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La divisa nera (5)
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Paura di cadere (Lo Straniero) (8/7)
Scendemmo all’Hotel Sindoz, testimone di antichi fasti ormai sepolti.
Nel salone da pranzo, carico di decorazioni, camerieri in frac dall’aria
professorale (baroni di scienze arcane elevate alla dignità di professione…) ci
servivano lentamente un magro pasto su vasellami stemmati con antichi araldi e
motti come quelli già accennati….
Pochi altri clienti sedevano a tavola: tipi per lo più dimessi, chi in
maglione, chi in tuta. Nessuno ci degnò di uno sguardo. Alzatomi presto il mattino
dopo, andai a svegliare Arrigo che aveva sempre il sonno duro. Rimasi
sbalordito quando venne ad aprirmi una ragazzetta non sgradevole vestita solo
di un asciugamano. Arrigo era ancora sotto le coltri. Quel diavolo di un uomo,
perfino in un paese così ostico, non aveva perduto tempo.
Come impianti di risalita, esisteva soltanto un rudimentale skilift di
trecento metri. Ma il peggio era la neve, pesante e attaccaticcia (come la
macchina gialla e nera…) come non avevo trovato mai sulle Alpi. Arrigo fu
d’accordo con me per ripartire senz’altro, nonostante la ragazzina. Per lo
meno, ci eravamo cavati il capriccio. Senonché al ritorno dai campi di neve
nera, non trovammo più la nostra auto dinanzi all’albergo.
Il portiere, in inglese, ci spiegò che era stata prelevata dalla
polizia. Alla polizia, non senza riguardevole cortesia di modi, ci fu spiegato
che a Seorca era stato commesso un errore. Per regolamento, nessuna macchina
poteva essere noleggiata o adoperata da Stranieri (senza divisa nera…).
Servizi pubblici non esistevano. Come noi, allora, si poteva far
ritorno al nostro umile Tomo bianco non
ancora del tutto ingiallito o
annerito? Il problema – fu la risposta – non rientrava nelle competenze dell’autorità
amministrativa di Seorca.
Vedendoci costernati – poiché anche in Belora l’umanità sussiste, uno
degli ufficiali del comando ci offerse di accompagnarci alla capitale con la
sua macchina; ma dovevamo aspettare due giorni. Guardandolo meglio, lo riconoscemmo
per il tipo strano che aveva pilotato la fantomatica giardinetta.
Scarso conforto furono in quell’attesa le successive esercitazioni
sulla tenebrosa neve nera, che si rivelava sempre più viscosa e impraticabile,
inaffidabile, incompetente… Durante il viaggio da Mehraklya a Seorca, il
sinistro ufficiale al volante non disse una parola. I sedili, dietro, erano
incomodi, la macchina procedeva sobbalzando a non più di trenta all’ora. La
schiena curva del poliziotto ispirava malinconia.
Giunti fino alla capitale, finalmente l’ufficiale aprì bocca. Nel suo
stentato tedesco ci chiese dove volevamo essere deposti. Rispondemmo:
all’Eskurus Hotel, grazie!
Ma l’Hotel era chiuso. Nelle vicinanze, due giorni prima, erano stati
trovati per la via manifesti sovversivi non autorizzati dalla guardia nera.
Ragione per cui era stato proclamato una specie di stato di emergenza indetto
dalla Repubblica Nera, con la democratica chiusura di tutti i locali e
stabilimenti pubblici. Anche i voli di linea erano stati sospesi sine die.
La terra di Belora ci scottava ormai sotto i piedi….
In che modo avremmo potuto levare le tende?
Col treno, ci fu spiegato.
Ma come entrare in stazione senza essere visti dalla speciale Guardia
Nera?
Nel piazzale antistante era in corso, evidentemente, un importante
raduno politico; migliaia di cittadini si stipavano, emettendo grida a noi
incomprensibili. Non era un raduno politico. Interrogando qua e là, Arrigo
seppe che l’assembramento era permanente, si trattava dei viaggiatori in attesa
dei treni. Ciascuno portava al collo una medaglietta metallica col numero di
provenienza. Un inserviente, prima che noi lo potessimo impedire, ce lo infilò
per la testa anche a noi.
Ma quanto c’era da aspettare?
Le voci erano discordi.
Intanto senza che noi ci se ne rendesse conto, un recinto di filo
spinato venne steso tutto intorno da uomini
corpulenti, baffuti e pasciuti dal candido color rosa, ad impedire l’accesso
alla stazione di nuovi candidati. A tutti noi furono distribuiti una coperta a
testa e un rancio a base di trippa. Poco dopo un impiegato in divisa nera della
dogana, venne a controllare il nostro bagaglio.
Là sulla piazza – cominciava a cadere un nevischio nero – le nostre due
valigie furono aperte e il doganiere si accinse a rovistarle controllando di
sovente i numeri dati, sparpagliando gli indumenti e gli oggetti ivi riposti,
che i presenti, con il permesso della Guardia Nera, sottraevano via via senza
che il funzionario intervenisse. Ben presto tutte le umili nostre cose furono
inghiottite in silenzio dalla folla; alle proteste di Arrigo il doganiere non
batté ciglio.
Dopo sei giorni di calvario, facemmo conoscenza con un professore di lingue,
che parlava correttamente l’inglese, turco e francese. Con grande franchezza e
non senza pietà, ci disilluse dall’idea di poter mai più tornare alla nostra
immagine di bianco vestita, tomo in bella copertina libro di vita!
Quello, scoprimmo, era il campo di concentramento da Repubblica
nutrito, e le divise nere che lo controllavano non obbedivano a nessuna
autorità: erano e sono guardie, e basta.