giuliano

giovedì 28 febbraio 2019

SOFFRIRE A TEMPO (Seconda Parte)




















































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Soffrire a Tempo (Prima Parte)

Prosegue...

Nel nostro ed altrui Tempo Croce-fisso...














Hanno dovuto rigare il disco in quel punto, perché fa uno strano rumore. E c’è qualcosa che dà una stretta al cuore: ed è che la melodia non è minimamente toccata da questo piccolo tossicchiamento dell’ago sul disco. È così lontana, così lontana, dietro. Anche questo lo capisco: il disco si riga e si consuma, la cantante magari è morta, io sto per andarmene, sto per prendere il treno. Ma dietro l’esistente che cade da un presente all’altro, senza passato, senza avvenire, dietro questi suoni che di giorno in giorno si decompongono, sì squamano e scivolano verso la morte, la melodia resta la stessa, giovane e ferma, come un testimone spietato.

La voce tace. Il disco raschia un po’ e poi si ferma.

Liberato da un sogno importuno il caffè rumina, rimastica il piacere d’esistere. La padrona ha il sangue al viso, dà schiaffi sulle grosse guance bianche del suo nuovo amico, ma senza riuscire a colorirle. Guance di morto. Io, da parte mia, ristagno, quasi m’addormento. Tra un quarto d’ora sarò sul treno, ma non ci penso. Penso ad un americano sbarbato, dalle spesse sopracciglia nere, che soffoca dì caldo al ventesimo piano d’un edificio di New York. Sopra New York il cielo brucia. L’azzurro del cielo s’è acceso, enormi fiamme gialle vanno a lambire i tetti, i monelli di Brooklyn vanno a mettersi in mutandine da bagno, sotto gli idranti per innaffiare. La camera semibuia al ventesimo piano cuoce a pieno fuoco. L’americano dalle sopracciglia nere sospira, ansima, e il sudore gli cola giù per le guance. È seduto, in maniche di camicia, davanti al pianoforte, in bocca ha un sapore di fumo, e vagamente, vagamente, un’ombra di motivo nella testa.




Some of these days.

Tom arriverà tra un’ora con la sua fiaschetta piatta sulla natica; allora s’affonderanno tutt’e due nelle poltrone di cuoio e berranno bìcchieroni di alcool ed il fuoco del cielo verrà ad infiammare le loro gole, sentiranno il peso d’un immenso sonno torrido. Ma prima bisogna annotare quest’aria.

Some of these days…

La mano madida afferra una matita sul piano.

Some of these days,

You’ll miss me honey.

Sarà andata così.

Così o in un altro modo, ma poco importa.

È COSÌ che è nata.




Per nascere ha scelto il corpo logoro di quell’ebreo dalle sopracciglia di carbone. Teneva mollemente la sua matita, e dalle sue dita inanellate cadevano sulla carta delle gocce di sudore. E perché non me? Perché occorreva proprio quel grosso vitello pieno di sporca birra perché si compisse quel miracolo?

Maddalena, vuoi rimettere il disco? Una volta sola. prima ch’io parta. Maddalena si mette a ridere. Gira la manovella, ed ecco che ricomincia. Ma non penso più a me. Penso a quel tale laggiù, quello che ha composto quest’aria, un giorno di luglio, nel buio calore della sua camera. Provo a pensare a luì attraverso la melodia, attraverso i suoni bianchi e aciduli del sassofono. Lui ha fatto questo. Aveva dei fastidi, non tutto gli andava come avrebbe dovuto: conti da pagare - e poi doveva esserci in qualche posto una donna che non pensava a lui nel modo com’egli avrebbe desiderato - e poi, c’era questa terribile ondata di caldo che trasformava gli uomini in pozze di grasso fondente. Tutto ciò non ha niente di molto carino né di molto glorioso. Ma quando sento la canzone e quando penso che è stato quel tipo li che l’ha fatta, trovo la sua sofferenza e la sua traspirazione. commoventi. Ha avuto fortuna. Del resto, neanche se ne sarà reso conto. Avrà pensato: con un po’ di fortuna questo trucchetto mi renderà pure una cinquantina di dollari!

Ebbene, è la prima volta, da anni, che un uomo mi pare commovente.




Vorrei avere qualche notizia, su questo tale. M’interesserebbe sapere che genere di fastidi aveva, se aveva una donna o se viveva solo. Non già per umanitarismo: al contrario. Ma perché ha fatto questo. Non ho desiderio di conoscerlo - d’altronde magari è morto. Solo di ottenere qualche ragguaglio su dì lui e di poter pensare a luì, di quando in quando, ascoltando questo disco. Ecco. Immagino che non gli farebbe né caldo né freddo, a costui, se gli dicessero che nella settima città della Francia, vicino alla stazione, c’è qualcuno che pensa a lui. Ma io sarei felice, se fossi al suo posto: l’invidio.

Bisogna che parta.

Mi alzo, ma resto per un momento esitante, vorrei sentir cantare la negra. Per l’ultima volta. Canta. Eccone due che si son salvati: l’ebreo e la negra. Salvati. Magari sì saran creduti perduti fino alla fine, annegati nell’esistenza. E tuttavia nessuno potrà pensare a me come io penso a loro. Nessuno, nemmeno Anny. Per me sono un po’ come morti, un po’ come eroi da romanzo; si son lavati del peccato d’esistere. Non completamente beninteso - ma quel tanto che un uomo può fare. Quest’idea mi sconvolge d’un tratto, perché non speravo nemmeno più questo. Sento qualcosa che mi sfiora timidamente e non oso nemmeno muovermi per paura che scompaia. Qualcosa che non conoscevo più: una specie di gioia.

La negra canta.

Allora, è possibile giustificare la propria esistenza?

Un pochino?

Mi sento straordinariamente intimidito. Non che abbia molta speranza. Ma sono come uno completamente gelato dopo un viaggio nella neve…

(J. P. Sartre & Associati Eretici Esiliati)












martedì 26 febbraio 2019

(ancora) MARTEDI'



















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Martedì....

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Soffrire a Tempo...














Son pacifici, un po’ melanconici, pensano a Domani, cioè, semplicemente, ad un altro oggi; le città non dispongono che d’una sola giornata che ritorna sempre uguale ogni mattina. La s’impennacchia un po’ la domenica. Che imbecilli. Mi ripugna il pensare che sto per rivedere le loro facce ottuse e piene di sicurezza. Legiferano, scrivono romanzi populisti, sì sposano, hanno l’estrema stupidità di fare figli. E frattanto la grande natura incolta s’è insinuata nella loro città, s’è infiltrata dappertutto, nelle loro case, nei loro uffici, in loro stessi. Non si muove, sì mantiene ferma in essi, essi vi stan dentro in pieno, la respirano e non la vedono, credono che sia fuori, a venti miglia dalla città.

Io la vedo, questa natura, la vedo...

So che la sua sottomissione è pigrizia, so ch’essa non ha leggi: quella che scambiano per la sua costanza... Non ha che abitudini, e le può cambiare domani.

E se capitasse qualcosa?




Se d’un tratto si mettesse a palpitare? Allora s’accorgerebbero della sua presenza e gli sembrerebbe dì sentirsi scoppiare il cuore. A che cosa gli servirebbero, allora, le loro dighe, i loro argini, le loro centrali elettriche, i loro altiforni, i loro magli a vapore? Ciò potrebbe succedere in qualunque momento, magari subito: i presagi ci sono.

Per esempio, un padre dì famiglia a passeggio vedrà venire verso di lui, attraverso la strada, uno straccio rosso come spinto dal vento. E quando lo straccio gli sarà vicinissimo vedrà che è un pezzo di carne marcia, imbrattato di polvere, che si trascina strisciando, a sbalzi, un pezzo di carne torturata che si rotola nei rigagnoli proiettando a spasmi getti di sangue.




Oppure una madre guarderà la guancia del suo bambino e gli domanderà:

‘Che cos’hai, lì, una pustola?’

…e vedrà la carne gonfiarsi un poco, screpolarsi, schiudersi, e in fondo alla screpolatura apparirà un terzo occhio, un occhio beffardo.

Oppure si sentiranno dolci sfioramenti per tutto il corpo, come le carezze che i giunchi dei fiumi fanno ai nuotatori. E sì accorgeranno che le loro vesti son divenute cose viventi.

…E un altro s’accorgerà che qualcosa lo solletica dentro la bocca. S’accosterà ad uno specchio, aprirà la bocca: e la lingua gli sarà diventata un enorme millepiedi vivo, che agiterà le zampe raschiandogli il palato. Vorrà sputarlo, ma il millepiedi sarà una parte di luì stesso, e dovrà strapparselo con le mani.




…E apparirà una quantità di cose per le quali bisognerà trovare nomi nuovi, l’occhio di pietra, il gran braccio tricorno, l’alluce-gruccia, il ragno-mascella. E colui che sì sarà addormentato nel suo buon letto, nella sua dolce camera calda si risveglierà tutto nudo sopra un suolo bluastro, in una foresta dì verghe rumoreggianti, rosse e bianche, erette verso il cielo come le ciminiere di Jouxtebouville, con grossi coglioni a metà fuori di terra, villosi e turgidi come cipolle. E attorno a quelle verghe svolazzeranno uccelli che le becchetteranno facendole sanguinare, e da queste ferite colerà dello sperma, pian piano, lentamente, sperma mescolato a sangue, vitreo e tiepido, con piccole bolle.

O anche, niente di tutto questo succederà, non vi sarà alcun cambiamento apprezzabile, ma la gente, una mattina, aprendo le persiane, sarà sorpresa da una specie di senso orribile, pesantemente posato sulle cose, e che sembrerà aver l’aria d’attendere.




Null’altro che questo: ma per poco che questo duri vi saranno suicidi a centinaia. Ebbene, sì! Che tutto questo cambi un poco, non domando di meglio. Se ne vedranno altri, allora, piombati bruscamente nella solitudine.

Uomini completamente soli, solissimi, con orribili mostruosità, correranno per le strade, passeranno pesantemente davanti a me, con gli occhi fissi, fuggendo i loro mali e portandoli con sé, con la bocca aperta e la loro lingua-insetto che sbatterà le ali. Allora io creperò dalle risa, anche se il mio corpo sarà coperto di luride croste sospette che sbocceranno in fiori di carne, in viole, in ranuncoli. M’addosserò ad un muro, e griderò al loro passaggio:

Che ne avete fatto della vostra scienza?

Che ne avete fatto del vostro umanitarismo?

Dov’è andata a finire la vostra dignità di canna pensante?




Io non avrò paura - o almeno, non più che in questo momento. Forse che ciò non sarà pur sempre esistenza? delle variazioni sull’esistenza? Tutti quegli occhi che mangeranno lentamente un volto saranno di troppo, senza dubbio, ma non più dei due primi. È dell’esistenza che io ho paura.

Scende la sera, nella città s’accendono le prime lampade. Mio Dio! Che aria naturale ha la città, come sembra schiacciata dalla sera, nonostante tutte le sue geometrie. È talmente. evidente, da qui, possibile che io sia il solo a vederlo? Non c’è nessun’altra Cassandra in nessun posto, che dalla cima di qualche collina guardi ai suoi piedi una città inghiottita in fondo alla natura? E d’altronde che m’importa? Che cosa potrei dirle?
Il mio corpo, pian piano, si volta verso est, oscilla un poco e si mette in cammino.

 (J. P. Sartre & Associati Eretici Esiliati)












domenica 24 febbraio 2019

LA NAUSEA (Seconda Parte)



















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La Nausea...

Prosegue... a....

Martedì... 












La radice non era nera.

Non c’era del nero su quel pezzo di legno c’era... un’altra cosa: il nero, come il cerchio, non esisteva. Guardavo la radice: era più che nera o quasi nera? Ma ben presto ho smesso d’interrogarmi poiché ho avuto l’impressione di trovarmi in una zona che conoscevo. Sì, avevo già scrutato, con quella stessa inquietudine, innumerevoli oggetti, avevo già cercato - vanamente - di pensare qualcosa su di essi: ed avevo già sentito le loro qualità, fredde e inerti, sottrarsi e scivolarmi di tra le dita.

Nera radice così come la foglia…

….Ed allora questo momento è stato straordinario.




Ero lì, immobile e gelato, immerso in un’estasi orribile. Ma nel seno stesso di quest’estasi era nato qualcosa di nuovo: comprendevo la Nausea, ora, la possedevo. A dire il vero, non mi formulavo la mia scoperta. Ma credo che ora mi sarebbe facile metterla in parole. L’essenziale è la contingenza. Voglio dire che, per definizione, l’esistenza non è la necessità. Esistere è esser lì, semplicemente; gli esistenti appaiono, si lasciano incontrare, ma non li si può mai dedurre. C’è qualcuno, credo, che ha compreso questo. Soltanto ha cercato di sormontare questa contingenza inventando un essere necessario e causa di sé.

Orbene, non c’è alcun essere necessario che può spiegare l’esistenza: la contingenza non è una falsa sembianza, un’apparenza che si può dissipare; è l’assoluto, e per conseguenza la perfetta gratuità.

Tutto e gratuito, questo giardino, questa città, io stesso…

…In meno di tre secondi tutte le mie speranze sono state spazzate via. Su quei rami esitanti che brancolavano ciecamente all’intorno, non sono riuscito ad afferrare alcun ‘passaggio’ all’esistenza. Quest’idea di passaggio era un’altra invenzione degli uomini. Un’idea troppo chiara. Tutte quelle minute agitazioni s’isolavano, si determinavano per se stesse. Traboccavano da tutte le parti dai rami e i ramoscelli. Turbinavano attorno a quelle mani secche, le avvolgevano di piccoli cicloni.

Naturalmente, un movimento era una cosa diversa da un albero.




Ma era ugualmente un assoluto.

Una cosa.

I miei occhi non incontravano mai altro che del pieno. In cima ai rami brulicavano esistenze, esistenze che si rinnovavano continuamente e che non nascevano mai. Il vento esistente veniva a posarsi sull’albero come una grossa mosca, e l’albero rabbrividiva. Ma il brivido non era una qualità nascente, un passaggio dalla potenzialità all’atto; era una cosa; una cosa-brivido scorreva nell’albero, se ne impadroniva, lo scuoteva, e di colpo l’abbandonava, se ne andava più in là a girare su se stessa. Tutto era pieno, tutto era in atto, non c’era intervallo, tutto, perfino il più impercettibile sussulto, era fatto con un po’ d’esistenza.

E tutti questi esistenti che si affaccendavano attorno all’albero non venivano da nessun posto e non andavano in nessun posto. Di colpo esistevano, e poi, di colpo non esistevano più: l’esistenza è senza memoria; dì ciò che scompare non conserva nulla - nemmeno un ricordo. L’esistenza dappertutto, all’infinito, esistenza di troppo, sempre e dappertutto; l’esistenza - che non è mai limitata che dall’esistenza. Mi son lasciato andare sulla panchina, stordito, ottuso di quella profusione di esseri senza orìgine: dappertutto sbocci, sviluppi, le mie orecchie ronzavano d’esistenza, la mia carne stessa palpitava e si schiudeva, s’abbandonava al pullulamento universale, una cosa ripugnante.




‘Ma perché’, - ho pensato, ‘perché tante esistenze, visto che si rassomigliano tutte?’.

A che pro tanti alberi tutti simili?

Tante esistenze mancate e ostinatamente ricominciate e di nuovo mancate - come gli sforzi maldestri d’un insetto caduto sul dorso? (Io ero uno di questi sforzi). Quell’abbondanza non faceva l’effetto della generosità, al contrario. Era tetra, meschina, imbarazzata di se stessa. Quegli alberi, quei gran corpi sgraziati. Mi son messo a ridere poiché d’un tratto ho pensato alle formidabili primavere che si descrivono nei libri, piene di spaccature, dì scoppi, di sbocci giganteschi. C’erano imbecilli che venivano a parlarvi di volontà di potenza e di lotta per la vita. Si vede che non avevano mai guardato una bestia né un albero.

Quel platano, con le sue macchie di tigna, quella quercia mezza fradicia, avrebbero voluto gabellarmele per giovani forze violente che zampillavano verso il cielo. E quella radice? Senza dubbio avrei dovuto rappresentarmela come un artiglio vorace che squarciava la terra, per strapparle il suo nutrimento?




Impossibile veder le cose a quel modo. Delle mollezze, delle debolezze, questo sì. Gli alberi ondeggiavano. Uno zampillamento verso il cielo? Era piuttosto un afflosciamento, da un momento all’altro m’aspettavo di vedere i tronchi raggrinzirsi come verghe stanche, afflosciarsi e cadere al suolo in un mucchio nero pieno di pieghe. Non avevano voglia di esistere, solo che non potevano esimersene, ecco. E allora facevano tutte le loro piccole funzioni, pianamente, senza slancio: la linfa saliva lentamente entro i vasi, controvoglia, e le radici s’affondavano lentamente nella terra. Ma ad ogni momento sembravano sul punto di piantar tutto lì e annullarsi. Stanchi e vecchi, continuavano ad esistere, di malavoglia, semplicemente perché erano troppo deboli per morire, perché la morte poteva venir loro solo dall’esterno: solo le arie musicali sanno portare fieramente la loro propria morte in sé come una necessità interna; soltanto che esse non esistono.

Ogni esistente nasce senza ragione, si protrae per debolezza e muore per combinazione. Mi son lasciato andare all’indietro e ho chiuso gli occhi. Ma le mie fantasie, subito risvegliate, son balzate su e son venute a riempire d’esistenze i miei occhi chiusi: l’esistenza è un pieno che l’uomo non può abbandonare.

Strane immagini. Rappresentavano una folla di cose.




Non cose vere, altre che gli rassomigliavano. Oggetti di legno che rassomigliavano a sedie, a zoccoli, altri oggetti che rassomigliavano a piante. E poi due facce: era la coppia che aveva pranzato vicino a me, l’altra domenica, alla birreria Vézelise. Grassi, caldi, sensuali, assurdi, con le orecchie rosse. Vedevo le spalle e il petto della donna. Esistenza nuda. Quei due là - d’un tratto, ciò mi ha fatto orrore -, quei due là continuavano ad esistere da qualche parte di Bouville; da qualche parte - in mezzo a quali odori? - quel petto morbido continuava a carezzarsi contro stoffe fresche, a raccogliersi nei merletti e la donna continuava a sentirsi il petto esistere nella sua blusa, a pensare: ‘le mie tettine, i miei bei frutti’, e a sorridere misteriosamente, attenta all’espandersi dei suoi seni che la solleticavano, e poi ho gridato e mi son ritrovato, con gli occhi sbarrati.

Ch’io l’abbia sognata, quell’enorme presenza?

Era lì, posata sul giardino, precipitata negli alberi, moltissima, impiastricciando tutto, densissima, una mostarda. Ed io ci ero dentro, io, con tutto il giardino? Avevo paura, ma soprattutto ero arrabbiato, trovavo ch’era una cosa così stupida, così fuori posto, e l’odiavo, quell’ignobile marmellata. Quanta ce n’era! Arrivava fino al cielo, e invadeva tutto, tutto riempiva col suo abbraccio gelatinoso, e ne vedevo in quantità sempre più grande, ben oltre i confini del giardino, oltre le case, oltre Bouville, non ero più a Bouville, non ero in nessun posto, fluttuavo. Non ero sorpreso, sapevo bene che era il Mondo, il Mondo nudo e crudo che si mostrava d’un tratto, e soffocavo di rabbia contro questo grosso essere assurdo.




Non ci si poteva nemmeno domandare da dove uscisse fuori, tutto questo, né come mai esisteva un mondo invece che niente. Non aveva senso, il mondo era presente dappertutto, davanti, dietro. Non c’era stato niente prima di esso. Niente. Non c’era stato un momento in cui esso avrebbe potuto non esistere. Era appunto questo che m’irritava: senza dubbio non c’era alcuna ragione perché esistesse, questa larva strisciante. Ma non era possibile che non esistesse. Era impensabile: per immaginare il nulla occorreva trovarcisi già, in pieno mondo, da vivo, con gli occhi spalancati, il nulla era solo un’idea nella mia testa, un’idea esistente, fluttuante in quella immensità: quel nulla non era venuto prima dell’esistenza, era un’esistenza come un’altra e apparsa dopo molte altre.

Ho gridato ‘che porcheria, che porcheria!’

E mi son scrollato per sbarazzarmi di questa porcheria appiccicosa, ma questa teneva duro, e ce n’era tanta, tonnellate e tonnellate d’esistenza, indefinitamente: soffocavo nel fondo di quest’immensa noia. E poi, d’un tratto, il giardino s’è vuotato come per un gran buco, il mondo è sparito allo stesso modo come era venuto, oppure mi son risvegliato - in ogni caso non l’ho visto più: attorno a me rimaneva della terra gialla, dalla quale uscivano dei rami morti drizzati in aria. Mi sono alzato, sono uscito. Arrivato alla cancellata mi son voltato. Allora il giardino m’ha sorriso.

Mi sono appoggiato alla cancellata ed ho guardato a lungo.




Il sorriso degli alberi, del gruppo di allori, ciò voleva dire qualche cosa; era questo il vero segreto dell’esistenza. Mi son ricordato che una domenica, non più di tre settimane fa, avevo già sorpreso sulle cose una specie d’aria di complicità.

Era diretta a me?

Ho sentito con disappunto che non avevo alcun mezzo di comprendere. Nessun mezzo. E tuttavia era là, in attesa, sembrava uno sguardo. Era là, sul tronco del castagno. era il castagno. Le cose si sarebbero dette pensieri che si fermassero a metà strada, che s’obliassero, che obliassero ciò che avevano voluto pensare, e che restassero così, ondeggianti, con un bizzarro, piccolo significato che le sorpassava. M’infastidiva, questo piccolo significato: non potevo comprenderlo, nemmeno se fossi rimasto centosette anni appoggiato a quella cancellata; avevo appreso sull’esistenza tutto quello che potevo sapere. Me ne sono andato, sono rientrato all’albergo, ed ecco qua, ho scritto.


(J. P. Sartre & Associati Eretici Esiliati)












giovedì 21 febbraio 2019

BOCCONI BREVI




















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Poesie sciolte...

Prosegue nella...

Nausea...






                                      SERMONI PREDICATI

                                    POMODORI RACCOLTI



La somiglianza tra il francescanesimo primitivo e altri sodalizi pauperistici e penitenziali di origine o in parte laicale sono pertanto un dato innegabile; così come innegabile che tra quei sodalizi, i meccanismi che presiedevano alle scelte ortodosse di alcuni  ereticali di altri erano sottili e si basavano talora su ragioni impercettibili, talaltra su eventi addirittura casuali.

In effetti, la discriminante tra ortodossia ed eterodossia non stava affatto né sul piano del rigore con cui si guardava al modello evangelico, né su quello della durezza che s’imponeva alla propria forma di vita. Il problema era evidentemente disciplinare: consisteva tutto nell’accettazione dell’autorità gerarchica della Chiesa e – quindi – nella scelta fra una predicazione prevalentemente accusatoria (donde deriva anche una certa socialità rilevata…), a modo suo alternativo-istituzionale, e una tutta fondata sulla ‘metanoia’ e quindi sul perfezionamento interiore e personale, da perseguirsi con implacabile durezza verso se stessi ma da proporre agli altri soltanto attraverso l’offerta di modelli da seguire liberamente.

E qui risiede la chiave del fatto – d’una sconvolgente semplicità – che Francesco non ha mai criticato nulla e nessuno, non ha mai attaccato nulla e nessuno: neppure la corruzione della Chiesa, della quale senza dubbio si rendeva conto e che non poteva piacergli (all’attuale Francesco rendiamo il merito di quanto il proprio mandato ufficiato nello sforzo compiuto e ancor da compiere per medesimo passo accompagnato…); neppure gli Eretici, con i quali certo concordava quanto più potevano sembrare simili strade sentieri e passi (detti…)…; concordi in sostanza su taluni fini circa la corruzione ma distanti su vedute prossime al Creato Genesi di similar dottrina… 

Non essendo ancor il 24 (del prossimo antico Febbraio rimembrato)  rileviamo una nuova pazzia di Frate Francesco simmetricamente tratta negli odierni accadimenti e data a medesime ugual genti… e su ciò meditiamo…

Rivolta a Fiere non men che Bestie cogitanti sottratte alle bestiali genti divoranti!

Nel suo soggiorno romano, infatti, del 1209-10 nel qual vien annoverato il celebre Fioretto XVI, quello della predica alle vasti genti della Natura purtroppo senza - almeno così dicono - corretta parola neppur Pensiero anco questo in dialetto romanesco quanto celtico rinato!

Ci troviamo e dimoriamo tra Cannara e Bevagna, sulla strada che da Assisi conduce a Montefalco, in una data non facile a precisarsi ma che apparterrebbe al tempo nel quale la ‘fraternitas’ era consolidata. È una pagina limpida, trasparente: Francesco parla alle bestie volatili e non, li esorta – ricalcando così un noto passo evangelico – ad esser grati a Dio che li nutre, e quelle pazientemente e affettuosamente lo ascoltano (ciò più che vero: mentre tutti e nessuno ridono e ‘mirano’ cotal giullaresca pazzia, gli altri applaudono regal giullare ben pagato recitare diversa rima al teatro non più Colosseo d’una più nobile cucina); quindi li benedice e li congeda avvisandoli dell’ingordo cacciatore non meno del trovatore e non certo di saggia parola…

Dopo tutto quel che abbiam appreso dagli etologi non meno di ecologisti, ci guarderemo bene dal bollare quest’episodio come senza dubbio leggendario e dall’escluderlo dalle ipotesi di fattibilità, in quanto abbiamo sfamato e saziato la Natura e questa accompagnata dal buon Dio ci contraccambia giacché stanca afflitta perseguitata e anche pur senza Parola per esser ricordata ispirare Poesia rimata; e chi in cotal gesto proteso e pregato, additato perseguitato afflitto ‘pazzo’ ingiuriato non meno del Destino augurato ora come ieri apostrofato…

Qual Golgota comandato!

Quel di certo conosciamo dai testi medievali non meno dalle odierne parabole parole sconnesse senza Rima e Memoria alcuna, ci possono far render conto come nel fatto narrato si celi una intera allegoria e non solo potremo a Ragione (o torto) indicare e sostenere una intera civiltà progredita…

Cotal nobili creature della Terra quanto dell’aria non men del mare da altri così mal navigato conservano uno statuto simbologico molto complesso: possono esser presi a simbolo talora delle Anime – e la moderna psicanalisi ce l’ha ricordato, rileggendo in questa chiave anche molti antichi miti -, talaltra degli angeli e dei dèmoni. Nella letteratura medievale gli animali che affollavano i bestiari erano frequentemente utilizzati a simboleggiare vizi e virtù umane. Anzi, era cosa comune rammentarli per caratteristiche che in loro erano naturali ma che nell’uomo sarebbero state peccaminose: e allora se ne sottolineavano l’ingordigia, la lussuria, l’orgoglio, la vanità. Oggi come ieri abbiamo rovesciato taluni schemi e abbiam scoperto diversi intenti e patimenti, doti e prodigi ma sempre conditi alla cucina dell’uomo non comprendendo bene come Ragione e Simmetrico Superiore Intendimento talvolta e come un Tempo vien concesso (Aristotele permettendo…)…  

Scorgendo e confondendo uomini e bestie!

Ruggero di Wendover narra che subito dopo aver ottenuto dal papa il permesso (ma non dal giullare di Stato tantomeno dai suoi pretoriani comandati… in ciò che stato e mai nato…) di seguire il suo programma di Vita, Francesco si costruì un oratorio in Roma e cominciò da lì la sua missione: ma il popolo romano non men del celtico nato preferisce - come fu e sempre Stato - accompagnarsi al Barabba d’un giullare acclamato imperator… di Stato…

Per giunta nemico di tutto ciò che buono, lo coprì di disprezzo e restò incurante dinanzi alle sue esortazioni continuando a perseguitarlo.

Francesco dichiarò allora che quella durezza di cuore come di sano Intelletto sonava offesa non a lui, ma all’Onnipotente (più potente ed accorto di pria basta leggerlo nelle parole di Saramonda non meglio degli occhi afflitti e preoccupati per ugual sorte alla valanga precipitata non più acqua neve a cui la Grotta per sempre affollata…); egli da parte sua – secondo il precetto del Cristo: scuotersi dai calzari la polvere delle case dove gli annunziatori della Parola non fossero stati ben accolti – se ne sarebbe andato dalla città per annunziare Cristo agli animali bruti della terra del cielo e dello mare intero; essi ascolteranno queste parole di salvezza e obbediranno a Dio con tutto il cuore dal momento che le italiche romane celtiche genti non disposto ad ascoltarlo.

Ciò detto si avviò verso la campagna e lì, appena fora le mura ove ogni Comunale intento affigge suddetta pazzia vide uno stormo di cervi accompagnato da corvi merli e passeri non men che lupi raccoglierne predica, e Francesco comandò loro in nome di Cristo di venire a lui, contrariamente come avevano scelto di fare non solo i romani ma l’intero impero dall’Alpe alle Piramidi comandato come un tempo non troppo remoto et anco rimato et contraccambiato…

Frate Francesco tornò da quella predica giullaresca zoppicante con il piede gonfio con una stimmate nuova ed ulcerosa digiuno per altrui proprio volere gli altri quelli della sua terra seduti alla preziosa cucina non meno d’innominata osteria ove ogni buon piatto ben condito in medesima preghiera all’altare di ugual opposto Dio…

Scusate fors’anche antico diverbio fra il Primo e Secondo (e non certo un piatto assaporato…).

(F. Cardini & Associati) 















domenica 17 febbraio 2019

UN DIALOGO RITROVATO (Seconda Parte)














































Precedenti capitoli:

E... un Dialogo ritrovato...(Prima Parte)

Prosegue nei

Sogni e Memorie d'un abate
















...Havea rimandato a tempo indeterminato ogni appuntamento terreno e con loro ogni materiale compromesso. Havea rinunziato al potere e scagliato per intero dalla loggia della falsa ipocrisia donde questo innestato, io per mio conto e similmente in difetto di facili compromessi ed in fuga da ogni Feudo braccato da ogni monarca e signore conservavo seri dubbi sulla sua unione ortodossa con la chiesa cattolica. Per questo provo un profondo rispetto, quando insieme ascoltiamo il vento corriamo sotto la pioggia o l’immacolata neve con laceri sandali  pregare il ghiaccio e scorgere camini fumanti e stracolmi di selvaggina ed ascoltare la parola della foglia del ramo dell’intero tronco.

Poi scorgerlo e ammirarlo con le lacrime agli occhi come un giullare salire su un ramo e scrutarne il nido, poi ancora come un forsennato ricreare lo stesso vicino ad un Albero ed invitarmi a pregare una Rima per provare medesimo segreto conforto della creatura di Dio giacché da quelle proviene un più elevato Pensiero.

Quindi mi accorsi che quando il gelo incombe come una malattia una fredda peste da tutti fuggita, dalla montagna discende ogni tipo di selvaggina e a lui accorre ed accorreva. Era ed è uno spettacolo un miracolo della Natura vederlo vicino al suo nido vicino all’Albero parlare al vento al ghiaccio alla neve al sole ed al cielo e sfamare con le proprie mani quegli animali compresi cinghiali. Poi mi indica i banchetti ove i savi assaporano i trofei d’una antica caccia.

Ride ancor oggi della loro pochezza.

Ride ancor oggi come il vero giullare di Dio per la caccia - perenne caccia - a cui ognuno, così prega e racconta, per sempre mai rinunzia. Eppur intuisco ed intuivo che pur non avendo letto tomo o papiro in lui scorgo e decifro le pagine d’un libro troppo antico per esser appena capito, ed il riso non è ed era solo un misero pasto ma anche più elevata e certa comprensione trasfigurata e erroneamente celebrata nel dotto mondo della Genesi pregata.

Mi guarda come un saggio faggio e non fa’ Parola di quanto da me detto secco e freddo come un bramino!  

Quando arriva la primavera l’incanto e lo stupore maggiori di pria, debbo raccoglierne in questo tomo il ricordo non solo per medesimo Albero donde la fotosintesi d’una più elevata icona, giacché a Lui ogni Creatura domanda riparo come se l’Aristotele - quello dei dotti e saggi per intenderci - avesse letto e compreso donde l’Intelletto compie l’invisibile completa totale unione divenuta comunione.

Con dotti saggi e professori d’una più elevata et elaborata dottrina non volea discuterne disciplina alcuna divenuta inutile controversia, era ed è la sua una Genesi dettata da Dio, ed io che pur vivo cotal conflitto alla dottrina di medesimo Creatore confluita non posso che raccogliere e dedurre le sue quanto mie Ragioni.

Per tutti gli altri eravamo e siamo dei pazzi o forse degli oracoli o fors’anche degli Eretici protetti da un segreto invisibile spirituale intento, non saprei che dire, so’ e testimonio che dopo il Processo ebbi il Perdono e potei anche rimanere al Convento giacché quello il maggior desiderio giacché perseguitato anche dagli Eretici stessi con i quali ebbi a discuterne principi e fondamenti e mostrare una Natura qual vero e primo principio specchio di Dio.

La cosa non piacque e quando da laico debbo domiciliare fuori dal convento e sottostare alle ragioni delle mura d’ogni Comunale intento la persecuzione più feroce di pria, giacché sull’inganno e la materiale ricchezza si fonda il principio della vita e con esso anche quello della guerra.

Ed allora il male come il Diavolo mi prende l’intera membra mi lacera e stritola per ogni ingiuria accompagnata dall’inganno facendosi beffa d’ogni mia scelta. D’ogni spirituale motivo, d’ogni scritto, d’ogni Natura pregata.

Ero e sono perseguito da ogni apostolo del male confuso per progresso. E ricordandomi ciò che fu la nostra Genesi in quella Natura nata in quel Dì rappresentato non posso che essere me stesso e non più recitare o celebrare il solstizio da una cometa annunziato con l’intero Universo inginocchiato, comprendendo motivo e ruolo della persecuzione in ciò che fu ed è più d’una preghiera e provare passioni e dolori d’una incompresa povertà lontano dai fasti con cui per sempre avevano ed hanno glorificato un Dio sbagliato. In ciò con quel fraticello ci intendiamo e comprendiamo adorando il nostro Dio per ogni foglia e ramo annusando il profumo della neve non meno di quello della primavera deliziandoci al ghiaccio come fosse frate foco venuto ad allietare e propiziare un rogo a cui volentieri ogni cittadino cacciatore e fors’anche trovatore ci avrebbe consegnato rinnovando i tormenti d’ogni Eretico al fuoco consegnato.

All’hora terza o quarta la clessidra difetta di sabbia, è quasi giorno e ci avviamo verso il giardino vasto giardino fuori dal convento, il male ricordo al mio frate amico secco e magro come un ramo e non certo appassito ci ha perseguitato tutta la notte donde e per quale il motivo non dell’apparente inverno ma della linfa di cui difetta contrario assente alla Vita e non certo  Parabola di Dio.

Ed a lui e non a Dio, al male dedico cotal Rima ne faccia tesoro affinché comprenda ruolo e seggio al suo ed altrui Parlamento divenuto patria fuggita…