giuliano

venerdì 15 giugno 2018

IL GIUDIZIO DI SE' (nel 'bilancio' della vita) (56)



















Precedenti capitoli:

Quinto Potere (55)

















Ciò che ha determinato una presunta ‘caduta di ragione’ nella spettacolarizzazione della vita e con essa l’aspetto di una scelta (nel suicidio quale nuova emozione per una reale e concreta ‘diretta’ con l’umano Spirito al crocevia di una Parabola allo spettacolo della vita), è il giudizio insindacabile dell’indice d’ascolto, che, come l’odierno ‘spread’ possono tanto per quel senso di cui si è smarrito il saggio e retto intendimento con cui dovremmo nutrire l’Anima non meno dello Spirito… nel ‘Quinto Potere’ cui l’uomo sembra aver delegato il suo rapporto (connesso sospeso & in bilico) in diretta tra la vita e la morte…

Questi gli odierni Tempi non meno degli attuali accadimenti…

Ma cerchiamo di esaminare i rapporti che l’uomo intratteneva con la morte nell’evoluzione del proprio Sé nei secoli condiviso con la vera Signora e Padrona nel ballo della vita…





L’uomo subiva con la morte, una delle grandi leggi della specie e non pensava né a sottrarvisi, né ad esaltarla. L’accettava semplicemente, appena con quel tanto di solennità che bastava a contrassegnare l’importanza delle grandi tappe, che ogni vita doveva sempre superare.

Se nel caso del precedente post il Quinto Potere della materia detta le inesorabile leggi della stessa dalla Parabola distribuite e condivise, nel nostro comune passato le cose erano assai diverse; la preoccupazione per la sorte del singolo individuo sono riassunti nella rappresentazione (iconografica e spirituale) del Giudizio universale, alla fine dei tempi, ed il conseguente spostamento del Giudizio alla fine di ogni vita, nel momento preciso della morte; i ‘temi macabri’ e l’interesse nutrito per le immagini della decomposizione fisica…




Nel XIII secolo, l’ispirazione apocalittica, l’evocazione del grande ritorno sono stati quasi cancellati. L’idea del ‘giudizio’ ha avuto il sopravvento, e quella che viene rappresentata è una vera e propria ‘corte di giustizia’.

Il Cristo è assiso sul trono del giudice, circondato dalla sua corte (gli apostoli). Due azioni assumono una sempre maggiore importanza, la pesatura delle Anime e l’intercessione della Vergine e di san Giovanni, in ginocchio con le mani giunte, ai due lati del Cristo-giudice. Ogni uomo è giudicato secondo il ‘bilancio della propria vita’, le buone e cattive azioni sono scrupolosamente separate sui due piatti della bilancia. Del resto, sono state già scritte su un libro. Nel magnifico glancore del ‘Dies irae’, gli autori francescani del XIII secolo fanno portare il libro davanti al giudice dell’ultimo giorno, un libro dove è racchiuso tutto quello secondo cui il mondo sarà giudicato.




Questo libro, il ‘liber vitae’, ha potuto essere concepito dapprima come il formidabile censimento dell’universo, un libro cosmico. Ma, alla fine del Medioevo, è divenuto il libro dei conti individuale. Ad albi, nel grande affresco della fine del XV secolo o principio del XVI che raffigura il Giudizio universale, i resuscitati lo portano appeso al collo, come un documento di identità, o piuttosto come un ‘bilancio’ dei conti da presentare alle porte dell’eternità.

Un nuovo aspetto connesso con il Giudizio dei tempi, si concentra e svolge o meglio dispiega nella camera del moribondo. Troviamo una abbondante iconografia in xilografie diffuse attraverso la stampa, in alcuni libri che sono dei trattati dell’arte del ‘ben morire’: le ‘artes moriendi’ del XV e XVI secolo.




In questa nuova iconografia il moribondo è a letto, circondato dai suoi amici e parenti, sta eseguendo i riti che ben conosciamo. Ma succede qualcosa che turba la semplicità della cerimonia e che i presenti non vedono, uno spettacolo riservato solo al morente, il quale del resto lo contempla con un po’ d’inquietudine e molta indifferenza. Degli esseri soprannaturali hanno invaso la camera e si affollano al capezzale del ‘giacente’, da una parte la Trinità, la Vergine, tutta la corte celeste, e dall’altra Satana e l’esercito dei demoni mostruosi.

La grande adunata che nel XII e XIII secolo aveva luogo alla fine dei tempi, nel secolo XV avviene oramai nella camera del malato.

Come interpretare questa scena?

Si tratta ancora veramente di un giudizio?

Non è un giudizio vero e proprio!




La bilancia su cui si pesano il bene ed il male non serve più. C’è sempre il libro, e troppo spesso avviene che il diavolo se ne approprii con un gesto di trionfo – perché i conti della biografia gli sono favorevoli (del resto che desumiamo dal dialogo fra il ‘futuro morto’ e veggente abbagliato dalla propria illuminazione nel bilancio finale della propria vita all’indice d’ascolto protesa, e il ‘male’ il quale conviene ad un patto con il ‘bene’ che lo avversa nel ‘Quinto potere’ di una diversa e materiale esistenza?...). Ma Dio non appare più con gli attributi del Giudice. E’ piuttosto arbitro o testimone nelle due diverse e distinte interpretazioni che si possono dare: la prima è quella di una lotta cosmica fra le potenze del bene e del male che si disputano il possesso del moribondo, e il moribondo stesso assiste al combattimento come un estraneo, per quanto rappresenti la pista in gioco.

E questa interpretazione è suggerita dalla composizione grafica della scena nelle incisioni delle ‘artes moriendi’; ma se si leggono con attenzione le leggende che accompagnano queste incisioni, ci si accorge che si tratta di un’altra cosa, ed è appunto la seconda interpretazione che ne ricaviamo: Dio e la sua corte sono là per constatare come si comporterà il morente durante la prova che gli viene proposta prima di esalare l’ultimo respiro, e che determinerà la sua sorte nell’eternità.




Questa prova consiste in un’ultima tentazione…

Il moribondo rivedrà tutta la sua vita, quale è contenuta nel libro, e sarà tentato sia dalla disperazione per i suoi errori, sia dalla ‘vanagloria’ delle sue buone azioni, sia dall’amore appassionato per gli esseri e le cose. Il suo atteggiamento, nel lampo di quell’attimo fugace, cancellerà di colpo i peccati di tutta la sua vita, se respinge la tentazione,o, al contrario, annullerà tutte le sue buone azioni, se vi cede.

L’ultima prova ha sostituito il Giudizio finale…

Il terzo fenomeno che propongo alla vostra riflessione appare nello stesso tempo delle ‘artes moriendi’: è l’apparizione del cadavere nell’arte e nella letteratura, è interessante, infatti, il fatto che nell’arte, dal XIV al XVI secolo, la rappresentazione della morte sotto forma di una mummia, di un cadavere semidecomposto, è meno diffusa di quanto si creda, si trova soprattutto nelle illustrazioni dell’ufficio dei morti nei manoscritti del XV secolo, nella decorazione parietale delle chiese e dei cimiteri nella famosa ‘danza macabra’….

Ed a proposito di questa ne esaminiamo un contesto iconografico in tutta la propria eccellenza…

(P. Ariès, Storia della morte in occidente)

(Prosegue...)

















giovedì 14 giugno 2018

VENERDI' (54)







































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Mercoledì   Giovedì  &

Il Quarto Potere

& trattenete il respiro.... su tutti i teleschermi

in anteprima...:

















Quinto Potere (55)









Il pianeta Venere, i suoi spiriti e abitanti








105. Il pianeta Venere, nella concezione degli spiriti e degli angeli appare a sinistra, un po’ indietro, ad una certa distanza dalla nostra terra. Si tratta dell'idea che di ciò hanno gli spiriti, perché né il sole né alcun pianeta appare ad essi; gli spiriti conservano solo un’idea dell’esistenza di questi corpi celesti. In conseguenza di ciò il sole di questo mondo è rappresentato dietro, come qualcosa di scuro ed i pianeti immobili, come nel mondo, fissi nei loro rispettivi posti; si veda sopra (n. 42).




106. Nel pianeta Venere ci sono due generi di uomini di attitudine opposta tra loro; il primo mite e umano, il secondo selvaggio e simile alla bestia feroce. Quelli che sono miti e umani appaiono nella parte più vicina del pianeta, gli altri appaiono a distanza guardando verso i primi, conformemente alla condizione della loro esistenza, dato che nel mondo spirituale tale condizione determina ogni apparenza di spazio e distanza.




107. Alcuni di quelli che sono miti e umani si sono presentati sopra la mia testa è ho conversato con loro di vari argomenti. Hanno riferito che durante la loro vita sulla terra e a maggior ragione quando diventano spiriti essi riconoscono nostro Signore come il loro unico Dio. Hanno aggiunto che lo hanno visto sulla loro terra ed hanno rappresentato anche in che modo è stato visto. Questi spiriti, nel grandissimo uomo sono in relazione con la memoria delle cose materiali che sono in accordo con la memoria delle cose spirituali con le quali ultime sono in relazione gli spiriti di Mercurio, perciò gli spiriti di Venere e Mercurio sono nella massima armonia. Quando essi erano insieme un considerevole cambiamento ed una forte influenza era percepibile nella mia mente attraverso il loro influsso; si veda sopra (n. 43).




108. Non ho parlato invece con gli spiriti selvaggi di Saturno, simili alle bestie selvatiche, ma sono stato informato dagli angeli delle loro attitudini e dell’origine del loro carattere così feroce. La ragione di ciò è che provano enorme piacere nella rapina ed in particolare nel mangiare le prede; il piacere che scaturisce dal loro pensiero di cibarsi delle prede mi è stato trasmesso, e lo ho percepito come qualcosa di eccezionale. Che sulla nostra terra vi siano stati abitanti di una simile natura, appare dalla storia di varie nazioni, tra queste gli abitanti della terra di Canaan (1 Samuele, 30:16) ed anche gli ebrei e gli israeliti, perfino al tempo di Davide quando questi compivano scorrerie tutti gli anni, depredavano i gentili e facevano festa per il bottino. Ho appreso altresì che quegli abitanti erano per lo più giganti e che gli uomini della nostra terra guardavano solo al loro ombelico, erano avvolti nella loro stupidità, non si interrogavano sul cielo o sulla vita eterna ma badavano solo alle cose mondane.




109. Poiché sono di una tale indole, nell’altra vita sono infestati dai mali e dalle falsità. Gli inferni cui essi appartengono appaiono nei pressi della loro terra e non sono in comunicazione con gli inferni degli spiriti malvagi della nostra terra, perché differiscono nell’indole e nelle attitudini, quindi anche i loro mali e le loro falsità sono di una specie diversa.





110. Questi spiriti comunque possono essere salvati e a questo scopo sono confinati in luoghi di rovina, e ridotti all’ultimo stadio della disperazione; poiché non vi è altro metodo con cui i mali ed i falsi convincimenti possono essere sottomessi e rimossi. Quando essi sono nello stato di disperazione, esclamano con vigore di essere bestie, che sono orrendi, che sono odiosi e che sono dannati. Alcuni di loro, quando sono in questo stato, inveiscono contro il cielo, ma poiché questo è frutto della disperazione, è perdonato loro. Il Signore fa in modo che le loro ingiurie non oltrepassino certi limiti. Quando questi sono passati attraverso la sofferenza estrema, sono salvati, in quanto le cose corporee in loro sono perite. È stato inoltre detto a proposito di questi spiriti che durante la vita nella loro terra essi credevano in un creatore supremo per il tramite di un mediatore; ma quando essi sono salvati, sono istruiti sul fatto che solo il Signore è Dio, salvatore e mediatore. Ho visto alcuni di loro, dopo che sono passati attraverso la sofferenza estrema, entrare nel cielo, e quando sono stati ricevuti lì ho avvertito un’impalpabile letizia in loro tale da provocare le lacrime nei miei occhi.

(Emanuel Swedenborg, Terre nell’universo)

















martedì 12 giugno 2018

LA FAVOLA DELLE API (50)




















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La doppia Anima (delle api) (49)

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Il Fiore e l'Universo (con dedica al dio Budha) (51)













Un grande alveare affollato di api, che viveva nel lusso e negli agi, e, tuttavia, tanto famoso per leggi e armi, quanto fecondo di numerosi e vitali sciami, era considerato la grande culla delle scienze e delle arti. Mai api ebbero governo migliore, né mai furono più inquiete e scontente. Esse non erano schiave di una tirannide, né governate da una rozza democrazia, ma da re, che non facevano ingiustizia perché la legge ne limitava il potere.

Molto affollato era il fecondo alveare, ma era proprio il gran numero a farlo prosperare. Milioni di esseri si sforzavano d’appagare la reciproca sfrenatezza e vanità, mentre altri milioni erano intenti a consumare l’ingegnoso lavoro di quelli. Rifornivano metà dell’universo, e avevano, tuttavia, più lavoro che lavoratori. Alcuni, con poca fatica e molto denaro, si lanciavano in affari di gran guadagno, altri erano condannati alla falce e alla vanga e a quei duri e pesanti mestieri nei quali miserabili di buona volontà si affaticano ogni giorno e logorano forze e braccia, per mangiare. Mentre altri facevano mestieri per i quali pochi fanno apprendistato, che non richiedono che sfrontatezza e possono essere avviati senza un soldo: truffatori, parassiti, mezzani, giocatori, borsaiuoli, falsari, ciarlatani, indovini, e tutti quelli che, con inimicizia, astutamente volgono senza scrupoli a loro vantaggio la fatica del prossimo buono, ma malaccorto. Costoro venivano chiamati furfanti ma, eccetto che per il nome, da essi non differivano quelli che lavoravano veramente. Mestieri e impieghi avevano tutti i loro imbrogli, non c'era professione che non avesse i suoi trucchi.




Ma chi potrebbe ridir tutti gli inganni? Persino i rifiuti che si vendevano per strada come concime per ingrassar la terra, spesso erano, per un quarto, mescolati con pietre e ciottoli inutilizzabili, e il contadino brontolava lui che vendeva burro pieno di sale.

Così ciascuna parte era piena di vizi, ma l’insieme un paradiso; adulate in pace e temute in guerra, erano rispettate dagli stranieri e, prodighe delle loro ricchezze e delle loro vite, erano la bilancia di tutti gli altri alveari. Tali erano le benedizioni di questo Stato: le loro stesse colpe contribuivano alla loro grandezza, e la virtù, che dalla politica aveva appreso mille astuzie, per questa felice influenza era diventata amica del vizio; e, quindi, anche la peggiore delle api faceva qualche cosa per il bene comune.

Ma come è vana la felicità dei mortali! Avessero esse solo conosciuto i limiti della felicità, e che la perfezione quaggiù  è più di quel che gli dèi possono concedere, le insensate che brontolavano se ne sarebbero state contente coi loro ministri e col loro governo. Ma esse invece, a ogni insuccesso, come creature perdute senza riparo, maledicevano politici, esercito, flotta, e ognuna gridava: Abbasso gli imbrogli! e ingiustamente, benché consapevole dei propri, non voleva sopportare quelli degli altri.




Alla minima cosa mal fatta e che intralciava gli affari pubblici tutte quelle malandrine senza pudore gridavano: Santi dèi, se solo ci fosse un po’ di onestà! Mercurio sorrideva a tanta impudenza e gli altri chiamavano mancanza di buon senso questo inveire contro quel che amavano, ma Giove, preso da indignazione, alla fine, irato, giurò che avrebbe liberato lo schiamazzante alveare dalla frode, e lo fece. In quel preciso momento questa si allontana e l'onestà colma i loro cuori e mostra loro, come il famoso albero, quelle colpe di cui esse si vergognavano e che in silenzio ora confessano, arrossendo per le loro cattiverie, come bimbi, che vorrebbero nascondere una monelleria e, col rossore, rivelano i loro pensieri, immaginando, se qualcuno li guarda, che gli si legge in fronte quel che hanno fatto.

Ma, o dèi, quale costernazione! Che grande e repentina trasformazione! In mezz’ora, in tutta la nazione, la carne diminuì di un penny per libbra, cadde la maschera dell’ipocrisia al grande statista ed al villano, ed alcuni, notissimi nel falso aspetto che avevano assunto, apparvero, al naturale, come stranieri. Da quel giorno il tribunale fu vuoto, poiché adesso i debitori pagavano spontaneamente anche i debiti che i creditori avevano dimenticato, e costoro li rimettevano a quelle che non potevano pagare. Quelle che erano in torto tacevano e lasciavano cadere i processi cavillosi e vessatori, dal momento che niente poteva prosperare meno degli avvocati in un alveare onesto, tutti, eccetto quelli che avevano guadagnato abbastanza, con i loro calamai se ne andarono in frotta.




Guardate ora il glorioso alveare e vedrete come onestà e commercio vanno d’accordo. Ma lo spettacolo dura poco, rapidamente si dilegua e mostra tutt’altro aspetto, poiché, non soltanto se ne sono andate quelle che ogni anno spendevano grandi somme, ma molte, che ci vivevano sopra, sono anch’esse quotidianamente obbligate ad andarsene. Invano hanno tentato altri mestieri, tutti sono ugualmente affollati.

Crolla il prezzo della terra e delle case; meravigliosi palazzi, le cui mura, come quelle di Tebe, vennero innalzate con la musica, devono esser dati in affitto, e gli dèi familiari, un tempo lieti nelle ricche dimore, avrebbero preferito morire tra le fiamme piuttosto che vedere la volgare scritta sulla porta irridere a quelle superbe di cui si adornarono. L’arte del costruire è ormai finita, gli artigiani sono senza lavoro. Non c’è più un sol pittore famoso per la sua arte, e sconosciuti sono gli scalpellini e gli scultori.

E mentre vanità e lusso diminuiscono, anche le vie del mare sono abbandonate. Non ci sono più mercanti, e intere fabbriche vengono chiuse. Tutte le arti e i mestieri sono negletti: l’accontentarsi del proprio stato, rovina dell’industria, le induce ad apprezzare i prodotti del paese e a non cercare né desiderare altro. In così poche rimangono nel grande alveare, che non possono difenderne la centesima parte dagli attacchi dei numerosi nemici, ai quali tuttavia esse resistono valorosamente, finché si ritirano in un rifugio fortificato, e qui difendono il loro territorio o muoiono. Non ci sono mercenari nel loro esercito, e, poiché combattono eroicamente per la patria, il loro coraggio e la loro lealtà sono infine coronati da vittoria. Ma trionfarono non senza perdite: molte migliaia di api perirono. Indurite dalla fatica e dall’esercizio, considerarono un vizio lo stesso riposo, e ciò rafforzò talmente la loro sobrietà che, per evitare ogni eccesso, volarono nel cavo di un albero tutte soddisfatte e oneste.






                                                           Morale



Cessate dunque di brontolare: soltanto i pazzi si sforzano di far diventare onesto un grande alveare. Godere dei piaceri del mondo, essere famosi in guerra, e pure vivere in pace, senza grandi vizi, è una vana utopia dell’intelletto. Frode, lusso e superbia debbono esistere fino a quando ne cogliamo i benefici. La fame è una piaga spaventosa, non c’è dubbio, ma senza d’essa, chi digerisce e gode buona salute?

Non dobbiamo il vino alla vite misera e contorta che, fin quando cresceva liberamente, soffocava le altre piante e dava solo legna, ma ci allietò del suo nobile frutto quando fu legata e potata?

Così il vizio diventa benefico quando è sfrondato e corretto dalla giustizia. Anzi, se un popolo aspira a essere grande, il vizio è necessario allo Stato quanto la fame per mangiare. La virtù da sola non può far vivere le nazioni nello splendore; coloro che vorrebbero far tornare l’età dell’oro insieme con l’onestà debbono accettare le ghiande.

Bernard de Mandeville















martedì 5 giugno 2018

OVVERO: LA RASPHUIS (47)












































Precedenti capitoli:

Il lavoro gradito a Dio (46)

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Psicopannichia ovvero: il sonno delle Anime (48)














Queste dinamiche, prosegue il nostro Blom, ci appaiono più dure e spietate che mai nella città di Amsterdam, dove negli anni d’oro della potenza marittima e commerciale olandese, si era venuta a creare la massima concentrazione mondiale di esseri umani, mezzi economici, consapevolezza, possibilità di carriera e spirito di inventiva. Alla base di questa ascesa c’erano le strategie del mercantilismo: un modello di crescita economica fondata sullo sfruttamento (ed anche - possiamo aggiungere - sulla speculazione caratteristica quale vera genetica del mercato), e ciò, prosegue Blom, non significava che per i cittadini di Amsterdam, che pure beneficiavano in modo diretto o indiretto di quelle ricchezze strappate ad individui senza tutela (visto l’apporto della politica economica delle colonie ieri non meno di oggi), la vita fosse rose e fiori. I prezzi (ieri come oggi per altri fattori rilevati di cui talvolta o troppo spesso poco comprendiamo valori e termini innestati nel nostro quanto altrui vivere comunitario anche per il controllo degli stessi) crescevano in continuazione. Occorreva darsi da fare ogni giorno. Soltanto i rari esponenti dell’èlite godevano di un benessere sicuro.

Per chi invece, non era disposto a lavorare la città aveva in serbo un rimedio, la cosiddetta ‘rasphuis’, un istituto la cui storia ha molto da dire sulla mentalità legata alla genesi di un nuovo mondo urbano e dei relativi stili di vita. La ‘rasphuis’ era una sorta di prigione, un istituto correzionale sui generis nel quale i giovani disavvezzi al lavoro imparavano a guadagnarsi il pane con il sudore della fronte. Era dotato di laboratori nei quali il legno tropicale veniva ridotto in polvere per servire da pigmento nella tinture delle stoffe. La manodopera veniva compensata a cottimo, ma soggiaceva ad un regime rigido e severo che non solo prevedeva pene corporali per chi disobbediva, ma consentiva ai visitatori paganti di osservare i reclusi al lavoro, come in una sorta di zoo.

Molti di quei visitatori hanno accennato ad una peculiarità della ‘rasphuis’, un dettaglio sul quale non abbiamo altri documenti: sembra che nelle cantine fosse allestita una speciale camera stagna destinata a chi si rifiutava di fornire lavoro. Il renitente veniva rinchiuso e la cella, a poco a poco, si riempiva d’acqua. Il detenuto aveva a disposizione una pompa idraulica per salvarsi dall’annegamento, in altri termini, era fisicamente costretto a lavorare.

Il lavoro era cosa gradita a Dio!

Già Calvino lo aveva insegnato, e nessuno più degli olandesi era sensibile a quelle dottrine. Anche nelle politiche sociali delle autorità comunali di Amsterdam, specialmente per quanto concerne i sussidi ai più poveri, erano improntate al concetto della predestinazione. La pretesa che un povero peccatore potesse costringere Dio a perdonarlo vivendo in modo retto, argomentava il teologo svizzero, era incompatibile con l’attributo dell’onnipotenza, perché comportava una limitazione della sovranità inerente al concetto divino. Dio sceglie di redimere o dannare in modo del tutto autonomo, e lo fa prima che l’anima si incarni. Il dono del benessere materiale non era che l’attributo esteriore accordato ai soggetti votati alla salvezza per distinguerli dagli altri. In altri termini, per i calvinisti (come per certi similari aspetti i protestanti) la ricchezza era segno di elezione, una prova della benevolenza divina. Accumulare denaro equivaleva a dimostrare il favore dell’Altissimo. I poveri (oppure nel nostro caso - i protestanti avversi ai protestanti…), in altri termini, erano colpevoli del proprio destino:

Dio li aveva giudicati indegni della vita eterna *.

Credo non ci sia bisogno di aggiungere commenti per quanto rivelato e rilevato, solo nell’arguzia che renderà i termini del comune Intelletto e cammino scritti nel libero arbitrio, mio e quello di Blom, nel comprenderne i principi discorsivi e regolatori per rapportarli ad un saggio intendimento a prescindere l’ ‘epoca glaciale’ influire sull’intero ecosistema non meno dell’odierno mercato asservito per ugual ghiaccio precipitato dall’Elemento offeso; così da non cadere o nuotare in medesimi abissi e cantine affogate… Giacché la cultura non meno del sapere e con essa il vero intendimento dello Spirito ‘della e nella’ Storia posto, possono far ben decifrare le paradossali condizioni cui ognun soggetto, ed, consapevole e inconsapevole oggetto…

(Il curato(re) del blog, accompagnato da P. Blom, il primo inverno)