giuliano

lunedì 28 novembre 2022

INTRODUZIONE AD UN DIALOGO (17)

 










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di ciò che non... 


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Dialogo 


& una Epistola...





 

 

Scozia….. 

 

Ogni moneta autentica deve pesare la sesta parte di una libbra. Il metallo impuro non ha mai lo stesso peso, perché contiene meno argento. Questa prova è una pura formalità, ma Giuliano l’ha richiesta espressamente e allora peso la moneta vera su un piatto della mia bilancia di bronzo e quella falsa sull’altro, in modo da confrontarne il peso.

 

E poi resto a guardare.

 

La moneta falsa scende.

 

La moneta vera sale.




Accigliato, tolgo le monete e controllo i piatti della bilancia prima di sostituirli, prestando particolare attenzione a dove poso ciascun denarius.

 

La moneta falsa scende.

 

La moneta vera sale.

 

Ma come?

 

Come è possibile?

 

Quella che ho trovato sulla collina è sicuramente falsa, vista la discrepanza tra i suoi lati, eppure…

 

Smonto la bilancia e la rimonto.




Pongo ciascun denarius su uno dei due piatti.

 

La moneta falsa scende.

 

La moneta vera sale.

 

Le leggi della natura si sono forse ribaltate, che ora si verifica tale fenomeno?

 

Come è possibile che una rondine pesi più di un cavallo?

 

Come è possibile che una moneta trovata  nel covo di un falsario pesi più di una coniata nella zecca, a meno che…

 

A meno che la moneta autentica non sia meno pura di quella falsa.




Ma non è possibile.

 

Ho visto mentre la coniavano.

 

L’ho stretta in mano quando era ancora calda.

 

E’ pura quanto tutte le altre monete di Roma.

 

A meno che.

 

A meno che noi non riduciamo la purezza delle monete.




Il sangue mi brucia, mi ribolle nella guancia, mentre il pensiero accarezza questa eresia.

 

E’ assurdo, va contro ogni ragione supporre che l’impero sia capace di contraffazioni simili, al punto che un denarius falso ha più valore di uno imperiale.

 

Oh , se così fosse, se tutta la ricchezza di Roma fosse solo una doratura che cela la miseria, allora anche l’Urbe sarebbe una moneta falsa, un’impostura, un impero già caduto, privo di qualsiasi baluardo che lo difende dalle orde dei barbari, fatta eccezione per questa sua valuta inconsistente.

 

Questo pensiero è mostruoso.

 

E’ un incubus che strappa il respiro.




E’ un orrore senza fondo.

 

Ed  è vero. 

 

Questa terribile certezza si schianta in me, mi stronca. Vorrei morire o, meglio ancora, vorrei esser morto prima che questa gelida e opprimente verità venisse a togliermi la vita, prima di scoprire la nostra miseria, di sapere che tutto è rovina.

 

Le mie guance ribollono ancora, ma i miei occhi traboccano di lacrime che bruciano come l’aceto. Dietro di me, ora, la porta si apre. Sento lo strascichio di molti piedi e capisco che sono gli uomini del villaggio, so che sono venuti a uccidermi, ma non riesco a guardarli, tanta è la vergogna che provo all’idea che mi vedano in questo stato. Che vedano Roma così ridotta.

 

Alla fine alzo la testa.




Quegli enormi bruti sono sull’uscio e stringono bastoni nodosi nei pugni. Davanti a loro c’è l’uomo grigio con la pancia grassa e la treccia in testa.

 

Mi guardano, inespressivi come la pietra, guardano il piccolo romano che singhiozza accanto alla sua bilancia e se provano disgusto nel vedere questo spettacolo, non è certo più di quanto ne provi io.

 

Si scambiano uno sguardo furtivo e l’uomo grigiastro scrolla le spalle.

 

Stanno per uccidermi.

 

Mi butto in ginocchio sul pavimento, chiudo gli occhi e aspetto il colpo.

 

Cade un ultimo silenzio.




Poi, il suono di molti passi che scendono per le scale, una valanga di legno e di cuoio. Porte che sbattono al piano di sotto. Riapro gli occhi.

 

Sono andati via.

 

Me l’hanno visto in faccia. Hanno visto che sono già morto, che non era necessario uccidermi.

 

Roma è morta.

 

Roma è morta e ora dove andrò?

 

Non certo a casa.




La mia casa è la scena di un teatro, tutta fatta di Libri, e già si scrostano e si sbiadiscono per opera di un sole di squallide piriti.

 

Non posso tornare a casa e allora chi, chi altro mi vorrà?

 

Mi rannicchio a terra e resto a fissare le monete, una falsa, l’altra più falsa ancora, finché la luce non comincia a venir meno ed entrambe non diventano pallide confuse dal buio, indistinguibili, e l’ombra non cade su quella nobile fronte. 

 

La stanza si riempie di tenebra.

 

Non tollero questo buio che toglie chiarezza a ogni linea, a ogni segno. Mi alzo in piedi e, barcollando come chi cammina in sogno, scendo le scale ed esco in strada, stordito. I festeggiamenti sono già in atto, le strade sono già pregne del tanfo di questi farabutti.




Pisciano negli ingressi, si colpiscono l’un l’altro alla testa con il remo e ridono e si inginocchiano nel loro stesso vomito. Fornicano contro le pareti dei vicoli come fossero prigionieri.

 

Scoreggiano e urlano e sono loro tutto ciò che esiste, tutto ciò che mai esisterà. Strascicando in terra i piedi, lentamente vado mischiandomi a questa loro offensiva traboccante oscenità e lasciva.

 

Qualcuno mi ficca in mano un boccale di birra. Con un sorriso cariato in volto, mi afferrano per il braccio, baciano la mia guancia rigata dalle lacrime e mi trascinano in mezzo a loro.

( A. Moore)






sabato 19 novembre 2022

L'OSSO CHE CANTA (13)

 
















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lo Stato di necessità (10) 


& il Lombardo & la Lumaca [11] 


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capitolo completo [12] 


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Stato di corruzione (15/4)









…Al tema de L’osso che canta ci riportano, invece, molti racconti nei quali, se pur cambiano i motivi iniziali, l’assassinio ci viene rivelato nelle forme che già conosciamo o comunque in forme dello stesso tipo.

 

Così, ad esempio, un racconto portoghese ci narra di un fratello che uccide il fratello in seguito alla scoperta di un tesoro (la quale, com’è noto, fa da sfondo a molti tipi novellistici). Avvenuto il delitto l’ucciso viene seppellito.  Sulla sua sepoltura nasce allora una canna. Un giorno, però, passa lì vicino un pastore, il quale taglia un po’ di quella canna per farsi un flauto. E il flauto comincia a cantare:

 

Toca, toca, oh pastor,

Or meus irmnos me mataram,

Por trez maçasinhas de ouro

E ao cabo nao as levaram.

 

Il pastore cede il suo flauto, il quale, passando da individuo a individuo (il testo dice: andiando de individuo pasa individuo), giunge fra le mani dei genitori del morto. E così canta:

 

Toca, toca, oh meu pae

Toca, toca, oh minha mne

Os meus irmaos me mataram

Por trez maçasinhas de ouro

E ao cabo nao nas levaram.




Lo stesso motivo delle canne, chè anzi sono esse stesse a cantare e a rivelare il delitto si ritrova in un racconto dell’Alta Bressia, nel quale, movente del delitto, è una questione del tutto futile. C’erano una volta due fanciulli, un fratello e una sorella, che andavano insieme per i campi. Essi incontrarono sul loro cammino un cespuglio di prugnole. Allora si azzuffarono perché ciascuno di essi voleva mangiarsele tutte. La sorella, che era la primogenita, uccide il fratellino, lo sotterra in un campo vicino e rientrando dice ai suoi genitori che suo fratello s’era perduto nel bosco. Dopo qualche tempo la tomba del fratello si ricopre di piante, e in special modo di canne. Una pastorella conduce il suo gregge nel campo ed ecco che le canne si mettono a cantare…

 

Abbiamo visto, così, che il tema de L’osso che canta (quale venne fissato dall’Aarne) si articola, come, del resto, avviene per la maggior parte delle fiabe, in una serie di motivi, alcuni dei quali provengono da vari tipi novellistici. Bisogna aggiungere, comunque, che il tema dell’Osso che canta (insieme a quello, direi, de L’uccello che canta) è noto anche fra i popoli primitivi.

 

Manca nei racconti che provengono da questi popoli il motivo dell’ucciso mangiato. Vi troviamo, però, il motivo dell’uccisione di uno dei protagonisti, il cui assassinio viene denunciato nei modi che noi conosciamo.




Così, ad esempio, in Africa, nella Costa degli Schiavi, si narra di due ragazzi che vanno ad una riunione dove la primogenita riceve mille cauris, mentre duemila ne riceve il più piccolo. La primogenita uccide il fratello e s’impossessa dei suoi cauris. Quando rientra dice ai suoi di avere lasciato il fratello in cammino. Dopo qualche tempo la madre si reca per raccogliere delle foglie e arriva alle vicinanze dove era stato ucciso il figlio, le cui ossa s’erano imputridite e avevano prodotto un fungo. La madre si affretta a raccoglierlo, quando il suo figlio si mette a cantare:

 

‘Madre non mi strappare non mi strappare madre - lo fui presso ai miei amici -Essi mi donarono duemila cauris - Essi ne donarono mille a mia sorella - Essa mi ha ucciso, allora, la crudele’.

 

Ebbene: abbiamo qui un’altra azione. L’uccisore non è più un uomo, bensì una donna.

 

Di un altro fratricidio il quale ci ricorda senz’altro il parricidio della favola di Besso, ricordata da Plutarco – ci narra un racconto diffuso fra i Bantu Meridionali, e precisamente fra i Becjuana...

 

…Una volta, or è tanto tempo, un uomo uccise un altro uomo e tenne nascosto il suo misfatto. L’ucciso fu cercato per ogni dove, ma non si trovò, né si ebbe di lui alcun sentore, e così non si seppe che Bilwe aveva ucciso suo fratello Bilwane. Ma quando tutto intorno taceva, ecco che Bilwe udiva un uccello cantare e il ritornello diceva: ‘Cwidi, lo voglio dire a tutti! Bilwe ha ucciso suo fratello’.

 

Bilwe si alzava fra la gente, tendendo l’orecchio e guardando da ogni parte; guardava gli altri, poi si metteva a sedere. La cosa si ripeteva continuamente, fosse egli addormentato o sveglio. Di lì a poco egli accusò un tale di essere lui il propalatore di quella voce; interrogò sua madre, ma essa disse di non saper nulla. Allora Bilwe si ammalò, e quando gli chiedevano del suo male, diceva: ‘Non sono malato, ma deperisco per questa causa che mi si fa’.




Suo padre e sua madre cominciarono ad osservarlo, anche quando dormiva. Talvolta, mentre stava mangiando, si alzava e diceva: ‘Ptui’; quando andava in qualche posto se ne stava seduto senza dire una parola, oppure si difendeva dicendo: ‘No!, non è vero. Sì, certamente, capo’. Allora suo padre gli domandò: ‘Dimmi, figlio mio, cos’è che ti fa soffrire così. Con chi parli?’. Bilwe rispose: ‘Padre, è questa accusa di aver ucciso mio fratello che non mi lascia né di giorno né di notte’. Il padre gli chiese chi era che l’accusava; e Bilwe disse: ‘Non lo so, non lo vedo, ma mi accusa, anzi è molto insistente nell’accusarmi’. ‘Figlio’ disse il padre ‘hai tu ucciso Bilwane?’. E quegli rispose: ‘Sì padre’.

 

E da quell’istante fu guarito dal suo male, anzi tornò ad ingrassare.

 

Lo stesso motivo dell’uccello che rivela un delitto (altrimenti destinato a rimanere ignoto) si ritrova fra gli stessi Bantu meridionali, fra i Xosa. Con questa differenza: che l’uccisa qui è la moglie, i cui parenti, conosciuto il delitto, uccidono l’incauto uccisore.

 

Njengebule aveva due mogli, le quali un giorno se ne andarono a raccogliere legna nel basco. La più giovane trovò un nido di api nel cavo di un albero, e chiamò la sua compagna perché l’aiutasse a tirar fuori il favo. Ciò fatto, si sedettero e si misero a mangiarlo; la più giovane consumò spensieratamente tutta la sua parte, mentre l’altra ne tenne in serbo un poco, avvolgendolo con delle foglie per portarlo a casa al marito. Giunte al villaggio, entrarono ciascuna nella sua capanna. La maggiore vi trovò seduto il marito e gli diede il favo. Njengebule la ringraziò del pensiero e mangiò il miele, pensando, mentre mangiava, che anche la moglie più giovane, che era la sua favorita, doveva avergliene portato. Finito che ebbe da mangiare si affrettò ad entrare nella capanna di lei, e si mise a sedere, aspettando che essa gli offrisse il buon boccone.




Ma aspettò invano, e impazientitosi finì per chiedere:

 

‘Dov’è il miele?’.

 

E quella rispose:

 

‘Non ne ho’.

 

Allora egli andò in furia e la colpì col bastone più e più volte. Il mazzolino di penne che essa portava sulla testa (come distintivo della sua qualità di allieva dottoressa) cadde per terra; egli furibonde la percorse ancora, finché la donna cadde, e morì. Il marito si affrettò a seppellirla; poi, raccolti i suoi bastoni, si avviò verso il villaggio dei genitori di lei, ad annunziare la sua morte (come avvenuta accidentalmente) e a chiedere la restituzione del bestiame con cui l’aveva comprata. Ma la piccola piuma che le era caduta dalla testa quand’egli l’aveva bastonata si trasformò in uccellino che a volo lo seguì.

 

Egli aveva già percorso un certo tratto, quando vide un uccello fermo su un cespuglio lungo la strada, e sentì che cantava così:

 

‘lo sono la piccola piuma della brava raccoglitrice di legna, la moglie di Njengebule. io sono colei che fu uccisa per capriccio dal marito, che voleva dei pezzetti di favo’.



L’uccello continuò a seguirlo volando al margine del sentiero, finché lui gli gettò un bastone. L’uccello non vi fece caso, e lo seguì ancora. Allora l’uomo lo colpì con un bastone nodoso, e, avendolo ucciso, lo gettò via, e riprese la sua strada. Ma di lì a poco l’uccellino tornò e ripeté la sua canzone; sicché l’uomo, furibondo, gli gettò un altro bastone, lo uccise, si fermò a seppellirlo, e si rimise in cammino. Ma mentre egli camminava, ecco riapparire l’uccello che si mise a cantare:

 

‘lo sono la piccola piuma, ecc’.

 

Fuori di sé dalla rabbia l’uomo disse:

 

‘Che fare di questo uccello che seguita a tormentarmi con discorsi che non voglio sentire? Ora l’ucciderò una volta per tutte lo metterò nella borsa e lo porterò con me’.




E ancora una volta colpì col bastone l’uccellino e, uccisolo lo raccolse e lo mise nella borsa, legandola stretta con una striscia di pelle, ritenendo così di aver liquidato definitivamente il suo nemico.

 

Finalmente arrivò al villaggio dei parenti di sua moglie, dove trovò una danza in pieno fervore e si affrettò a prenderne parte. Salutate che ebbe le sue cognate una di esse gli chiese del tabacco, e lui impaziente di cominciare a danzare e del tutto dimentico di quel che c’era nella borsa, ch’egli aveva deposta, le disse di aprirla. Ed ecco che, aperta la borsa, ne schizzò fuori l’uccello che volò in cima al pilastro della porta, vi si appollaiò e cominciò a cantare:

 

‘lo sono la piccola piuma della brava raccoglitrice di legna, la moglie di Njengebule; io sono colei che fu uccisa per capriccio del marito, che voleva dei pezzetti di favo’.

 

L’uomo udì, e vedendo che tutti del pari avevano udito, fece per darsi alla fuga. Ma alcuni uomini gli saltarono addosso e lo tennero stretto dicendo:

 

‘Perché vuoi fuggire?’.

 

Egli rispose:

 

‘Io ero venuto semplicemente per danzare, non so di chi parli quell’uccello’.

 

Ma l’uccello riprese a cantare e il suo canto risuonò nettamente sopra le teste di coloro che lo tenevano stretto:

 

‘Io sono la piccola piuma...’.

 

Essi stettero ad ascoltare e il senso della canzone cominciò a chiarirsi in loro, sì che divennero sospettosi. Gli chiesero:

 

‘Cosa dite questo uccello?’.

 

Ed egli:

 

‘Non so’.

 

Allora l’uccisero.... 


[PROSEGUE CON: L'OSSO CHE CANTA & LA FORESTA CHE ASCOLTA]










domenica 6 novembre 2022

LETTERE (6)

 









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la Parabola al completo! 


& Lettere (8)







Alla signora Ezra S. Carr  

Yosemite 3 aprile 1871 

& per Conoscenza A Shara….

 

 

Oh, signora Carr, se lei potrebbe essere qui per socializzare in questa gloria di mezzogiorno! Sono nelle Yosemite Falls superiori e riesco a malapena a calmarmi per scrivere, ma dal mio primo battesimo, ore fa, sei stata così presente che devo cercare di correggere il tuo pensiero di cui mi hai scritto. Nel pomeriggio sono salito qui in montagna con una coperta e un pezzo di pane per passare la notte in preghiera fra le zampe di questo autunno. Ma cosa posso dire di più se non desiderare  che tu possa ispirare la tua anima ai raggi di questo cielo?

 

L’argento della luna illumina questa gloriosa creazione che chiamiamo ‘cascate’ e ha posto alla sua base un magnifico doppio arco prismatico. Il tessuto della caduta è delicatamente visibile all’esterno come la sostanza di sommesse nuvole, e le stelle brillano fiocamente attraverso il loro velo. Nel solido corpo ad albero delle cascate c’è un gran numero di grotte, nere e profonde, con evoluzioni di bianchi acrobatici spruzzi, convolutivi vicini a davanzali di sporgenti comete, sopra e sotto i loro lati, come cristalli in una grotta. E ogni atomo del magnifico essere dalla sottile cresta argentea che non offusca le stelle alle frecce interne temprate che colpiscono come fulmini nel suono e nell’energia, tutto si tramuta in vita e spirito: in ogni fulmine e urlo simile ad un ululato si avverte la mano di Dio.

 

Oh, di quale musica mi benedice ora e per sempre!




Il sole della scorsa settimana ha rivelato ed intonato le più grandiose note più dell’intero anno.

 

Ho detto che mi sarei fermato qui fino al mattino e avrei pregato un’intera benedetta notte con le cascate e la luna, ma sono troppo bagnato e devo scendere. Un’ora o due fa sono uscito in qualche modo su una piccola cresta che si estende lungo la parete dietro le cascate. Suppongo di essere stato in trance, ma posso affermare con certezza che ero nel corpo, perché è gravemente malconcio e bagnato.

 

Mentre guardavo oltre l’orlo sottile della cascata e sotto la parete fino al ciglio della roccia, alcuni pesanti getti d’acqua mi colpirono facendomi sbattendo violentemente contro la parete. Improvvisamente tutto si è oscurato, ed è calato un sipario composto da scure comete. Mi accovacciai, trattenendo il respiro, ed ancorato ad alcuni spigoli di roccia, interpretai il battesimo con - ottimistica - seppur moderata buona fede.

 

Quanto poco sappiamo di noi stessi, delle nostre più profonde attrazioni e repulsioni, delle nostre affinità spirituali!

 

E quanto è interessante l’uomo posto nelle sue relazioni con lo spirito simmetrico a questa roccia e a questa acqua!




Quanto significativo diventa ogni atomo del nostro mondo tra le influenze di tutti quegli esseri invisibili e del tutto spirituali nonché angelici che affollano queste pure dimore di schiuma cristallina e granito viola.  Sommo altare di inviolati Dèi.

 

Non posso trattenermi dal parlare a questo piccolo cespuglio al mio fianco e alle gocce di spruzzo che vengono sui miei appunti, e dei singoli granelli di sabbia del pendio su cui sono seduto. Ruskin afferma che l’idea di oscenità è essenzialmente connessa con tutto ciò che lui chiama ‘materia morta’ e non organizzata. Non credo in ciò che scrive, e se dimorasse per un po’ tra gli invisibili arcani Geni di queste montagne, e non in lussuosi alberghi, dimenticherebbe tutte le differenze condite con dotte citazioni da vocabolario, tra il puro e l’impuro, e perderebbe ogni memoria e significato del termine diabolico generato dal peccato.

 

Bene, devo scendere. Sto ignorando tutta la fisiologia dei dottori nel sedere qui in questa umidità universale. Addio a te e a tutti gli esseri che ci circondano. Farò una gloriosa passeggiata giù per la montagna in questa luce bianca e sottile, sulle ciglia aperte ingrigite di Selaginella e attraverso le spesse grotte di ombra nera nelle querce vive, tutte piene di lance innevate di luce lunare. 

[J.M.]




Una delle esperienze più memorabili di John Muir fu l’arrivo di Ralph Waldo Emerson nella Yosemite Valley, il 5 maggio 1871,  Muir aveva trentatré anni ed Emerson sessantotto, ma la disparità dei loro anni non si dimostrò di ostacolo nell’immediato inizio di una calda amicizia. Il miglior resoconto del loro incontro è contenuto in un memorandum di commenti fatto da Muir venticinque anni dopo, quando l’Università di Harvard gli conferì una laurea honoris causa.

 

‘Sono stato fortunato’

 

…disse 


‘nell’incontrare alcuni dei più eletti dei vostri uomini di Harvard, subito li ho riconosciuti come i migliori interpreti e più che degni rappresentanti della nobiltà da Dio dispensata. Emerson, Agassiz, Gray, mi hanno influenzato più di ogni altro. Sì, la maggior parte dei miei anni sono trascorsi nella parte più selvaggia del continente, quasi invisibile, nella contemplazione delle Foreste e delle amate montagne. Questi uomini furono i primi a trovarmi e a salutarmi come un fratello. Prima di tutto, e il più grande di tutti, è arrivato Emerson. Vivevo allora nella Yosemite Valley quale grandioso altare della Sierra, da cui potevo fare escursioni nelle montagne adiacenti. Non avevo molti soldi e allora gestivo un mulino che avevo costruito per segare legname venduto per farne cottage.




Quando è arrivato nella Valle, ho sentito la gente dell’albergo dire con enfasi solenne: “Emerson è qui”. Ero eccitato come non lo ero mai stato prima, e il mio cuore pulsava come se un angelo diretto dal cielo si fosse posato sulle rocce della Sierra. Ma così grande era il mio timore e la mia riverenza, che non osavo andare da lui o parlargli. Mi sono esposto lontano dalla calca di persone che si stavano radunando per incontrarlo, per anch’io, essere presentato e mi riuscì di stringergli la mano. Poi seppi che fra tre o quattro giorni se ne sarebbe andato, e in preda alla disperazione gli scrissi un biglietto e lo portai al suo albergo dicendogli che Il Capitano e Tissiack gli avevano chiesto di trattenersi più a lungo.

 

Il giorno dopo chiese del Vagabondo della valle e fu indirizzato alla piccola segheria. Arrivò al mulino a cavallo accompagnato dal signor Thayer poi smontò ed entrò nel mulino.

 

Avevo uno studio attaccato al timpano del mulino, a strapiombo sul ruscello, nel quale lo invitavo, ma non era di facile accesso, essendo raggiunto solo da una serie di assi inclinate irruvidite da stecche come una scala per galline; ma salì coraggiosamente e gli mostrai la mia collezione di piante e schizzi tratti dalle montagne circostanti che sembravano interessarlo molto, e lui fece molte domande. Venne a trovarmi più volte, e lo vedevo tutti i giorni mentre stava nella valle, e uscendo fui invitato ad accompagnarlo fino al Mariposa Grove of Big Trees.




Gli dissi: “Andrò a compiere un ‘miracolo’, signor Emerson, se mi promettete di accamparvi con me nel Boschetto. Accenderemo un falò glorioso, e i grandi tronchi marroni delle Sequoie giganti saranno illuminati in modo impressionante, e la notte sarà epica e gloriosa”.

 

Si entusiasmò come un ragazzo, il suo perenne dolce sorriso divenne sempre più profondo, e gli rispose: “Sì! Sì! Ci accamperemo, ci accamperemo assieme”; e così il giorno dopo lasciammo Yosemite e cavalcammo per venticinque miglia attraverso le foreste della Sierra, le più nobili sulla faccia della terra, mi fece parlare tutto il tempo, mentre lui parlava pochissimo. I colossali abeti bianchi, l’abete Douglas, il Libocedrus e il pino da zucchero, i re e i sacerdoti delle conifere della terra lo riempirono di timore e di gioia. Quando ci fermammo a pranzare, invitò diversi membri del gruppo a raccontare storie o recitare poesie, e parlò, sdraiato sul tappeto di aghi di pino, dei suoi giorni da studente ad Harvard. Ma quando nel pomeriggio siamo arrivati ​​alla Taverna Wawona’…

 

Qui finisce il memorandum, ma la continuazione si trova nel suo volume ‘I nostri parchi nazionali’ a conclusione del capitolo su ‘Le foreste dello Yosemite’:




Nel primo pomeriggio, quando abbiamo raggiunto la stazione di Clark, sono stato sorpreso di vedere il gruppo rallentare e quando gli chiesi se non stavamo salendo nel boschetto per accamparci dissero: “No, non sarebbe né confortevole né conveniente sdraiarsi la notte all’aria aperta. Il signor Emerson potrebbe prendere freddo; e sa, signor Muir, sarebbe una cosa terribile”.

 

Invano insistetti che solo nelle case e negli alberghi si prende il raffreddore, e che nessuno si fosse mai sentito accampato freddo in questi boschi, che non ci fosse un solo colpo di tosse o starnuto in tutta la Sierra. Poi ho immaginato il clima, il fuoco ispiratore che avrei acceso, ho elogiato la bellezza e la fragranza della fiamma della Sequoia, ho raccontato come i grandi alberi sarebbero stati intorno a noi trasfigurati in una luce viola, mentre le stelle ci guardavano tra le grandi cupole; finendo per esortarli a venire ad immortalarli per farne una notte epica e leggendaria. Ma l’abitudine della casa non può essere superata (il bene immobile viene comunemente detto, e ciò cui entrambi, privati dai beni privati…!), né la strana paura dell’aria pura della notte, sebbene fosse solo aria fresca di giorno con un po’ di fresca rugiada. Quindi erano preferiti la polvere del tappeto persiano e gli odori inconoscibili.

 

E pensare sia questa la miglior scelta della cultura e non solo di Boston, giacché qui ove rinnovo la comune vilipesa Memoria in nome e per conto di Madre Natura, siamo comunemente definiti Vagabondi ignoranti con l’aggiunta di altre troppe calunnie….




Triste e più epico commento del detto e non detto alla cultura del glorioso trascendentalismo (e non solo di questo).

 

Abituato a raggiungere qualsiasi luogo per cui fossi partito, stavo salendo da solo sulla montagna per accamparmi e aspettare l’arrivo della festa il giorno successivo. Ma poiché Emerson sarebbe ripartito presto, ho deciso di fermarmi con lui. Non disse quasi una parola per tutta la sera, eppure era un grande piacere semplicemente stare con lui, scaldandosi alla luce del suo viso come ad un fuoco. Al mattino risalimmo il sentiero attraverso una nobile foresta di pini e abeti fino al famoso Mariposa Grove, e ci fermammo un’ora o due, per lo più nella abitudinaria maniera turistica, - guardando i giganti più grandi, misurandoli con un nastro, camminando attraverso tronchi e annoiati dal fuoco. Ed anche se il signor Emerson era solo gironzolava come se fosse incantato. Mentre attraversavamo un bel gruppo, disse: “C’erano dei giganti a quei tempi”, riconoscendo l’antichità della specie.

 

Il poco tempo misurato fu presto speso, e mentre le selle venivano regolate, esortai di nuovo Emerson a rimanere. “Tu sei una Sequoia”, gli dissi. “Smettila e fai conoscenza con i tuoi fratelli maggiori”. Ma aveva superato il suo periodo migliore, ed era ora un bambino nelle mani dei suoi amici affettuosi ma tristemente civilizzati, che sembravano pieni di conformismo antiquato come di audace (e solo apparente) indipendenza intellettuale.

 

Era il pomeriggio del giorno e il tramonto della sua esperienza di questa vita.




Il gruppo montò a cavallo e se ne andò apparentemente con meravigliosa soddisfazione, quasi trascinandolo via come si farebbe con un vecchio tronco, tracciando il sentiero attraverso ceanothus e cespugli di cornioli, intorno alle basi dei grandi alberi, su per il pendio della conca di sequoie e oltre lo spartiacque. L’ho seguito fino al bordo del boschetto. Emerson indugiò e quando raggiunse la cima del crinale, dopo che tutto il resto della comitiva era finito e sparito dalla vista, girò il cavallo, si tolse il cappello e mi fece un ultimo saluto.

 

Mi sentivo solo, così sicuro che Emerson fra tutti e più di tutti loro sarebbe stato il più ansioso ad ammirare le montagne e cantarle una ad una. Osservando per un po’ il punto in cui era scomparso, quasi senza arrendermi, tornai nel cuore del boschetto, feci un letto di pennacchi di sequoia e felci lungo il ruscello, raccolsi una scorta di legna da ardere e poi camminai fino al tramonto…, lo confesso molti anni dopo l’incontro, giacché rimasi per un po’ afflitto da quello strano morbo depressivo il quale sopraggiunge quando pensi una cosa e scorgi la realtà di tutt’altro panorama…




Gli uccelli, i pettirossi, i tordi, i silvia, ecc., che erano rimasti nascosti alla vista, mi vennero intorno, ora che tutto era tranquillo, e fecero festa chiacchierando tutto il giorno e la notte in lunghi monologhi intervallati da Frammentati Consigli di Stato all’altare così imbandito. Antiche Poesia e lunghe prediche condite con sermoni e inni alati. Puntuale giunge, al mio stato d’animo afflitto e depresso, il loro rimprovero qual divino medicamento, ovvero la loro poesia, la divina cura, e da chi sia dettata o comandata rimane un atroce vago mistero di cui parlai a lungo con la mia Shara, mistero condito dalla fame saziata con un tozzo di pane d’uno strano presentimento, l’eterna certezza d’una Lingua non del tutto né intuita e neppure ben compresa, un vago antico ricordo un Giardino e un diverso Dio, per sussurrare che il suo Pensiero devi aver intuito e l’uomo…

 

…Anni fa John Muir scrisse ad un amico…

 

…Sono irrimediabilmente e per sempre un alpinista… la civiltà del presunto progresso è una lieve febbre, inizia con una leggera influenza poi diviene universale pandemia; nonostante tutta la malvagità che mi è stata lanciata contro non mi ha offuscato i gelidi occhi, mi preoccupo di vivere solo per vederli riflessi nello sguardo della fredda bellezza della Natura… che similmente specchiandosi nei miei parla e detta l’eterna sua Poesia…   

 

Con quale gloria ha adempiuto la promessa della sua perenne aspirazione:

 

la Natura!