriosa dello proprio progresso la quale in ogni loco se cala e dallo celo scende a coprir ogni passo ed evidenziare l’orma del lupo così meglio braccato; cotesta polvere nulla noceva all’homo di bona panza anzi per ogni borgo e loco v’erano innumerevoli schiere de ciarlatani che l’ha vendevano come farmaco curatore, e se la manzavano per demonstrar che non facea mai mal a li homeni, come anco io viti deterse in bocha come una brocca che se spegne e se smorza eppure anco non è una stella….

(da una testimonianza dagli specialisti di Puglia del 1539)





















giovedì 19 ottobre 2017

LA SCULTURA FUNERARIA (Seconda Parte) (22)



















Precedenti capitoli:

La scultura funeraria (21/19)

Prosegue in:

Le opere di Dio infinite al loro (misero) tempo (23)













Il desiderio muta in poesia,
la dèa in nuova eresia,
così ci siamo amati
ogni sera ed ogni mattina.
Quando l’ho abbracciata
lungo la via,
mutarono la donna in strega,
ed io oscuro profeta di immonda
diavoleria.
Ci amammo senza pudore
nelle mille forme del suo ventre,
fu solo l’amore di una natura
che veste i colori,
di tante troppe visioni.
Scolpiscono la forma di questa
nuda terra, 
in un bosco quale altare
del nostro pensiero divenuto
parola.
Il popolo così come tramanda
la storia,
ingordo…,
mutò in stregoneria nuova. (31)

Ci amiamo come un antico
ricordo, 
mal riposto nella coscienza
d’un bigotto.
Un puritano spia la mia opera
prendere forma e divenire memoria.
Veglia il mulino dove pian piano
la spiga diviene sospiro della terra,
ora mi guarda e mi asciuga
la fronte,
perché il suo Dio sente macinar  
parola…
sgorgare dalla sua fronte. (32)

Inquisirono anche la donna
perché piano accarezza l’argilla,
della nuda terra con cui veste
la strofa.
Forma perfetta di un’anfora di pietra,
contiene la rima segreta della nostra
dura fatica.
Fila il telaio dell’anima mia
e diviene stoffa pulita,
per donare uguale colore sullo stesso
letto,
in cui abbracciamo l’amore
….mai detto. (33)

Della terra ne fece brocca
e giara
di forma perfetta,
l’accarezzai all’alba
sul far di una mattina.
Dell’opera mia ne fece vita,
quando pregò la mia poesia.
Quando cantai la rima
alla luce di un giorno,  
non ancora nato alla vita.
Il velo dischiuse il respiro
dell’amore,
perché divenne terrore…,
per il loro falso pudore. (34)

Ora scavo e incido di nuovo
l’opera mia,
i resti di un’antica sapienza
ho raccolto,
in questo strano racconto.
La scultura diviene ornamento
di un sapere mai letto,
scolpito nel libro della memoria
dell’intricata storia qui narrata. 
Una lingua diversa, oscura e lontana,
quanto il frammento
racchiuso in uno strano Universo,
mai visto né letto.
Eccetto con l’occhio e l’udito
della mente…,
nominato sapere. (35)

Scrigno segreto d’un cielo
colmo di stelle,
e dello spirito uguale al suo
Primo Dio…,
al di fuori di quelle.
Mi dona motivo di una natura
che parla e racconta,
storie di forme che danzano invisibili
alla memoria della loro innominata
gloria.
Non viste da quell’occhio che scruta
lassù in alto sulla cupola,
Genesi di un’altra natura.
Pur vedendo ugual figura
non scorge la forma,
perché guarda fuori
e non dentro…,
la sua vera natura. (36) 

Per ogni strato di terra 
scavata,
avvicino il passato al presente,
una cellula di vita muta
struttura.
Combina gli elementi,
intrappola la rima,
eterna poesia per questa
segreta via.
E un mito diviene oscura
dottrina,
qualcosa appena intuito,
posto fra il sogno e un ricordo
mai morto. (37)

Un numero intero racconta l’intero
Universo,
ma non conosce il primo momento,
quando il pensiero si fece perfetto.
Privo di materia,
incastrato nell’opera senza tempo,
un uomo chino scruta
il volto di Dio. 
Scolpisce la forma, crea la vita,
grembo di una dèa pregata
una mattina. (38)

Il sogno perfetto muta in terrore,
quando il loro profeta scoprì
la turpe eresia.
L’arcano mistero dell’opera
assoluta,
scolpita dall’uomo e dal suo strano
ricordo,
affiora dalla terra come una Dèa.
È solo un Dio inciso nel pensiero
di un gene mai morto.
Scorre nel sangue di un cielo
pieno di stelle,
e di un oscuro evento primo
al sole…,
e dell’intero Universo appena
scoperto.
Una scintilla di vita all’ombra
dell’intero creato,
…nel fare di una luminosa mattina
al sole della vita.
Mai vista dalla loro santa dottrina. (39)

L’uomo chino al suo mestiere
è privo dell’istinto ma colmo
d’amore,
perché più sublime d’una croce….
la sua passione.
Non fu turpe il sogno scavato
e raccolto,
vista di una dèa  panorama
di vita,
pregato nell’alba di una mattina.
Non vi è peccato nel corpo
della donna,
scultura perfetta in quell’ora,
è solo il miracolo della vita,
è solo un Dio che canta
il suo sogno,
prima della luce del giorno. (40)

Muta il desiderio in preghiera
per ogni cellula della mia memoria.
Per un altro Dio …solo creatore,
quella mattina era troppo oscura,
per scrutare il miracolo di un
eretico,
mai arrivato... alla sua ora.
Sulla soglia del campo
quale sola penitenza,
preghiera e litania,
perché purifica ogni vana tentazione
…..diversa da una croce. (41)

Conta il tempo del solo
comandamento,
affinché la visione di vita
non si tramuti in turpe tentazione.
Non è precetto manicheo
il desiderio del prete,
solo istinto a lui negato
che fa di tutta la natura
….un immondo peccato!
Sudore che scorre piano
sulla schiena:
un uomo scrive una diversa
preghiera,
nel canto del gallo incide
il ricordo,
e in ogni sasso dell’antico orto.
È muto racconto di un diverso
creato,
sepolto nel ricordo di un gene
mai morto. (42)

Tornato al raccolto di un giorno
risorto,
ho scavato ancora la mia poesia.
Ho inciso con le mani nude
un ricordo antico,
diventa ossessione della mattina,
quando la luce s’appresta a lottare
sull’uscio,
di una nera canzone divenuta
nuova visione.
Conto i passi verso il recinto
del mio pianeta,
è vita che sgorga universo
che spiega.
Assenza di gravità chiede
passione,
per raccontare da una crosta dura
come la terra,
quanta fatica è la mia eresia.
Quanta gravità in questa zolla
di terra,
conta le frustate sulla mia schiena,
conta le ore del mio sudore,
mi ruba il pane con tanto
troppo amore. (43)

Mi obbliga alla preghiera
d’una madonna bianco vestita
dentro una chiesa.
All’ombra di un prete che beve
il sangue del Salvatore,
nella fatica del mio sudore.
Calvario del tempo
nel tempio nominato Creato,
taciuto alla mia dottrina,
e senza la clessidra a contarne
le ore.
Perché non vi è tempo…,
nella mia creazione. (44)

Neppure un inquisitore
a contarne le ore.
Un diverso raccolto
all’ombra del sole
che ora sembra morto.
Nella nera profezia
di un falso predicatore,
e la sua oscura visione. 
Come sola certezza che vi è un
diverso Dio,
muto sulla porta e mai ci aspetta,
ma ci dona  il seme…
della ricerca. (45)

La mia stella brilla ogni giorno,
la preghiera ne descrive appena
il contorno.
Le mani scavano incidono dettano
la forma,
un’altra strofa senza la sua ora.
Figlia di un oscuro primo passato,
volle la luce ancora nel grembo
d’un pensiero chiamato tempo.
Scorre e vola lontano,
sogno di un Dio perfetto
taciuto alla loro storia.
Mi dona arte racchiusa
in ogni strofa
senza il frammento
nominato tempo,
e senza pane né gloria,
per indicarmi la sua storia segreta.
Una materia per sempre morta,
alla sua ora infinita. (46)

Da quella prigione tutt’altro
che perfetta,
non posso pregare né profezia
né rima. 
Neppure scolpire la dura pietra,
forma che scava nella memoria.
Concesso e non ammesso,
che il sogno appartenga al profilo
del Dio pregato sul santo altare,
potrei dar forma alla commissione
divina,
purché il profilo e il volto,
così come il resto del corpo,
riproduca forma e …materia,
…del loro Dio ….risorto. (47)

Il quale ci dona denari fama fortuna
e gloria,
per cantare la santa preghiera
d’una Chiesa o la sacra
Moschea.
La rima non cambia nella uguale
costruzione.
Custodi  di un peccato mai nato
per questa mia terra.
Interpretare così il suo Verbo
è il solo dovere che conterà
i denari di siffatta materia!
Muratore che non conosce 
paura,
solo divina architettura!
Una natura senza principio
scolpito nella parola di un profeta,
…e il suo strano Dio. (48)

Tornato alla mia arte
scorgo la pietra divenire
tomba,
racchiude il corpo intatto
d’un antico sovrano.
Apro le porte del suo regno,
con il sudore che bagna
la fronte.
Busso al sogno raccolto
di ère sepolte nel sonno
profondo. 
Mi dona un nuovo frammento
senza custode né testimone
della sua memoria…
…..per sempre sepolta. (49)

La mano accarezza
come chi deve,
con gesto e dovere. 
Chi era suddito in quel ricordo,
e custodiva il pensiero 
di un Dio
ora di nuovo risorto.
Un regno dimenticato
prima della storia
dai posteri narrata,
e mai compresa entro
la tomba del tempo. (50)

La mano accarezza il profilo
di angoli perfetti,
mura ben solide a difesa di un
diverso Dio.
Non conosce l’amaro inganno:
una paura come principio
di vita,
un peccato originale
chiuso nella Genesi
divenuta creazione.
Come un’oscura profezia,
una superstizione che sprona
la coscienza
di un intera esistenza. (51)

Pietra antica di angoli perfetti,
ha difeso la fama e la gloria 
di una diversa coscienza
mai letta,
nel grande biblioteca….
custode della memoria. (52)

Guardo la grande città racchiusa
nella forma…
un’antica tomba ora ammirata.
Guardo i contorni osservo le porte,
leggo il papiro svelare l’antico
mistero.
Formula scritta ed imparata a memoria…
un popolo mai sazio della sua storia.
Ora diviene scultura contemplata
in questa bella giornata così pregata.
Senza neppure un gallo
che annuncia il tempo,
là dove le porte aprono
un altro abisso senza le ore…
del Secondo Dio Creatore. (53)

Altro giorno assente
al tempo.
È il Primo Dio che 
accompagna quest’ora
muta.
Perché da secoli attende
la mia venuta. (54)

Le mani ora,
dopo il lungo lavoro,
accarezzano le frasi dette di notte
ad una dèa che ho preso per moglie.
Lingua sconosciuta di un’altra vita,
mi insegna solo il miracolo
di un diverso creato.
Saggezza antica che imparo
ogni sera fino alla mattina.
Un giorno senza tempo
per la mia arte
perché mi trascina…
….nell’oscura eresia. (55) 

La dèa sussurra strane
parole,
luci non scorte di lontani
firmamenti,
miliardi di stelle in infiniti
universi.
Frammenti di una lingua
né udita né vista,
in questo cielo dalle tante
parole.
Ora appaiono in alto,
nell’Universo che prega
l’opera mia.
Il tempo impiegato
per il lungo viaggio,
attraverso l’oscuro oceano,
del grande cielo stellato
divenuto materia,
poi solo parola….
dell’anima mia. (56)

Le voci ascoltate sono mari 
di altri mondi,
all’improvviso ispirano
la comprensione che diviene
ossessione,
….poi strano sorriso.
Poi il pianto d’un pazzo
perché ha scorto il profilo,
e compreso la parola udita la sera..
….sussurrata da una dèa,
antica come una stella. (57)

La parola si svela,
le luci delle stelle accendono
il cielo
in una nuova costellazione.
Le parole comprendo mentre
accarezzo questa visione,
una pietra antica narra
il suo nome.
La luce rivedo dopo secoli di lava,
in millenni di lenta stratificazione. 
Solida nella forma di una dèa
e la sua strana preghiera. (58)

Milioni di anni impiega una stella
per spegnere il fuoco della sua
vera natura.
Una stella divenuta terra
di una nuova poesia,
non avendo misura della sua
prima venuta.
Ad illuminare la vista di elementi
nuovi…,
alla mia umile anima divenuta
comprensione….
della vera natura. (59)

Solo per intendere la parola,
di una voce ascoltata per ore,
senza il desiderio né l’istinto
di un amplesso…,
che chiamano amore.
Solo atto di un corpo per sempre
morto,
mentre l’anima, eterna dottrina
di vita,
insieme alla sua e alla mia preghiera…. 
…..volò via. (60)

Chino alla mia opera
la luce illumina contorni
distinti,
una natura che muta osserva,
concedendo solo la bellezza
di profili antichi.
Destini nascosti alla vista
di un verde che pian piano
diventa collina,
poi dolce salita fino ad una cresta
che nominano vetta.
Dove la neve perenne di un vecchio
ghiacciaio,
nasconde un ricordo mai morto.
Templi lontani custodi segreti
di lingue passate,
luce di stelle non ancora
approdate.
Vedo con gli occhi della mente
il magnifico splendore.
Il giardino incantato di pace e
saggezza non ancora raccolta,
vedo con gli occhi dell’arte
mia,
purezza di antica disciplina. (61)

Il vecchio sarcofago emana
una luce lieve come fosse
neve,
splende come una stella appena
risorta,
alla prima ora della sua nuova
venuta.
Mi dona forza e separo la terra
dalla nuda pietra,
raccolgo la materia intorno al
tempio,
raccolgo la sabbia intorno
alle mura,
decifro il frammento nel tempo
del nostro Universo.
Lo dono poi alla gloria di un
secondo,
prima della memoria.
Quando non esisteva ancora
un pensiero,
vittima di un mito incompreso,
dettato nell’ora di un cerchio
imperfetto. (62)

Dopo il secondo nacque il primo
minuto,
qualcuno disse che è luce del suo
vero trono:
Dio creatore dell’Universo
e della materia,
perché domina l’intero pensiero.
Confondono il Primo al Secondo
(Dio),
con una blasfema eresia.
Costringono il tempo ad uno
strano versetto,
non avendo mai scorto,
il Volto Segreto sepolto in un pozzo
profondo,
come una grande buco nero…,
…..padrone del tempo. (63)  

In questa incomprensibile visione
per questa nostra dimensione,
nascose il profilo e la voce, 
lasciando alla luce il compito
imperfetto:
celare il sogno segreto e mai
detto. 
Mi dona l’intuizione prima
della voce,
caso irrisolto del suo pensiero
nascosto. 
Fa ritorno sempre al punto preciso,
nel circolo ristretto di un giorno
perfetto. (64)

Quel tempo che splende
sotto i miei occhi, 
sono tanti sogni raccolti.
Incarnati nella mente
in un minuto senza tempo,
nel cuore e nell’anima di una
maschera antica.
Specchio di vita un’altra luce
nella via.
Anime di un diverso creato,
dove il tempo non è mai entrato,
e forse mai passato. (65)

Solo inutile contorno,
un ingombro della materia
e della storia,
saggezza di altri mondi,
lingue perfette
e mai scoperte!
Mai udite né viste
nel cielo scrutato ogni notte.
Solo la parola di una dèa,
mia sola compagna in questa
preghiera.
Mia sola luce che splende
in tante rime che penetrano
la mente.
Parole che leggo davanti alla porta
di questa antica dimora,
scudo della storia di una diversa
...memoria. (66) 

Vagano le anime  
per un grande deserto,
specchio di un Universo
imperfetto,
riflesso di una mano intrisa
di materia…,
e nemica della mia preghiera. 
Un Pensiero figlio
di un Abisso,
è sogno incarnato
di questo creato.
Chi, invece,
senza tempo e materia,
e senza peccato aver mai
pensato,
vaga come un’ombra,
….poi come stella,
per insegnar parola e saggezza
di una diverso principio
per questa terra. (67)

Anime divenute materia,
intrappolate in un’èra
della memoria nominata storia,
e incastrate in uno strato
di roccia,
stratigrafia del tempo che avanza. 
Anime lontano dalla vista
di una stella che brilla,
lontano dalle parole,
ora,
solo oscure memorie.
Lontano dalla pietra
quale solo sepolcro,
una civiltà senza volto.
Lontano dall’amore
divenuto potere,
su ogni terra
del vostro avere. (68)

Nominata ricchezza,
poi qualcosa che assomiglia
al principio della guerra,
in cui lei si specchia
per farsi ancor più bella!
Perché la sua natura rinasce
ogni volta che la materia
muore
nell’eterno dolore,
di una terra senza amore. (69)

Lontano dall’istinto,
perché vuole l’uomo predatore
farsi padrone di ogni regno,
dall’uno all’altro mare
di questo sogno indegno.
Poi navigare oltre l’oceano
di nuovo terrore,
cui solo lui conosce
il vero nome.
Per  battezzare la ricchezza
con il suo cognome,
e a noi un sepolcro senza neppure
un nome,
per dar memoria al dolore! (70)

Anime che ora vedo tutte assieme,
negli angoli composti di questa
strana storia raccolta,
in una pietra nascosta.
Riposta con precisa simmetria
da chi conosce le misure che
nominano vita.
Pietra scolpita,
come la città antica
che accoglie la saggezza:
un numero perfetto
e con lui,
un antico componimento.
Per raccontare una diversa
percezione,
chiamata utopia d’amore. (71)

Diverso principio,
dona alla pergamena
incisa sulla pietra,
il mistero svelato:
un pensiero mai nato
nel perimetro della parola.
Prima di lei,
la coscienza riflessa
chiamata creazione.
Impronta di un idea
caduta nella materia.    
Pensiero di un Dio
che accarezza il deserto,
come soffice mantello 
della sua visione.
E un profeta che insegna
preghiera,
non scorgendo il pensiero
della vera intuizione,
nel deserto di un Dio
divenuto terrore.
Confonde la sua poesia
con strano e doppio principio:
orrenda bestemmia!
eresia  morta e sepolta! (72)

Il profeta custode della dottrina,
narra di un Dio superiore
ed uno inferiore,
nell’identico progetto
che porta il suo nome. 
Restituito in geometria
Perfetta,
spirale di vita,
dona illusione
ma non la comprensione. (73)

(G. Lazzari, Frammenti in Rima, Il Primo Dio)