giuliano

lunedì 25 dicembre 2023

SPACCATE DEL LEGNO, IO SONO LI' DENTRO; ALZATE LA PIETRA, E LI' MI TROVERETE

 








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circa il (bianco) Natale







Tutto ciò che compone la ‘casualità’ dei gesti apparentemente compiuti non della natura umana, ma da quella Divina – (nell’Atto della Rinascita o Resurrezione come abbiamo letto in un precedente intervento…) - dove traccia il geroglifico della propria immateriale prima ed assoluta consistenza in Infiniti Mondi ove l’Anima (e lo Spirito) ad immagine di chi l’ha forgiata manifesta il proprio invisibile dominio circa la vera universale potenza; descrive una strada non accessibile né tantomeno individuabile nelle normali cartine o mappe geografiche (eccetto che nella verità della Poesia).

 

Dunque riportando per intero, ciò che è stato l’oggetto della nostra disquisizione, come leggere le parole trascritte al punto 20 (77) nel Vangelo di Didimo Giuda Tommaso - Gesù disse:

 

“IO SONO LA LUCE CHE SOVRASTA TUTTI LORO, IO SONO IL TUTTO. IL TUTTO PROMANÒ DA ME E IL TUTTO GIUNGE FINO A ME.

 

SPACCATE DEL LEGNO, IO SONO LI DENTRO.

 

ALZATE LA PIETRA, E LI MI TROVERETE”.




Certamente così riportate o interpretate, le stesse parole all’inizio della nostra disquisizione, assumono una luce differente. Così come assume una luce differente colui che le trascrive o interpreta per noi. Grant nel suo Gnosticismo e Cristianesimo primitivo in riferimento al Vangelo di Tommaso:

 

Ci sembra tuttavia più importante, anziché soffermarci sulle fonti dei detti, considerare la loro finzione nell’opera così come ci è tramandata. Quali segreti rivela in questo Vangelo?

 

Quale importanza rivestono per la teoria sull’origine della gnosi che abbiamo fatta nostra?

 

Gesù non è il Messia, ma è - come un angelo giusto -, come un filosofo saggio…

 

Non è necessario sottolineare che, nel complesso, nel Vangelo di Tommaso è presente una ostilità verso il mondo, verso il corpo, verso l’esistenza fisica dell’uomo nel mondo…

 

Siamo ben al di la del giudaismo; siamo anche molto al di la del Cristianesimo, dato che la rivelazione segreta del Vivente ha sostituito la storia evangelica della vita, morte e risurrezione di Gesù.

 

(Grant - Gnosticismo e Cristianesimo primitivo)




Ma soprattutto come interpretare la comparsa di nuovi (o vecchi) studiosi che si affrettano ad una analisi, certamente interessati ad una possibile interpretazione di detti, parole frammenti discorsi… di questo grande filosofo dell’atto e della parola? Autori poi recensiti da - penne a sfera -, le quali a mio parere operano un torto sia agli - eminenti studiosi -, sia ai depositari del pensiero divenuto parola. Parole fuori dal tempo ma assoggettate alla staticità del tempo divenuto storia. Prima che al culto bizantino della politica. Penne le quali fanno sfoggio di belle parole, disinformando il lettore sulla difficoltà interpretativa, innanzitutto. Vagheggiando una finalità artistica di recensione, forviando in realtà l’inesperto lettore (in questo caso i pochi lettori stando ai sondaggi del consumo dei quotidiani in Italia).

 

 

La strada ove si inerpica e snoda il Dialogo apparentemente irreale seppur vero, e certamente più concreto assoluto simile all’Infinito (Dio) che lo ha ispirato, rispetto al (censito) limite in cui posto e assoggettato il simmetrico umano dialogare; il quale pur ‘scrutando’ nella umana elevata superiorità intellettuale l’origine di se medesimo e ciò cui aspira, non ne intende e coglie la dimensione dell’Essere ed appartenere ad una diversa realtà giammai recepita (nella sindacata censita materia), fors’anche solo ‘intuita’ in potenza paradossalmente nella immateriale realtà e dimensione del non-Essere.




Quindi nel limite della comprensione assoggettata alla funzione della materia; e in quanto tale rivela (e rileva) la capacità (o l’impronta) di raccoglierne la luce dell’Anima e l’Eterno immateriale ‘pensiero’ che la presiede e medita nell’assoluta opposta ed invisibile dimensione (seppur ‘cogitata’ talvolta assente all’atto stesso) donde nata la stessa (materia); e come tale (dimensione non ancora specificata né compresa, quindi assente al cogitante pensiero) non soggetta al ciclo della stessa (materia), semmai facente parte della sfera del Divino e la sua Potenza in Atto colta con il Pensiero rivolto alla dimensione dell’Infinito  successivamente incarnato nell’Anima del Dialogo…

 

[o ciò che intendiamo o traduciamo come tale, seppur non sempre ciò che impropriamente interpretato come ‘divino’ può essere considerato facente parte dell’insieme dato, giacché anche tutto ciò che subordinato al limitato e materiale arbitrio umano, può e deve essere considerato facente parte del demoniaco in cui opera il male…; ovvero, prendiamo in considerazione la differenza fra l’uomo e la Natura; il primo seppur ultimo nei milioni di secoli geologici, tende a meditarla e in ultimo paradossalmente confinarla nell’arbitrio della studiata sezionata materia senza parola e anima alcuna, quindi assoggettata all’assoluto maleficio del dominio ad esclusivo beneficio umano, senza umanità alcuna; in realtà, o ancor meglio, in verità e per il vero, le dimensioni di una più che certa ‘divina sacralità’ appartengono a ciò che erroneamente, per  secoli e millenni, abbiamo posto al nostro insindacabile disquisito arbitrio accompagnato dal giudizio della parola in Atto (e potenza), permettendo ogni sorta di misfatto da cui cogliamo e traduciamo il vero abominio accompagnato, come già più volte specificato, al protratto venerato demoniaco [umano] circa simmetrico Atto in Potenza avverso alla tellurica forza della contrastata Natura da cui nato; il quale come tale pervade e sovrintende l’animo corrotto ragione del presunto ‘Intelletto’ dato e conferito dalla incolmabile assoluta differenza posta al confino [o limite] della parola nata dalla venerata temuta Natura; dacché tutto ciò di cui in Atto senza prerogativa intellettiva circa un diverso Invisibile incompreso divino Dialogo non ancora ben interpretato e neppur compreso, così come udito dal limitato limite umano posto nel rimosso giudizio dello stesso; assoggettato all’insindacabile (nostro ed altrui) giudizio e ugual confino terreno, o ancor peggio, profetico ‘comandamento’; ‘confino’ posto nella differenza fra l’Essere, quindi esistere ad immagine e somiglianza di Dio, e l’inesistente passiva Natura donde nato l’atto creativo; da cui sovrintenderne ed esplicitarne (o ancor meglio, edificarne) l’impropria (corrotta) volontà circa medesima vita interpretata vilipesa e assoggettata al comandato dominio umano; nonché offesa e corrotta negli incompresi seppur magistralmente dialogati principi e Elementi divini conferiti dall’altrettanto esteso dominio della cogitata parola da cui ogni differenza… E se fossimo noi che ancora non abbiamo iniziato né a pensare né a parlare come dialogare? Quindi a sovrintendere il principio stesso della Creazione? ]




 Il quale contiene in sé tutti gli Elementi dei quali è composto l’umano posto non più nel virtuale Dialogo, circa la sua ed altrui natura, giacché dopo lunghi tortuosi indecifrati ed incompresi percorsi, anche quella Divina tende a manifestare, sotto molteplici forme il suo Linguaggio. Chi segue e persegue una strada di giustizia, è certo, ponendo in essa una costante ricerca della verità, che saprà mantenere il Sentiero sgombro da qualsiasi falsa occasione di conquistare cime o fondare terre di nuovo sapere, dove il raziocinio, l’intelligenza, il pensiero e l’equilibrio vengono meno.

 

L’uomo, illuso della conquista, traccia strade di morte e ingiustizia, come ha sempre fatto, prigioniero del limite della sua demoniaca natura convinto del primato della propria indiscussa superiore intelligenza. Lungo il Sentiero che cercherò di tracciare, non vi è una rigida segnaletica, così come talune barriere culturali che limitano la nostra visione dell’insieme, e quindi, il nostro deambulare e disquisire attraverso questi luoghi.

 

Ho spesso incontrato viandanti severi nelle regole, ma miopi nella visione dell’insieme, così come ottimi alpinisti poco propensi all’insieme della montagna.




Il mio bagaglio in questa infinita ora è divenuto assente di tutto ciò che pensiamo abbisognare, ma congeniale per quelle Visioni della realtà circostante, le quali ci permettono una corretta evoluzione a dispetto di come altri intendono lo stesso termine. Mi limiterò a dire, che la mia ‘macchina fotografica’ rivolta al Sé originario donde la ‘materia’ cristallizzata alla retina dell’artificioso occhio la quale simmetricamente ‘immortala’, è comunque destinata ad una diversa e altrettanto simmetrica pretesa d’una rimossa capacità funzionale non più interpretativa, immune all’artifizio della ‘materia’ a cui purtroppo assoggettata l’impropria cieca vista; riposta nel bagaglio di ugual Memoria visiva, la quale seppur ‘vedendo’, talvolta o troppo spesso, non comprende circa la reale dimensione e/o infinita prospettiva della rimossa capacità della stessa.




Quindi tende comporre e scomporre in ugual ‘retina intellettiva’ alle finalità di cui il senso universale di  medesima vista (divina), frammentata e ricongiunta alla cecità di cui si compone la ‘materia’ (e la stessa arte visiva), ricomposta e dedotta qual invisibile immateriale Anima eterna (ad immagine di Dio a cui la vista aspira), e di cui l’organo impossibilitato all’Atto da cui frammentata disgiunta umana Memoria anelare al Divino (o Divina Natura donde nato).




Mentre riconosciamo nel Fiume eterno della Natura (e il suo ciclo simmetrico all’infinito) il Principio creativo dell’Atto non più colto né dedotto, in quanto viziato dal limite linguistico - della seppur evoluta materia - rispetto alla potenza del Pensiero originario immune alla parola, in quanto (Sua) muta voce (infinitamente divina) posta nell’incompresa grammatica della vita; quindi ancor più vicina ed ancor più simmetrica al Primo e assoluto Linguaggio da cui l’invisibile eterno Pensiero presiede(va), o ancor meglio, costituiva il principio Dialogante della Vita, in tutto ciò di cui l’uomo, con tutti i propri nuovi artifizi, impossibilitato (talvolta nel delirante) esercizio deambulatorio d’un cieco - che seppur immobile cammina - armato con ampio margine di muto linguaggio scisso o ricongiunto al senso e/o l’istinto della perduta vista.

 

Gli antichi sapevano ben intendere e vedere cogliendo l’Atto della Natura, ricomposta alla vista dell’Intelletto da cui (il più o meno) decifrato universale mitologico simbolo della parola ne ricomponeva la sacralità dedotta nella spirale divina, comune connesso Pensiero a Lei congiunto comporre l’Uno o l’Anima-Mundi dell’Universo. E sapevano ancor meglio circa la  segreta grande Sua potenza per ogni Elemento ancorato ad una bestia, seppur frammentata e diluita nella mitologia, da cui il tellurico e ancor più potente Primo Pensiero creare l’imperativo degli Dèi poi dell’Uno.




Per ciò detto l’uomo ha perduto e dismesso l’istinto scritto nella spirale creativa del suo ed altrui Genio subordinato alla materia evolutiva, e successivamente posto nel degrado della misurata differenza (intellettiva di cui dotato, e di cui ogni natura differente dalla sua, …sprovvista…), distaccata da ciò di cui ogni senso, compreso il dono della Vita, nata nelle molteplice finalità di custodirne immortalarne e preservarne il comune segreto (e linguaggio), seguendo e perseguendo il Sentiero contrario e/o opposto.

 

Dacché l’uomo e il dio pregato affine al demoniaco e al dominio di un Universo del tutto incompreso nelle finalità per cui nato.  




Mi limiterò a dire che la mia ‘macchina fotografica’ tende a cogliere i tratti dell’Anima con tutti i Principi di cui ogni Elemento della Natura (dalla morta pietra sino al legno della prima selva ove si ramificherà l’uomo) ne evidenziano e risaltano le comuni capacità per ogni senso e non solo umano di pensiero linguaggio e muta parola; tralasciando troppo spesso quelle immagini di ogni giorno che apportano facile benessere alla mente d’un corpo malato, lasciandolo vagare come un cane mosso dal puro piacere di annusare le territoriali orine degli altri suoi amici barattate per acque salvatrici, scordandosi così la strada verso casa giacché le fogne colme di prelibato letame.




Quella ‘casa’ a cielo aperto e certamente più pulito, il cui annusare vedere e pensare presieduto dal più articolato e composto Linguaggio della Natura, e di cui ne abbiamo perso la comune Memoria circa l’Arte di saper coglierne ogni libero Pensiero, non più svago dell’altrettanto articolato affamato palato e di cui ancor più bestiale evoluto ingegno, comporne l’articolata divina seppur muta grammatica, nella spirale dell’Atto creativo da cui Universo e Dio.

 

Per sempre cacciato e successivamente demonizzato.   

 

Chi, appunto, attratto da tutti quegli istinti, che fanno di un essere umano una bestia frutto di una socialità corrotta che inquina in maniera, prima transitoria e poi assoluta e definitiva, verso una profonda fogna spacciata per Ade e principio creativo, nella totalità del pensiero e dell’agire umano, riducendo l’intelligenza ad un istinto olfattivo che appaga il proprio principio di territorialità.




Ripercorrere a ritroso i secoli passati oltre a scoprirne i difetti, i quali sono tutti nella natura corruttibile dell’uomo, è una esperienza divinatoria purificatrice e certamente quasi impossibile in questi anni. Come compiere un valido esperimento di fisica delle invisibili particelle, sospesi e in orbita attorno al nostro pianeta. Le devastanti lacune dei secoli passati lasciano spiragli di luce per apprendere, vedere, sondare, vivere quel pensiero puro che era il frutto fra l’uomo e la natura attorno a lui. La purezza di talune immagini, improbabili oggi, ci conducono su quegli stessi Sentieri e strade che l’uomo difficilmente ora riesce a scorgere. Quelle strade, che possiamo disquisire nell’ambito filosofico e artistico sono l’immagine (che ci rimane, presa direttamente dalla bisaccia di quel viandante con cui ho avuto il piacere di passeggiare alcuni secoli fa) …di Dio.




Per cui se lo stesso va ammirato come pregato, nella terrena speranza, appunto, di ricongiungersi alla parola antica, giacché impossibile scorgerlo solo attraverso l’opera dei suoi costruttori, artefici dei limiti del limitato censito linguaggio accompagnato dal disegno posto nel degrado della nuova arte quale costante architettura e grammatica del progresso (e non certo arte evolutiva) rinnegare se medesimo. Ponendo in essere solamente quella che definirei, seppur impareggiabile opera, una elevatissima ‘segnaletica’ frutto di ineguagliati artisti e mercenari dell’arte (della materia) costretti a barattare il proprio grandioso talento (evolutivo) al soldo d’un regno molto più potente di quello dello spirito, il regno del corpo (di Mammona) incarnato nella materia assente a primo atto in potenza, rivolto e proteso alla deficienza assoluta. Nel momento in cui questo abbisogna di colmare grandi incertezze con false certezze, dispensate allora come pria da falsi conoscitori dell’immagine, nella sua totalità quella IMMAGINE che pensiamo poter tracciare sia noi (custodi dell’antico Segreto divino) che loro.




Grandiosa arte, grandi maestri della costruzione, allora come oggi. Ma quel DIO decantato non è mai entrato per quei Sentieri di immensa ricchezza, perché se peschiamo direttamente dalla sua bisaccia lo troveremo con molta probabilità al di fuori di siffatta costruzione, a criticarne i metodi costi e contenuti. Posto, forse e sicuramente, su un probabile rogo in Cima ad un Teschio al soldo e beneficio d’un nuovo Tempio, che i suoi carnefici e dispensatori - alternati custodi della tomba così come dell’incompreso segreto - hanno acceso a cavallo d’un cammello, aizzando il fuoco purificatore che scaccia sia la pestilenza, compagna inseparabile della povertà, sia il malsano (e dicono anche, perverso contrario…) pensiero quasi sempre virulento e contagioso della verità.

 

Ecco da dove parte la mia, se così la si vuol chiamare, Eresia; ecco dove scorgo le fratture del sisma. Ecco che incontro la geologia e con essa l’eterno pensiero di ‘casualità’ il quale inizia a divenire una ‘equazione’ che compone (nel’)l’evento (o l’avvento ripercorso costante nell’invisibile universale indecifrato muto Sentiero), e con esso, il geroglifico dell’invisibile regredito ‘enunciato’ (fuggito da ogni censimento in atto) più simile ad una bestia (assieme chini nella medesima mangiatoia).




Ecco l’‘osservazione’ e l’‘osservatore’, che in entrambi i casi modificano la propria naturale costruzione nel momento in cui si accingono a porre in essere quei vincoli di ‘prevedibilità’ che impone la visione dell’occhio abituato per sua cultura ad una immagine approssimata e irrazionale, o all’opposto, definita e razionale: quindi disturbatrice ai fini d’una comune universale ‘pre-conoscenza’ da cui ogni più elevato senso e genetico linguaggio disturbato dall’arte del presunto calcolato sapere, immune e in perenne deficienza, e da cui lo stesso atto negato da chi per primo ne difetta per sua povera Natura posta al limite dello stesso, e da cui, più elevata Conoscenza non più affine al mistico dubbio (e da cui per quanto si dica ne deriva il sapere di non sapere equivalente al vero sapere in potenza assommato al beneficio del dubbio sottratto ad ogni umano censimento per sempre in atto), ma posta al perenne servizio o esercizio (‘censorio’) dell’infallibile paradossale comprensione del profanato classificato numerato segreto o Principio Primo.  

 



Ecco dove si doveva nascondere la fede la verità la via.

 

La vera via.

 

Quindi proseguiamo là ove ci siamo interrotti, dacché per ciò che si dica e dirà ancora, e per quanto tale Dialogo sarà per sempre incompreso seppure annoverato come ben conservato negli archivi storici di cui la comune Memoria abbonda e in qual tempo difetta…

 

(Giuliano)  


   






sabato 9 dicembre 2023

QUANDO SALPAMMO CON LA MAZZINI IN ATTESA DELLA COSTITUTIONE (10 Dicembre 1871) (21)

 








Precedenti capitoli 


circa la Corruzione (19/20)  


Prosegue con la Storia 


che ci assolverà (22)







Giunto al Rio-Janeiro, non ebbi molto ad impiegare per trovare amici. Rossetti, che non avevo mai veduto, ma che avrei distinto in qualunque moltitudine per quell’attrazione reciproca, e benevola della simpatia, m’incontrò al Largo do Passo.

 

Gli occhi nostri s’incontrarono, e non sembrò per la prima volta, com’era realmente. Ci sorridemmo reciprocamente, e fummo fratelli per la vita; per la vita, inseparabili! Non sarà questa, una delle tante emanazioni di quell’intelligenza infinita, che può probabilmente animare lo spazio, i mondi, e gl’insetti che brulicano, sulle loro superfici? Perché devo io privarmi della voluttà gentile che mi bea, pensando alla corrispondenza degli affetti materni rientrati nell’Infinita Sorgente, da dove scaturirono, ed a quelli del mio carissimo Rossetti?

 

Io ho descritto altrove l’amorevolezza di quella bell’anima; e morrò forse privo del contento di posare un sasso, sulla terra americana, nel sito ove giacciono l’ossa del generosissimo fra i caldi amatori della nostra bella e povera patria! Nel camposanto di Viamão devono trovarsi gli avanzi del prode ligure, caduto in una sorpresa di notte, fatta dagli imperiali su quel villaggio, ove casualmente trovavasi Rossetti.




Passati alcuni mesi in una vita oziosa, eccoci, Rossetti ed io, ingolfati nel commercio; ma, al commercio, io e Rossetti non erimo atti.

 

Nella guerra, sostenuta dalla repubblica del Rio-grande contro l’impero del Brasile, fu fatto prigioniero Bento Gonçales, ed il suo stato maggiore; e, come segretario dello stesso, presidente della repubblica, e generale in capo dell’esercito, giunse pure prigioniero Zambeccari, figlio del famoso aeronauta bolognese. Rossetti ottenne lettere di corso dalla repubblica, ed armammo il Mazzini, piccolissimo legno nel porto stesso di Rio-Janeiro.

 

Corsaro! lanciato sull’Oceano con dodici compagni a bordo d’una garopera, si sfidava un impero, e si facea sventolare per i primi, in quelle meridionali coste, una bandiera d’emancipazione! La bandiera repubblicana del Rio-Grande! Una sumaca carica di cafè fu incontrata all’altura dell’Isola Grande, e predata. Il Mazzini fu messo a picco per non esservi altro pilota da condurlo per l’alto mare. Rossetti era con me; ma non tutti i compagni miei eran dei Rossetti: voglio dire uomini di costumi puri; ed alcuni, oltre a fisionomie non troppo rassicuranti, si facean oltremodo truci, per intimorire gl’innocenti nostri nemici. Io, mi adoperava naturalmente a reprimerli, ed a scemare, quanto possibile, lo spavento de’ prigionieri nostri.




Un passeggiero brasiliano della sumaca, all’imbarcarmi io sulla stessa, mi si presentò supplichevole, e mi offrì in una scatola, tre preziosi brillanti. Io glieli rifiutai, siccome ordinai non si toccasse agli effetti individuali dell’equipaggio, e passeggieri. Tale contegno io serbai in ogni simile circostanza ed i miei ordini mai furono trasgrediti, sicuri, senza dubbio, i miei subordinati, ch’io ero disposto a non transigere su tale materia. Furono sbarcati, passeggieri ed equipaggio, a tramontana della punta d’Itapekoroia, dando loro la lancia della Luisa (nome della sumaca), e permettendo loro d’imbarcare, oltre le proprie suppellettili, ogni vivere di loro piacimento.




Navigammo a mezzogiorno, e giunsimo dopo alcuni giorni nel porto di Maldonado, ove la buona accoglienza delle autorità e popolazione ci furono di buon augurio. […] Rossetti partì per Montevideo, onde regolare le cose nostre. Io rimasi colla sumaca, circa otto giorni; dopo di che l’orizzonte nostro cominciò ad offuscarsi, e tragicamente potea terminare l’affare nostro, se men buono fosse stato il capo politico di Maldonado, ed io men fortunato. Fui avvertito dallo stesso che non solo (a rovescio delle mie istruzioni) la bandiera rio-grandense non era riconosciuta, ma che giunto era, per me, e per il bastimento, un solenne ordine d’arresto. Eccomi obbligato di metter alla vela, con un temporale da greco, e dirigermi per l’interno del fiume della Plata, quasi senza destino, poiché appena avevo avuto tempo di manifestare ad un conosciuto che mi dirigerei, verso la punta di Jesus-Maria, nelle barrancas  di S. Gregorio, al settentrione di Montevideo, ove aspettare le deliberazioni di Rossetti coi nostri amici della capitale. Giunsimo a Jesus-Maria, dopo stentata navigazione, e rischio di naufragare sulla punta di Piedras Negras, per una di quelle circostanze impreviste, da cui dipende spesso l’esistenza di molti individui.




In Maldonado, colla minaccia dell’arresto, e diffidente anche della benevolenza del capo politico, io, rimasto in terra, per ultimare alcuni affari, avevo mandato ordine a bordo di preparare le armi. Ciò fu eseguito subito; ma successe che le armi, tolte dalla stiva ove si trovavano, furono collocate, per esser più pronte, in un camerino confinante alla bittacola. Messi alla vela, con un po’ di precipitazione, a nessuno venne in mente esser le armi in situazione da poter influire sulle bussole. Per fortuna, avendo io poca voglia di dormire, ed essendo il vento cresciuto a bufera, mi tenevo sottovento del timoniere, cioè alla destra del bastimento, osservando con occhio abituato la costa che corre tra Maldonado e Montevideo, assai pericolosa per le scogliere delle sue punte.

 

Era la prima guardia, cioè dalle 8 a mezzanotte; la notte era oscura e tempestosa. Ad un occhio abituato, però, a cercar la terra nelle tenebre, non era difficile di scorgere la costa, tanto più ch’essa mi appariva più vicina, ad onta d’aver ordinato al timoniere un rombo, che dovea allontanarci da essa. […] Verso mezzanotte la guardia da prua grida: ‘terra’. Altro che terra! In pochi minuti noi ci trovammo avvolti in orribili frangenti, e punte spaventose di scogli mostrare le orride e nere loro teste fuori dell’acqua, senza possibilità di scansarle. Il pericolo era immenso, ed inevitabile. Altro rimedio non v’era che precipitarsi nei vuoti degli scogli, e cercarvi un passaggio. Io ebbi la fortuna di non confondermi. Montai sul pennone di trinchetto, e raccogliendo quanto avevo di forza nella mia voce di ventotto anni, diressi la corsa del bastimento, verso i punti che mi sembravan meno pericolosi, comandando nello stesso tempo le manovre ch’eran necessarie.




La povera Luisa era sommersa dai colpi di mare, che frangevano sulla sua tolda con tanto furore, quanto negli scogli. Uno spettacolo per me nuovo, fu la vista di molti lupi marini, che senza curarsi della tempesta, attorniavano il bastimento da tutte le parti e si trastullavano, come tanti bambini in un campo fiorito. Le loro nere cervici però, dello stesso colore delle rocce che ci circondavano, e con un certo contegno minaccioso anche nei loro trastulli, era roba ben poco rassicurante. Chi sa non aleggiasse in quelle tetre zucche africane il pensiero d’un pasto saporito delle nostre carni. Comunque la riflessione del pericolo padroneggiava ogni altra, e fu un vero caso straordinario poter uscire da quel labirinto senza toccarli. La minima scossa a quelle spaventose punte avrebbe mandato in frantumi il tempestato legno.




Come già dissi, giunsimo alla punta di Jesus-Maria nelle barrancas di S. Gregorio a circa quaranta miglia da Montevideo, verso l’interno del Plata. Solo in quel giorno, giunsi a sapere essere state le armi tolte dalla stiva, e collocate in un camerino accanto alle bussole. Alla punta suddetta niente di nuovo; ed era naturale. Rossetti, minacciato dal governo di Montevideo, fu obbligato di nascondersi per non essere arrestato e non poté quindi occuparsi di noi. I viveri mancavano. Non avevimo lancia da poter sbarcare: eppure bisognava soddisfare alla fame di dodici individui. Avendo io scoperto, alla distanza di circa quattro miglia dalla costa, una casa, mi decisi di sbarcare su d’una tavola, e portar viveri a bordo ad ogni costo. I venti soffiavano dal pampero, ed essendo loro traversia alla costa, ne facevano l’approdo molto difficile, anche con palischermi[…] Eccomi con un marinaro, Maurizio Garibaldi, imbarcati in tavolino da camera, sorretti da due barili, e coi vestiti nostri appesi come un trofeo ad un’asta, eretta su quella nave di nuovo modello, non navigando, ma rotando nei frangenti di quella costa inospitale.




Il Rio de la Plata circonda lo stato di Montevideo, detto anche Banda Oriental, alla sua sinistra, e siccome cotesto bellissimo stato è formato da colline più o meno alte, il fiume ne ha roso la costa, e vi ha formato delle rupi, quasi uniformi, in certi luoghi altissime, per un lungo spazio. Lo stesso importantissimo fiume, alla sua destra, lambe lo stato di Buenos Ayres, e vi depone le sue alluvioni, che formano coll’andar dei secoli le immense pianure de las Pampas. Giunsimo felicemente alla costa; misimo in terra la sconquassata nostra nave; e lasciando Maurizio a rattopparla, mi avviai io solo verso la casa scoperta.

 

Lo spettacolo che si offrì alla mia vista, per la prima volta, quando salito sul vertice de las barrancas, è veramente degno di menzione. Gl’immensi ed ondulati campi orientali, presentano una natura affatto nuova ad un europeo, e massime ad un italiano, assuefatto e cresciuto, ove palmo di terra non si presenta, senonché coperto di case, siepi, opere qualunque di mano d’uomo. Là, nulla di questo: il creolo conserva la superficie di questo suolo, come gliela lasciarono gli indigeni, distrutti dagli spagnuoli. I campi sono coperti di fieno; e non variano che nelle valli, sulla sponda dell’arroyo o nella cañada coll’alta maciega.




Il fiume e l’arroyo, hanno le loro sponde generalmente coperte di bellissimi boschi, spesso d’alto fusto. Il cavallo, il bue, la gazzella, lo struzzo sono gli abitatori di quelle terre predilette dalla natura. L’uomo rarissimo, vero centauro, la passeggia soltanto per annunziare un padrone ai numerosissimi, ma selvaggi suoi servi. Non di rado, il bellicoso stallone, seguito dalla mandra di giumente, ed il toro, scortato anche lui, si avventano sul suo passaggio, disprezzandone l’alterigia, con vigorosi, e non equivoci segni. […] Quanto è bello lo stallone della Pampa! Le sue labbra sentiranno giammai il freddo ribrezzo del freno e la lucidissima schiena giammai calcata dal fetido sedere dell’uomo, brilla allo splendore del sole, quanto un diamante. La sua splendida, ma non pettinata criniera, batte i fianchi, quando il superbo, raccogliendo le sparse giumente, e fuggendo la presunzione dell’uomo, avanza la velocità del vento. Il naturale suo calzare, non mai imbrattato nella stalla dell’uomo, è più lucido dell’avorio; e la ricchissima coda, svolazza al soffio del pampero, riparando il generoso animale dal disturbo degli insetti. Vero sultano del deserto, ei sceglie la più vaga dell’odalische, senza il servile e schifoso ministero della più degradata delle creature: l’eunuco!

 

Chi si farà un’idea dell’emozione, sentita dal corsaro di 25 anni, in mezzo a quella fiera natura, vista per la prima volta!




Oggi, 10 Dicembre 1871, rannicchiato al focolare, ed irrigidito delle membra, io ricordo commosso quelle scene d’una vita passata, in cui tutto sorrideva, al cospetto del più stupendo spettacolo ch’io abbia veduto.

 

Io sono decrepito! ma ove saranno quei superbi stalloni, tori, gazzelle, struzzi, che tanto abbellivano e vivificavano quelle amenissime colline? I loro discendenti pascoleranno senza dubbio quei ricchissimi fieni, sinché il vapore ed il ferro giungano ad accrescer la ricchezza del suolo, ma ad impoverire coteste meravigliose scene della natura. […] In quel tempo la parte del territorio orientale di cui narriamo, era rimasta fuori del teatro della guerra; perciò, trovavansi numerosissimi gli animali d’ogni specie.

 

Nell’altro giorno, trovandoci all’ancora un poco al mezzogiorno della punta suddetta, apparirono due lancioni dalla parte di Montevideo, che credemmo amici; ma siccome non avevano il segno condizionale d’una rossa bandiera, io credetti a proposito d’aspettare alla vela; e salpammo, tenendoci alla cappa colle armi preparate. La precauzione non fu vana: poiché avvicinatosi il maggiore dei due lancioni, con sole tre persone in evidenza, c’intimò la resa, in nome del Governo orientale, quando si trovò a pochi passi da noi, ed apparirono minacciosamente armati, una trentina d’individui. Erimo in panna; io comandai immediatamente; ‘braccia in vela’.




 A quel comando ci fecero una scarica di fucileria, che ci uccise uno dei migliori compagni italiani: Fiorentino di nome: era isolano della Maddalena. Io principiai a dar mano ai fucili, che avevo fatto preparare fuori della cassa d’armi, sul banco di guardia, ed ordinai il fuoco. Impegnossi un combattimento accanito tra le due parti. Il lancione aveva attaccato il giardino di destra della sumaca, ed alcuni dei nemici, si preparavano a salire, rampicandosi al bastingaggio; ma alcune fucilate, e sciabolate li precipitarono nel lancione o nel mare. […]

 

Il timone rimase abbandonato: ed io, che mi trovavo a far fuoco vicino allo stesso, ne presi la barra. In quell’atto una palla nemica mi colpì nel collo, e stramazzai privo di sensi. Il resto del combattimento, che durò circa un’ora, fu sostenuto principalmente dal nostr’uomo Luigi Carniglia, dal pilotino Pasquale Lodola, e marinari: Giovanni Lamberti, Maurizio Garibaldi, due maltesi ecc. Gl’italiani, meno uno, combatterono valorosamente. Gli stranieri, ed i neri liberti, in numero di cinque, si salvarono nella stiva. Io ero rimasto per mezz’ora disteso sulla tolda quale cadavere, ed abbenché dopo, ripresi i sensi a poco a poco, non potevo muovermi, rimasi inutile e fui creduto spacciato. Staccato il nemico a fucilate, non si pensò più ad assaltar nessuno in quelle alture, e si proseguì per l’interno del Plata a cercarvi un asilo e dei viveri.

 

La mia posizione era ben ardua.




Mortalmente ferito, nell’incapacità di muovermi, non avendo a bordo uno solo, che possedesse le minime nozioni geografiche; e perciò mi trassero davanti la carta idrografica di bordo, perché vi gettassi i moribondi miei occhi, per indicare alcun punto di meta da dirigervi la corsa. Indicai Santafè nel fiume Paranà, che vidi scritto in lettere maggiori sulla carta suddetta. Niuno era stato in quel fiume, tranne Maurizio, una sola volta nell’Uruguay. I marinai atterriti dalla situazione, giacché rigettati dal governo di Montevideo, unico che si credeva amico della repubblica rio-grandense, si poteva esser considerati quali pirati, i marinari, dico, erano in un avvilimento indescrivibile; meno gl’italiani, devo confessar il vero.

 

Dalla situazione mia, la vista del cadavere di Fiorentino, e come dissi, il timore d’esser considerati ovunque pirati, essi avevano lo spavento sul volto, ed alla prima opportuna occasione realmente disertarono. […]


(Giuseppe Garibaldi)