giuliano

giovedì 27 marzo 2014

LA DIVISA NERA (Lo Straniero) (6)











































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La divisa nera (5)

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Paura di cadere (Lo Straniero) (8/7)













Scendemmo all’Hotel Sindoz, testimone di antichi fasti ormai sepolti. Nel salone da pranzo, carico di decorazioni, camerieri in frac dall’aria professorale (baroni di scienze arcane elevate alla dignità di professione…) ci servivano lentamente un magro pasto su vasellami stemmati con antichi araldi e motti come quelli già accennati….
Pochi altri clienti sedevano a tavola: tipi per lo più dimessi, chi in maglione, chi in tuta. Nessuno ci degnò di uno sguardo. Alzatomi presto il mattino dopo, andai a svegliare Arrigo che aveva sempre il sonno duro. Rimasi sbalordito quando venne ad aprirmi una ragazzetta non sgradevole vestita solo di un asciugamano. Arrigo era ancora sotto le coltri. Quel diavolo di un uomo, perfino in un paese così ostico, non aveva perduto tempo.
La nostra esperienza sciistica si ridusse al minimo…




Come impianti di risalita, esisteva soltanto un rudimentale skilift di trecento metri. Ma il peggio era la neve, pesante e attaccaticcia (come la macchina gialla e nera…) come non avevo trovato mai sulle Alpi. Arrigo fu d’accordo con me per ripartire senz’altro, nonostante la ragazzina. Per lo meno, ci eravamo cavati il capriccio. Senonché al ritorno dai campi di neve nera, non trovammo più la nostra auto dinanzi all’albergo.
Il portiere, in inglese, ci spiegò che era stata prelevata dalla polizia. Alla polizia, non senza riguardevole cortesia di modi, ci fu spiegato che a Seorca era stato commesso un errore. Per regolamento, nessuna macchina poteva essere noleggiata o adoperata da Stranieri (senza divisa nera…).
Servizi pubblici non esistevano. Come noi, allora, si poteva far ritorno al nostro umile Tomo bianco non ancora del tutto ingiallito o annerito? Il problema – fu la risposta – non rientrava nelle competenze dell’autorità amministrativa di Seorca.




Vedendoci costernati – poiché anche in Belora l’umanità sussiste, uno degli ufficiali del comando ci offerse di accompagnarci alla capitale con la sua macchina; ma dovevamo aspettare due giorni. Guardandolo meglio, lo riconoscemmo per il tipo strano che aveva pilotato la fantomatica giardinetta.
Scarso conforto furono in quell’attesa le successive esercitazioni sulla tenebrosa neve nera, che si rivelava sempre più viscosa e impraticabile, inaffidabile, incompetente… Durante il viaggio da Mehraklya a Seorca, il sinistro ufficiale al volante non disse una parola. I sedili, dietro, erano incomodi, la macchina procedeva sobbalzando a non più di trenta all’ora. La schiena curva del poliziotto ispirava malinconia.
Giunti fino alla capitale, finalmente l’ufficiale aprì bocca. Nel suo stentato tedesco ci chiese dove volevamo essere deposti. Rispondemmo: all’Eskurus Hotel, grazie!
Ma l’Hotel era chiuso. Nelle vicinanze, due giorni prima, erano stati trovati per la via manifesti sovversivi non autorizzati dalla guardia nera. Ragione per cui era stato proclamato una specie di stato di emergenza indetto dalla Repubblica Nera, con la democratica chiusura di tutti i locali e stabilimenti pubblici. Anche i voli di linea erano stati sospesi sine die.




La terra di Belora ci scottava ormai sotto i piedi….
In che modo avremmo potuto levare le tende?
Col treno, ci fu spiegato.
Ma come entrare in stazione senza essere visti dalla speciale Guardia Nera?
Nel piazzale antistante era in corso, evidentemente, un importante raduno politico; migliaia di cittadini si stipavano, emettendo grida a noi incomprensibili. Non era un raduno politico. Interrogando qua e là, Arrigo seppe che l’assembramento era permanente, si trattava dei viaggiatori in attesa dei treni. Ciascuno portava al collo una medaglietta metallica col numero di provenienza. Un inserviente, prima che noi lo potessimo impedire, ce lo infilò per la testa anche a noi.
Ma quanto c’era da aspettare?
Le voci erano discordi.
Chi parlava di pochi giorni, chi di mesi, chi di anni, chi di una vita intera…




Intanto senza che noi ci se ne rendesse conto, un recinto di filo spinato venne steso tutto intorno  da uomini corpulenti, baffuti e pasciuti dal candido color rosa, ad impedire l’accesso alla stazione di nuovi candidati. A tutti noi furono distribuiti una coperta a testa e un rancio a base di trippa. Poco dopo un impiegato in divisa nera della dogana, venne a controllare il nostro bagaglio.
Là sulla piazza – cominciava a cadere un nevischio nero – le nostre due valigie furono aperte e il doganiere si accinse a rovistarle controllando di sovente i numeri dati, sparpagliando gli indumenti e gli oggetti ivi riposti, che i presenti, con il permesso della Guardia Nera, sottraevano via via senza che il funzionario intervenisse. Ben presto tutte le umili nostre cose furono inghiottite in silenzio dalla folla; alle proteste di Arrigo il doganiere non batté ciglio.
Dopo sei giorni di calvario, facemmo conoscenza con un professore di lingue, che parlava correttamente l’inglese, turco e francese. Con grande franchezza e non senza pietà, ci disilluse dall’idea di poter mai più tornare alla nostra immagine di bianco vestita, tomo in bella copertina libro di vita!
Quello, scoprimmo, era il campo di concentramento da Repubblica nutrito, e le divise nere che lo controllavano non obbedivano a nessuna autorità: erano e sono guardie, e basta.
Ma la speranza è dura a morire…… 

(D. Buzzati, La neve nera, I fuorilegge della montagna)















   

martedì 25 marzo 2014

I FRUTTI DEGLI ALTRI (26)














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fuori dal recinto (25) &

L'Indice (3)

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Vegio ch'è tolto l'ordene e lo bene (27)













Chi sovente era colpito da queste disposizioni entro i 'recinti' delle città-
stato, o comunità, erano gli eretici.
Nel 1231 papa Gregorio IX fece un ulteriore passo, determinante: affi-
dò i tribunali dell'Inquisizione, ai domenicani, facendo contemporanea-
mente pressione sui vescovi e sulle autorità civili affinché fornissero lo-
ro il necessario supporto.
Gli Inquisitori sarebbero stati da lui nominati e a lui avrebbero risposto:
è evidente l'esigenza di prendere direttamente in mano le redini della di-
fesa del territorio, della religione, del potere, ed infine quale migliore
scusa.... dell'ortodossia.
Papa Gregorio IX in realtà 'stava forgiando lo strumento privilegiato di
tutti i totalitarismi futuri'. L'Inquisizione 'fu la prima manifestazione sto-
rica di un sistema di controllo ideologico assoluto su singoli individui o
su un'intera popolazione, per mezzo di inchieste, delazione istituziona-
lizzata, interrogatori e creazione di schedari di informazione'.




A partire da tale data il numero dei roghi aumentò vertiginosamente o-
vunque. Il peggio doveva ancora venire: nel 1252, con la decretale Ad
extirpanda, (come abbiamo già scritto, in riferimento al delegato ponti-
ficio Albornoz), Innocenzo IV ratifica il ricorso alla tortura, che doveva
essere effettuata 'senza perdita di membra e pericolo di morte', anche
se spesso lasciava invalidi gli inquisiti, i quali il più delle volte finivano
poi comunque sul rogo.
Il fatto è che si doveva arrivare alla confessione, che aveva un valore
probante assai maggiore che non l'ordalia del fuoco e dell'acqua prati-
cate precedentemente per dimostrare la colpevolezza, ovvero l'eresia.




Il decreto del 1252 stabilì inoltre la formulazione di un corpo di polizia
per catturare gli eretici nonché la confisca dei loro beni, nonché la ri-
partizione delle entrate dovute alla vendita di tali beni in tre parti: una
al comune, una all'ufficio dell'Inquisizione, una all'inquisitore o al vesco-
vo; due terzi dei beni confiscati sarebbero così andati a istituzioni eccle-
siastiche.
Nella riedizione del 1265 la parola 'vescovo' scomparve, e intorno al 1330
scomparve anche la parte spettante al comune delle cospicue entrate del
'sacro' tribunale, perché 'una nuova disposizione lasciava metà delle entra-
te agli inquisitori, mentre l'altra metà era assegnata direttamente alla Ca-
mera apostolica, cioè alla tesoreria pontificia.




L'Inquisizione si serviva di una terminologia giudiziaria forse per con-
ferire un'aura di legalità e di giustizia alla propria attività. Di fatto era
ben lontana non dico dal processo come lo intendiamo noi oggi, ma
già da come era previsto nel diritto romano, dove il giudice si poneva
in posizione equidistante tra i contendenti.
Nel processo inquisitorio, invece, il giudice era l'Inquisitore stesso.
Il povero malcapitato non aveva alcun diritto non solo di avere un av-
vocato, ma nemmeno di addurre prove della propria innocenza. Il pro-
cesso consisteva essenzialmente in un interrogatorio strutturato in mo-
do da dimostrare la sua colpevolezza.
Resta il fatto che non sempre la volontà dell'Inquisitore era quella di
uccidere: talvolta era più conveniente la conversione. La conversione
doveva essere sincera e 'la prova quasi assoluta di questa sincerità e-
ra la denuncia di conoscenti, a volte degli stessi parenti.
Quindi si esercitava sugli imputati una pressione continua per intrap-
polarli a poco a poco in questo sistema, al cui interno avrebbero otte-
nuto l'assoluzione solo giocando l'abominevole gioco della delazione.




La solidarietà della famiglia e del clan, che per molto tempo aveva
costituito la forza della resistenza religiosa, sarà a poco a poco so-
stituita da un clima di sospetto che romperà dall'interno questa rete
di solidarietà: il giorno in cui tutti diffideranno di tutti, non sarà più
possibile una resistenza'.
Oltre a quella di crudeltà gratuita, l'accusa che più spesso veniva ri-
volta contro gli inquisitori era quella che abbiamo sentito risuonare
nelle strade di Bologna, e cioè che le condanne fossero 'fatte per
sottrarre il denaro e i beni agli eretici'.
Purtroppo le cose stavano proprio così, come attestano i pochi docu-
menti che abbiamo a disposizione. Teoricamente i frati di entrambi
gli ordini erano votati alla povertà personale, ma gli inquisitori con-
ducevano una vita tutt'altro che povera: peccati di ogni genere era-
no all'ordine del giorno, a partire dai più innocui, quelli di gola.




Spesso una parte non irrilevante della quantità enorme di denaro
che entrava nelle casse degli uffici inquisitoriali veniva usata per
l'acquisto di case e terreni per i propri parenti o amici.
Ufficialmente le entrate degli uffici inquisitoriali erano costituite
da tre voci: multe, cauzioni e vendita dei beni sequestrati. Ma a-
nalizziamo le voci ufficiali: per gli eretici confessi e che non abiu-
ravano era prevista la pena capitale e la confisca dei beni.
Quest'ultima veniva attuata anche nei confronti di chi era condan-
nato al carcere, e 'alcuni inquisitori l'applicarono addirittura a chi
si convertiva', ma in genere per un eretico che abiurava e si con-
vertiva erano previste altre pene, tra cui carcere, flagellazione pub-
bliche, l'obbligo di portare la croce cucita sui vestiti, oppure esor-
bitanti multe e una cauzione, ovvero una garanzia in denaro 'volta
ad assicurare l'osservanza degli obblighi di mantenere la fede cat-
tolica, di perseguitare e denunciare gli eretici e i loro fautori e di-
fensori e di eseguire le pene imposte.




In caso di anadempienza, rilevata con giudizio discrezionale dall'-
inquisitore, la causa restava al tribunale'.
Per quanto esorbitanti e numerose possano essere state le multe,
le entrate maggiori erano senza dubbio rappresentate dalla vendi-
ta dei beni confiscati. Qui l'avidità degli inquisitori e della Santa
Sede stessa non aveva limiti. Sempre più spesso venivano inqui-
siti e poi condannati, perché torturati fino alla confessione, per-
sonaggi di cui, proprio come dice una famosa novella del Boccac-
cio erano benestanti anche se non avevano nulla a che fare con
l'eresia.
(M. Soresina, Libertà va cercando)












venerdì 21 marzo 2014

L'INDICE (2)


















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L'Indice

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L'Indice (3)













46) Fate la carità

47) Terza giornata

48) Terza giornata

49) Non rompetegli le 'Baal'

50) Non rompetegli le 'Baal'

51) Fu nostra cultura

52) Fu nostra cultura

53) L'economia corrotta

54) L'economia corrotta

55) I passi dei pellegrini

56) I diavoli della montagna

57) Un pagano risponde ad un cristiano

58) Un Eretico risponde ad un Papa

59) Abitanti di governi e mondi sconosciuti

60) Frate Girolamo vescovo di 'Carafa'

61) Il Primo Dio

62) Il Secondo Dio

63) Gnosi pagana

64) Gnosi pagana

65) L'oro riluceva

66) Nell'alchimia della vita

67) La fuga di Osvaldo

68) Il poeta guerriero

69) Gente di passaggio

70) Gente di passaggio

71) Gente di passaggio

72) Gente di passaggio

73) Gente di passaggio: Trittico Portinari

74) Gente di passaggio: Trittico Portinari

75) Gente di passaggio: Francesco Carletti

76) Gente di passaggio: Francesco Carletti

77) Gente di passaggio: Sancio Panza

78) Gente di passaggio: Sancio Panza

79) Gente di passaggio: Il filosofo prigioniero

80) Gente di passaggio: Il filosofo prigioniero

81) Gente di passaggio: Francois Villon

82) Gente di passaggio: Francois Villon

83) Bestie di passaggio

84) Bestie di passaggio

85) Gente di passaggio: I protetti

86) Gente di passaggio: La polizia dell'anima

87) Gente di pasaggio: i comici regi... o regnanti...

88) Gente di passaggio: i comici regi... o regnanti...

89) Gente di passaggio: Gioconda verità 

90) Gente di passaggio: 27 Dicembre 1548 















CANI DI PASSAGGIO: i comici regi (o regnanti) (88)




































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Cani di passaggio: i comici regi (o regnanti...) (87)











Al mio ingresso in città vidi il mio poeta che usciva dal famoso monastero
di San Gerolamo, ed egli, come mi scorse, mi venne incontro a braccia
aperte, mentre io correvo a lui con rinnovate manifestazioni della mia gio-
ia, per averlo trovato.
E subito egli cominciò a tirar fuori pezzi di pane, più teneri di quelli che
soleva portar con sé quando veniva nell'orto, e ad affidarli ai miei denti
senza bisogno di ripassarli coi suoi; la qual graziosa novità soddisfece la
mia fame con rinnovato piacere.
Il fatto che il pane era tenero, e che il mio poeta usciva dal monastero
che ho detto, me fece entrare in sospetto che le sue muse fossero un po'
decadute, come quelle di tanti altri.




Prese la via della città, ed io gli tenni dietro, con l'intenzione di assumer-
lo per padrone, se egli ne era contento, pensando che con gli avanzi del
suo castello avrei ben potuto mantenere il mio accampamento; perché
non v'è borsellino meglio fornito e più aperto di quello della carità, le cui
generose mani non son mai povere, tanto che io non sono affatto d'accor-
do con quel proverbio che dice: 'Dà più l'avaro che l'ignudo', come se il
duro avaro potesse dare qualche cosa, mentre in effetti il generoso, an-
che allorché è nudo, dà il suo buonvolere, quand'anche non possa dare
altro.
Passin passino, andammo a finire in casa di un capocomico che, a quan-
to rammento, si chiamava Angulo il Cattivo, figlio di un altro Angulo, non
capocomico, ma attore, che fu il più simpatico di quanti ne ebbero allora,
ed oggi ne hanno, i teatri di commedia.




Tutta la compagnia s'era radunata per ascoltar la commedia del mio pa-
drone; ma a metà del primo atto, uno alla volta o a coppie, se l'andaro-
no filando tutti quanti, eccezion fatta per me e per il capocomico, che
costituivamo tutto l'uditorio.
La commedia era tale, pur essendo io un perfetto asino in materia di
poesia, ebbi l'impressione che l'avesse composta Satanasso in persona
per totale rovina e perdizione del poeta stesso, il quale già aveva la go-
la stretta, nel veder la solitudine in cui l'uditorio l'aveva lasciato; e non
c'era da far le meraviglie, se l'anima presaga gli sussurrava dentro la
sventura che lo minacciava.




Infatti, di lì a poco, tornarono gli attori con le comparse; senza far mot-
to agguantarono il mio poeta e, se non fosse stato perché ci si mise di
mezzo l'autorità del capocomico con preghiere e minacce, indubbiamen-
te gli avrebbero fatto il gioco della coperta.
Io rimasi stupefatto per quell'incidente; il capocomico restò disgustato;
i commedianti, tutti allegri, e il poeta, mortificato. Così, con santa pa-
zienza, anche se un po' a denti stretti, riprese la sua commedia e, ripo-
nendola in seno, borbottò fra sé e sé: 'Non conviene dar pane a chi
non ha denti'; con le quali parole se n'andò impettito.
Io ero tanto infuriato, che non potei né volli seguirlo; e fu una santa co-
sa, perché il capocomico mi fece tante carezze, da costringermi a rima-
nere con lui, talché in meno d'un mese divenni un magnifico attore di
intermezzi ad una magnifica comparsa di pantomima accompagnati da
una brigata intera di marionette.....




Mi misero una museruola di nastri e mi insegnarono ad assalire sulla
scena la persona che mi indicavano; e siccome gl'intermezzi finivano il
più delle volte a legnate, nella compagnia del mio padrone, quasi sem-
pre alla fine mi aizzavano, ed io mi lanciavo addosso a tutti, buttando-
li a terra e facendo ridere gl'ignoranti, con gran guadagno del mio pa-
drone.
Scipione mio, quante te ne potrei raccontare, di ciò che vidi in quella
compagnia di comici e buffoni (di corte...) ed in altre due nelle quali
entrai più tardi (sì Scipione, perché i veri comici e poeti erano esclusi
dal teatro regio dei Regnanti, un teatro dove questi buffoni sono soliti
dar le loro misere rappresentazioni..., ed il popolo o la nutrita corte
spettatrice dei loro spettacoli, volente o nolente applaude (a piene) le
mani, certo quando non sono occupati in ben altre faccende.
Certo quando non sono accupati nel letame del loro misero reame.).

(M. de Cervantes, Novelle esemplari, Colloquio dei cani;
 Fotografie di: Zack Secklers)














 

lunedì 17 marzo 2014

L'ASSEDIO DI NAMUR (2)


















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L'assedio di Namur













Zio Tobia ricambiava codeste dimostrazioni di affetto, in quanto se lo sentiva vicino per affinità di gusti: il caporale Trim – lo chiamerò sempre così – nei quattro anni di assistenza al suo padrone era venuto necessariamente a contatto con le sue teorie sulle città fortificate, curiosando e ficcando il naso nelle sue scartoffie; e subito si appassionò ad esse, non tanto perché gli interessassero personalmente, quanto piuttosto per sentirsi più vicino al suo signore. Insomma si impratichì talmente di questa scienza che la cuoca e la cameriera pensavano si intendesse di fortificazioni assai più dello stesso zio Tobia.
Mancherebbe solo una pennellata per completare il quadro del carattere di Trim, ed è proprio quella che guasta un poco il ritratto del nostro uomo. Gli piaceva immensamente dare consigli. O piuttosto, ascoltarsi parlare; però il suo contegno era sempre così rispettoso che non costava fatica farlo tacere, quando lo si desiderasse, o rimettergli di nuovo in moto la lingua.




Trim non aveva una conversazione impegnativa: era soltanto loquace, ecco tutto; e la sua abitudine di intercalare nel discorso le parole ‘Vostro Onore’, indice secondo lui di massimo rispetto, anche se annoiava un poco, non poteva certamente indisporre. Infatti zio Tobia ben di rado aveva mostrato di seccarsene o, per lo meno, questo difetto di Trim non aveva mai portato alla rottura degli ottimi rapporti che intercorrevano fra i due.
Già vi dissi che zio Tobia voleva davvero bene al suo servitore e, siccome lo aveva sempre al suo fianco, fedele e umile amico, non se la sentiva di tappargli la bocca.
Così era il caporale Trim….
‘Se io osassi’, continuò Trim, ‘dare un consiglio a vostro Onore e dire la mia opinione in proposito…’ ‘Le tue opinioni, Trim, mi sono più che gradite’, lo interruppe zio Tobia; ‘dimmi, dimmi dunque il tuo parere sull’argomento, senza troppa paura’. ‘Ecco’, riprese Trim, ‘io penso’, disse Trim, sistemando un po’ in avanti la gamba sinistra, che era poi quella malata, e additando con la mano destra una mappa di Dunkerque, attaccata alla parete con degli spilli, ‘io penso’, ripeté, ‘con tutto il rispetto e la dovuta sottomissione al parere di Vostro Onore, che questi progetti di pivellini, bastioni, cortine e opere a corno vengono realizzati in maniera meschina e spregevole qui sulla carta, mentre se Vostro Onore riflettesse alla mole di lavoro che potremmo svolgere in campagna con uno iugero o magari uno iugero e mezzo di terra a nostra disposizione, non esiterebbe certo nella scelta… L’estate sta arrivando; Vostro Onore potrebbe starsene seduto sull’uscio di casa e darmi la… nografia….’.




‘… Iconografia’, corresse mio zio, ‘iconografia si dice’, ‘della città e della cittadella; e possa io venire impallinato da Vostro Onore in mezzo alle mie fortificazioni se non le costruirò secondo il volere e i desideri di Vostro Onore. ‘Non dubito affatto delle tue capacità, Trim’, rispose mio zio. E il caporale, incalzando: ‘Perché se Vostro Onore mi insegnerà il perimetro, con tutte le righe e gli angoli esatti… tutte cose che potrò fare benissimo… Allora potrei iniziare con il fossato e se Vostro Onore vorrà indicarmi la profondità e la larghezza…’. ‘Me certo, Trim! Ti farò avere le misure precise!’; ‘… e potrei scavare la terra da questo lato, verso la città, per costruire la scarpa e da quest’altro lato verso gli accampamenti d’Inverno per la controscarpa….’; ‘Ottimamente Trim’, fece zio Tobia.
‘Quando avremo sgomberato la mente da questi primi desideri, procederemo, se così piacerà a Vostro Onore, alla costruzione delle trincee come se ne trovano di migliori nelle Fiandre, con le zolle erbose; e quando vostro Onore troverà che anche tutti questi progetti sono stati eseguiti a dovere costruiremo sempre con zolle erbose, valli e parapetti…’. ‘I migliori ingegneri, Trim, li chiamano  gazons’ , suggerì zio Tobia. ‘Che si chiamino gazons o zolle erbose, non ha poi grande importanza’, replicò Trim. ‘Vostro Onore sa che offrono risultati dieci volte migliori di un muro di pietre o mattoni’.




‘E’ vero Trim, riconosco che in alcuni casi possono offrire dei vantaggi’, assentì zio Tobia con un cenno del capo, ‘perché una palla di cannone può penetrare in un terrapieno in linea retta senza trascinare giù macerie che potrebbero riempire il fossato e facilitare così il passaggio ai nemici’. ‘Giacchè Vostro Onore comprende perfettamente tutti i vantaggi’, incalzò entusiasta il caporale Trim, ‘meglio di un ufficiale al servizio di Sua Maestà, perché non revocare l’ordine di acquisto della tavola e andare invece in campagna, dove io potrei lavorare come un cavallo sotto la direzione di Vostro Onore e costruire fortificazioni più robuste di una pianta di tanaceto, con annesse batterie, trincee e palizzate tali che varrebbe la pena di percorrere venti miglia per venire ad ammirarle?’.
Come Trim proseguiva nella descrizione dei lavori, zio Tobia diveniva ora pallido ora rosso; e non era un arrossire per colpa o modestia o per rabbia, era un  arrossire di gioia, era come se il progetto e la descrizione del caporale Trim gli avessero messo il fuoco in corpo. ‘Fermati, Trim’, gridò zio Tobia. ‘Fermati, hai detto abbastanza!...’. E quell’altro di rimando: ‘Potremmo riprendere la storia della campagna militare dal giorno stesso in cui Sua Maestà e gli alleati scesero in campo e demolirono le fortificazioni, città per città, con una velocità tale…’.




‘Trim, Trim, non dire di più!...’, esclamò lo zio Tobia.
E Trim imperterrito: ‘Vostro Onore potrebbe starsene seduto alla sua poltrona, all’aperto se il tempo sarà bello, e impartirmi ordini; io potrei così….’.
‘Non dir di più, Trim!’, ripeté mio zio….
E quello, ormai lanciatissimo nella sua narrazione: ‘Inoltre Vostro Onore non potrebbe trovare passatempo migliore e più piacevole: aria buona, ginnastica e tanta salute! Son certo che la ferita di Vostro Onore guarirebbe in un mese…’.
‘Hai parlato abbastanza, Trim’, insisté zio Tobia, infilando con forza le mani nelle tasche dei pantaloni, ‘questo progetto mi piace alla…. Follia…’.

domenica 9 marzo 2014

DIVERGENZE DI OPINIONI (2)



















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divergenze di opinioni












Mia nonna, lei correva avanti ai raiders e avvertiva tutti in
modo che potevano nascondere la roba e quello che aveva-
no.
Dicono che la sentivi chiamare a un miglio di distanza. E c'-
era sempre qualcuno in ascolto, e quando la sentivano allora
prendevano la roba e la nascondevano' (Melinda Slusher).
In molti racconti, sono le donne che danno l'allarme, come
se la memoria affidasse a loro il compito di proteggere la co-
munità dal flagello maschile della guerra.
Qualcuna prese anche le armi ('Si racconta che Nancy, figlia
di Moses Cawood, indossò abiti maschili e cavalcò con la
cavalleria confederata'), ma la maggior parte svolsero so-
prattutto il compito di nutrire gli affamati e curare i feriti.




Martha Napier: 'Mia bisnonna Wilson, era vecchia, si mette-
va lì e raccontava a noi piccoli, ma non la stavamo granché
a sentire a quel tempo.
Stava lì e ci raccontava tutte le cose del mondo, quello che
faceva quando era giovane. Che portava da mangiare (ai ri-
fugiati).
C'era una caverna, lei portava da mangiare di nascosto, in
modo che i soldati non scoprissero dov'era. Per non farli am-
mazzare.
Ce ne saranno stati, diceva lei, 150 nascosti lì nei monti in
fondo alle rocce.




Erano credo, quelli che stavano dalla parte nostra, che com-
battevano per gli Stati Uniti.
Diceva che una volta passò un soldato che aveva la lingua
mezza tagliata, lei lo curò e lo assistette finché guarì e poté
mangiare e bere di nuovo.
Sapevo come si chiamava ma non me lo ricordo più.
Ero piccola quando ce l'ha raccontato'.
'La courthouse, il municipio di Harlan fu incendiato (dai su-
disti) durante la Guerra civile; così, c'è un sacco di storia da
queste parti che io non so' (Chester Napier).




Mildred Shackleford: 'Il nonno del padre di mia madre si
chiamava Devil Jim Turner.
L'hai sentito dire?
Era un vecchio cattivo.
Mio nonno mi ha raccontato che si diceva che aveva ucci-
so 22 persone in vita sua.
Morì a 91 anni e fu sepolto nello Stato di Washington per-
ché andò laggiù quando la vita qui si fece troppo difficile
per lui.
Una delle storie che mi ha detto mio nonno - lui rapinava
la gente. Sai che le ostetriche che andavano a far nascere
i bambini a quel tempo venivano pagate, mi pare un quar-
to di dollaro a bambino.




E una sera c'era un'ostetrica che aveva avuto un colpo di
fortuna perché aveva fatto nascere due gemelli e aveva
preso 50 centesimi.
Tornava a casa passando per i boschi e Devil Jim la fermò
e le disse di dargli i soldi.
Lei gli diede un quarto di dollaro. Le disse, 'No, anche quel-
l'altro. Lo so che hai fatto nascere gemelli stasera, dammi
anche l'altro'.
Così li perse.
Mio nonno diceva che una sera la gente si era stufata di es-
sere rapinata, picchiata e di tutto quello che lui gli faceva, e
sei membri della comunità si riunirono e decisero che questo
posto sarebbe stato migliore senza di lui, lo picchiarono e
pensavano che era morto.
Lo portarono sulla collina e lo buttarono su un cespuglio e lo
diedero per morto. Restò lì due o tre giorni, poi si riprese ab-
bastanza da strisciare fino a casa.
Ci mise sei mesi per recuperare dalle botte che aveva preso.
E ci mise altri sei mesi per ammazzarli tutti e sei.......
(A. Portelli, America Profonda)
















venerdì 7 marzo 2014

SETTE ANNI PRIMA (Guerra e pace...)


















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Sette anni prima (Guerra e pace...)














A parte il cattivo e accidioso carattere di Sofija, largamente riconosciuto, Tolstoj non doveva essere un marito comodo. Si legge nel suo diario: ‘Mi è indispensabile possedere una donna. La lussuria non mi lascia in pace’.
Henri Troyat ha annotato qualche avventura: da giovanotto seduce Gasa, una serva, e la zia Antoinette, per punire la svergognata, la scaccia; di un’altra, ancora a settant’anni, ricorda ‘il corpo vigoroso’; dalla contadina Aksinja, che è la sua amante per tre anni, ha un figlio, Timofej, che guida la slitta e lo chiama ‘signore’. Confessò poi, nella tarda età: ‘Io ero insaziabile’.  
Alla minima contrarietà si inaspriva, e aveva eccessi di febbre e crampi allo stomaco. Non risparmiava neppure i giudizi severi e ingiusti; Dostojevskij aveva trovato Anna Karenina ‘un romanzo piuttosto noioso e per nulla straordinario’; Tolstoj ricambiava dicendo dei fratelli Karamazov: ‘Non sono riuscito ad arrivare fino in fondo. Basterebbe in tutta la vita, un unico, buon libro’.




Mi mostrano una pesante macchina da scrivere Remington, il registratore che Edison gli mandò in dono; ricordo le memorie di Bulgakov, il segretario che fu testimone delle passioni degli ultimi anni: Lev Nikolajevic ascolta senza emozione la sua voce, riceve tutti, a tutti scrive. ‘Egli stendeva una prima bozza’ ricorda Aleksandra, l’unica figlia superstite ‘che io copiavo con larghi margini tutto attorno, e gliela portavo alle nove del mattino. All’una, o all’una e mezzo, scendeva a colazione, e io riprendevo il manoscritto rielaborato: non rimaneva più nulla della primitiva stesura. Riscriveva nei margini e fra le righe, senza lasciare il minimo spazio. Io allora ribattevo il testo. Un articolo dovetti rifarlo cinquanta volte’.
Questa macchina, penso, ha battuto le pagine della ‘sonata a Kreutzer’; ha raccontato le meditazioni del generale Kutuzov sotto l’incalzare delle truppe napoleoniche, e l’incendio di Mosca; ha risposto alla lettera del contadino di Kolacev che chiedeva a Tolstoj di spiegargli il senso della vita e di Dio; a quella del commerciante di Samara che aveva dubbi sull’oltretomba: ‘Ci sarà per l’anima un premio o un castigo?’; alla ragazza di Pjatigorsk che, disperata e sola, voleva avvelenarsi con l’acido fenico.




Un pianoforte, un samovar d’argento, un barometro.
Guardo alcune fotografie che mostrano il vecchio Lev: ha quasi ottant’anni, e galoppa nella grande pianura, su uno sfondo di rami spogli; guida un aratro trainato da due cavalli bianchi; eccolo sotto l’enorme quercia che chiamavano ‘l’albero dei poveri’, porta un berretto bianco, accarezza una bimba dalla sottana troppo lunga, i capelli nascosti sotto il fazzoletto, come le donne.
Discute con i contadini che al suo passaggio si tolgono il cappello, passa intere notti a parlare della morte, della precarietà delle giornate terrene, dello spirito che continua. Passo per la camera degli ospiti, dove soggiornarono Gorkij e Cechov; Cechov aveva un sorriso sbiadito, gli occhi rassegnati; la faccia da popolano di Gorkij rivela fierezza e duri propositi.
Guardo i libri che Lev consultava spesso: un dizionario enciclopedico, il Corano, la Bibbia, Platone e Confucio. Vicino allo scaffale c’è la riproduzione di una Madonna di Raffaello che amava. A una parete sono appese le corna di un’alce, forse trofeo di una caccia nelle foreste che si distendono qui attorno. I quadri del pittore Orlov, nel salotto, rappresentano le stagioni in campagna: si miete la segale, si portano i puledri ai pascoli, fumano i camini delle isbe, e i bambini giocano nella fangosa piazzetta del villaggio. Anche lui portava la lunga camicia bianca, come i pastori e i contadini, col cinturone di cuoio e gli stivali di feltro.




Mi fermo davanti alla sua scrivania: è posta sotto una finestra, si vedono abeti, faggi e l’erba verde; qui passò lunghe ore a meditare sulla sorte degli uomini e a inventare un destino per Liza, per Natasa, per Anna o per Katjusa, per Nechljudov, per Vronskij, o per Pierre Bezuchov, le sue creature. ‘Tutte le felicità si assomigliano’ ha scritto ‘ma ogni infelicità ha la sua fisionomia particolare’.
Camminava tra questi boschi, lungo i sentieri tracciati tra gli sterpi, spesso solo, alla ricerca di se stesso e della verità, si sedeva incappottato, mentre i pioppi rabbrividivano nel vento dell’autunno, sotto il balcone di legno, a leggere la corrispondenza o a raccontare favole ai nipotini, ascoltava la gente e spiegava ai paesani che presto qualcosa sarebbe accaduto, e anche la Russia sarebbe cambiata….
Dalla Siberia gli arrivò la lettera di un rivoluzionario…




Diceva: ‘Ebbene, Lev Nikolajevic, a voi che vi trovate dinanzi alla morte debbo dire che il mondo affogherà ancora una volta nel sangue e ucciderà non solo i signori, uomini e donne, ma anche i loro figli, perché non possano nuocere. Mi dispiace che non possiate vivere fino a quel tempo, e vi auguro una fine felice’.
Anche Tolstoj sentiva che la tempesta stava per scatenarsi; anche lui voleva una rivoluzione ma senza crudeltà che ogni rivolta trascina. Esortava: ‘Non commettete mai nulla che sia contrario all’amore’.
… Se ne andò sette anni prima….
Aveva detto: ‘Non sono che uno scrittore di un’epoca di transizione….’.  

(E. Biagi)