giuliano

giovedì 25 aprile 2019

IL SANGUE NAZIONALE (4)




















Precedenti capitoli:

La carta (1/2)  &  Il sangue di Dio... (3)

Prosegue e/o 'retrocede' (secondo l'Equazione del Tempo) al':

l'intervista (5/6) &

In nome del doblone (7) &

Il 'quadro' della Storia (8)














Per poi assistere assieme ad Ismaele come cotal balena approderà in seguito allo stesso vascello naufragando l’intero equipaggio. L’uomo non certo impara la lezione, anzi con il tempo tenderà all’irreversibile catastrofe e non solo per l’olio di balena, ma proprio in nome e per conto dell’atto che lo vuole padrone d’ogni mare ed Oceano ove nata la Vita e indistinta parola dall’Universo data.

Nulla!

Nulla vede pur tutto calcolando e conquistando.

Nulla meditata pur per secoli apostrofando.

Nulla l’Anima impropriamente incarnata.




L’intento il medesimo, prometeico desiderio, cioè, del dominio [nessuno escluso anche coloro che pur apportando il messaggio di un Cristo confondono umiltà e dominio mascherando la propria volontà non più di affermazione ma di ugual innata prometeica umana potenza] della e sulla Natura intera, ed in questo, e non in senso propriamente Gnostico, divenirne il Dio indiscusso.

Un Dio il quale controlla scruta prevede e crea!

Ma tutto ciò che compie in suo potere, anche il calcolare ogni previsione e rotta così come l’Equazione del Tempo [dettaglio che non deve esser sfuggito neppure ad un diverso e successivo comandante non men che Ammiraglio], che pur, quanto calcolato e sottratto ai motivi indistinti della Natura nella ‘cieca’ prevedibilità, e seppur ogni meridiana e parallela ancorata all’ora prestabilita con la quale congiunti ‘relativamente’ alla materia…, regna, in verità e per il vero, un ampio margine destinato all’onda, o, indistinto imperscrutabile mistero, alla particella.




Le quali nella luce della vita portano l’uomo alla prima condizione in cui nato, cioè alla cripta donde una grotta, e con essa, i motivi di ogni approdo o omerica avventura per ogni porto e riva donde la fuga di quanto e meccanicamente calcolato. Per sfuggire per l’appunto, a quella stessa meccanizzazione d’un futuro mondo sempre più esattamente calcolato fino all’infinitesimale cui però sottraiamo, all’Equazione del Tempo, l’Eterno, inteso come Dio.

Sfuggire a tale condizione, calcolo rotta e progresso in ogni fase del suo avvento o lenta evoluzione, risolvono tutte le condizioni di una Anima la quale cerca quel ricongiungimento gnosticamente o ortodossamente esplicitato e disquisito, tramite il soggetto primo che l’ha pur coniata e di cui specchio.




Questa la pur discussa e indiscussa Verità, l’uomo vittima di sé medesimo. Omerico Viaggio o Buona Novella, nel quale cerca indistintamente quella prima condizione adamitica persa naufragata nel porto non più del progresso, ma come esplicitato dall’ottimo Riccardi Di Giuseppe nel commento conclusivo dell’opera di Salustio, dell’impossibilità esplicitata di coniugare l’esatto intendimento dell’Anima stessa nel proprio ed altrui Viaggio. 

Eterno movimento ancor prima della partenza, quindi un eterno cerchio anche nella costruzione di un Tempio, se pur ragionevolmente e rettamente non meno che idealisticamente pensato, sempre nel conflitto della materia posto. Materia quantunque impossibilitata ad esplicitare o al meglio giustificarne l’Opera stessa in quanto ‘limite limitante’ di quanto Eterno o Infinito. Può essere utile il semplice Principio del proprio enunciato, il quale però nel Viaggio, compie la deriva detta in cui l’Uno nel molteplice [evoluto], poi, ancora tornato fors’anche ancorato, come se l’intero cerchio della Vita vada compiuta [e non certo consumata] nel ciclo della propria ed altrui nascita alla luce approdata. Completo invisibile intendimento partendo dal Primo sino all’ultimo Elemento per ben comprendere come ‘pensa cogita e si esprime’ la Divinità scissa ed unita. Unita e scissa nel molteplice.)…




…Dall’intimo più profondo della civiltà industriale, nel 1933 il regime di Hitler emerse come padrone della Germania. Ancora oggi non si accetta la verità fondamentale dei nazisti.

Essi affermavano che la civiltà mondiale si stava sgretolando, e per questo avevano una soluzione: la creazione di una razza superiore. Era questo il loro programma, che non comportava soltanto l’antisemitismo, ma la distruzione di decine di milioni di polacchi, slavi e altre razze che giudicavano inferiori. Ancora oggi si parla dell’imperialismo nazista, della dittatura, della brama di potere, dello spazio vitale ecc. Non si può credere che fossero tutti soltanto strumenti per il conseguimento dello scopo. Non potevano affrontare Hitler ieri con una mente sgombra e una coscienza pulita (allo stesso modo in cui non possono affrontare Stalin oggi) perché la pazzia di entrambi era nata e si era nutrita nel terreno più profondo della civiltà occidentale.




L’organizzazione politica dell’Europa moderna è stata fondata sulla creazione e sul consolidamento degli stati nazionali. E lo stato nazionale, ogni singolo stato nazionale, aveva e ancora ha una dottrina razziale. Questa dottrina è quella della razza, del ceppo e del sangue nazionale, che sono superiore a tutti gli altri. Questa dottrina fu a volte manifesta, spesso nascosta, ma era ed è presente, e durante gli ultimi vent’anni si è fatta più forte in ogni paese del mondo.

A chi ha dei dubbi basti leggere la legge McCarran del 1952 sull’immigrazione, che è pervasa dalla dottrina della superiorità razziale * ….




(* Nei sistemi totalitari e imperialistici è presente l’idea che alcuni gruppi umani siano inutili, senza alcun valore o pericolosi per il potere dell’impero. Per questi motivi, viene approntato un piano per sterminarli. L’eugenetica americana già negli anni Venti, aveva attuato diversi programmi eugenetici elaborati da Harry Laughlin, questo programma costringerà circa 20.000 americani alla sterilizzazione. Influenzata da ciò, la Germania di Hitler decise di approvare una legge simile che porterà alla sterilizzazione di 350.000 persone considerate ‘degradate’. Nel 1937 nascerà negli Usa il Pioneer Fund, con lo scopo di permettere alle ricerche eugenetiche di aver sempre fondi disponibili. Il Pioneer Fund ricevette ingenti risorse finanziarie dai ricchi appartenenti alla destra americana. Alla fine degli anni Venti, Margaret Sanger, una femminista con idee politiche radicali, scrisse un libro dal titolo ‘The Pivot of Civilization’ in cui chiedeva ‘l’elimininazione della gramigna umana’, secondo la Sanger occorreva ‘salvare il pianeta’ dalla sovrappopolazione e per far questo occorreva eliminare le ‘razze disgeniche’, cioè ‘Neri, ispanici, indiani americani’; dopo il 1939, la sua maggiore preoccupazione era che ‘le masse dei neri, specie nel Sud, si riproducono sventatamente e disastrosamente, col risultato che crescono fra i negri, ancor più che fra i bianchi, i meno intelligenti e meno adatti. La Sanger apprezzerà loderà ed in ultimo incoraggerà la politica razziale di Hitler, additandola come un grande esempio di eugenetica messa in pratica. La Sanger un anno prima della ‘fuga’ di James, suscitò grandi consensi [ne più ne meno di Trump ora, accompagnato dai fedeli suoi cani, grillini o leghisti che siano, per non dire del resto d’Europa…] negli Usa ed ebbe diverse onorificenze: nel 1952 divenne presidente della International Planned Parenthood Federation, federazione mondiale della contraccezione sotto l’egida dell’Onu. Anche molti altri autori americani sosterranno le teorie eugenetiche…).




…L’Europa occidentale nel 1914-18 si inferse un colpo dal quale non si sarebbe mai più ripresa. Ferito e battuto più di tutti gli altri, lo stato nazionale tedesco creò una teoria della società e un programma. Tra le rovine si potevano allora vedere le fondamenta, la teoria della superiorità della razza nazionale. Lo stato nazionale era il solo dio senza alcuna ipocrisia o finzione. La razza nazionale era la razza superiore.

…E come la teoria della razza nazionale si assommi alla teoria della razza padrona e lo sviluppo dell’economia nazionale qual vero prioritario interesse, sono semplicemente aspetti inseparabili dello Stato nazionale, così nazismo e comunismo sono aspetti inseparabili della degenerazione europea. Ora possiamo vedere Achab nella sua intera statura, come personificazione del tipo totalitario. Con il suo intento chiaro davanti a sé, si preoccupa soltanto di due aspetti: 1) della scienza, la gestione delle cose, e 2) della politica, la gestione degli uomini.




In uno splendido capitolo ‘La carta’ Melville ci mostra Achab, l’uomo risoluto al lavoro. Ha il comando esclusivo di una baleniera che è una delle strutture tecnologiche più avanzate del momento. Ha catalogato nel suo cervello tutte le conoscenze scientifiche della navigazione accumulate nel corso dei secoli. Questa è una delle ragioni che fanno di lui una minaccia mortale. Il suo proposito può essere folle ma le armi che sta usando per raggiungerlo sono le scoperte più avanzate del mondo civile, e questo proposito dà alla sua già acuta intelligenza un dominio su di esse e un potere prima mai posseduto.

Di notte quanto di giorno siede con le sue carte!

Conosce il corso delle maree e delle correnti, le derive del cibo dei capodogli ma gli sfugge la formula di Dio…




Di notte non dorme né prega, siede con le sue carte! Ed a volte, a tarda notte, la follia sembra dominarlo. Allora si alza e si precipita fuori dalla cabina. Ma questa è una follia che non può essere curata da nessun medico. Ciò che prorompeva, secondo Melville, era quella sua semplice umanità che fuggiva dal mostro che l’aveva sopraffatta. Allora Achab era ‘una cosa vuota, un’informe creatura sonnambula, un raggio, sì, di luce, ma privo di oggetto da colorare e perciò in se stesso vacuità. L’umanità si spezzava e restavano soltanto intelletto, scienza e tecnologia astratte, vitali ma vacue, al servizio non di un proposito umano ma semplicemente dello stesso astratto proposito (divenuto principio totalitario).

Achab incarna e manifesta i tratti indistinguibili della tirannia dittatoriale la quale imporrà i suoi termini, in assenza di qualsivoglia dialettica e principio, affidati alla macchina del progresso, dalla ‘carta’ dedotto e programmato calcolato (ne più ne meno di un Dio nato) in cui ogni imperialismo economico risolverà la propria falsa Gnosi nel falso concetto di Stato, in eterno contrasto con la Natura…

Ogni Natura… derivata da un più probabile Dio…













mercoledì 24 aprile 2019

L'INTERVISTA (6)

































Precedenti capitoli:

L'intervista (5/1)

Prosegue nel...

Nome del doblone (7)














CLRJ: È raccolto, in particolare in quelle due opere, Michelangelo, e l’intero mondo può essere visto nei due dipinti: e così in Guernica e nelle statue di Olimpia, poiché oltre all’Apollo all’inizio, ce n’è un’altra, l’altro frontone dove c’è il re con sua moglie e il giovane uomo che desidera sua figlia, e alla fine ci sono alcune persone, gente comune che sta in basso, e così via. In altre parole, l’intera immagine è lì. E dopo passi a Guernica dove hai un assoluto e incredibile capolavoro. Picasso ti rappresenta prima di tutto una donna che viene bruciata. Questa è il solito tipo di cosa che i pittori dipingeranno. Ma poi le cose si complicano: c’è un po’ di luce. Le persone non se ne accorgono: è ciò che ha fatto sì che il mondo moderno sia com’è. Un qualche potere elettrico di un qualche tipo. E da questo lato c’è una figura con cui Picasso ha giocato per anni, il toro. Ha piazzato sotto il toro la donna con il bambino. E il toro è lì, ha una grande potenza. Ha istinti sessuali molto forti – è chiaro. È preoccupato, e la donna che è lì glielo sta dicendo, sei l’unico che mi può salvare. Lui non lo sa. Ma Picasso ha detto che l’intero mondo è finito. L’unica cosa che può venire da esso è la potenza sessuale del toro, la sua forza fisica e la donna col bambino. Così questo quadro va in tale direzione. E sono sicuro che se tu guardi le statue di Olimpia, e poi guardi i due affreschi di Michelangelo e poi guardi Guernica, ottieni l’immagine degli eventi storici del tempo. Ma devi conoscere la storia. Non ho dubbi – permettimi una parola.

SH: Permettimi una parola…

CLRJ: Sì certo…

SH: Non ho dubbi che le persone per cui quelle statue e quelle opere sono state create le capiscano. Non ho dubbi su questo. Sono sicuro che posso portare Guernica a Trinidad domani e non ci sarebbero fraintendimenti. Sono i tuoi critici artistici che, confrontandolo con Corot e confrontandolo con Michelangelo e Goya, fanno confusione. Ma se tu comprendi che l’immagine è creata per le persone comuni, com’è lo stesso artista; altrimenti egli non potrebbe vedere le cose in modo così chiaro, come tu puoi vederle.

SH: Voglio dire, quello che stai facendo non è affatto accettare una distinzione tra un momento storico importante di cambiamento o di lotta e il modo in cui questo viene rappresentato attraverso l’opera di un singolo artista. Stai dissolvendo queste categorie. Le stai vedendo come in un continuum; intendo la pratica storica.

CLRJ: Non direi che è un continuum. Ma dico...

SH: Qual è la differenza? In che cosa sta?

CLRJ: Il punto è che il grande artista con una nuova visione e con una presentazione così forte sorge solo quando la società l’ha già acquisita o l’ha già superata. Questo produce l’artista. Non abbiamo in Gran Bretagna un Solzenicyn? È perché in Gran Bretagna non c’è niente in questo momento che possa darci un uomo di quel tipo. Non abbiamo un grande scrittore in Gran Bretagna da D.H. Lawrence. Per tutto il ventesimo secolo non ne abbiamo avuto alcuno poiché le cose – ebbene, le cose politiche, il Partito Laburista e...

SH: Quindi tu vedi davvero l’artista in senso marxista, come un individuo storico...

CLRJ: Un artista è un individuo storico, ma hai sostanzialmente ragione, è un individuo storico. La storia è in lui. Ma è una rappresentazione individuale.

SH: Sì, ma questo vale allora per quello che hai scritto di Melville.

CLRJ: Sì.

SH: Vale per quello che hai scritto di Shakespeare.

CLRJ: Sì.

SH: Vale per quello che dici di Michelangelo.

CLRJ: Sono tutti individui.

SH: E Picasso.

CLRJ: Sì.

SH: Ma è anche come parli di Sobers.

CLRJ: Di Sobers, sì, ma...

SH: O di Warrell o di Walcott.

CLRJ: Ma rispetto a quando essi emersero e rispetto a come essi giocavano, sai da chi l’ho imparato? L’ho imparato da Learie Constantine, che mi diceva nel 1928, mi ricordo questa frase, ‘loro non sono migliori di noi’. Constantine me lo raccontava, diceva, noi siamo bravi tanto quanto loro; il che è dire, in quanto singoli giocatori, ma in un qualche modo noi non siamo capaci di..

SH: Solo qualcosa di più a proposito di Moby Dick, va bene? Perché si tratta di un romanzo la cui grandezza è riconosciuta da tutti i critici americani. Per quanto non so se loro avrebbero potuto scorgervi il significato che tu vi hai visto elaborato nei termini di come il romanzo è strutturato. Intendo Achab e la Balena, e Ismaele come l’intellettuale, tu dici, attratto dall’uomo d’azione. Perché concepisci tutto questo come una sorta di microcosmo dell’America?

CLRJ: Perché è nel libro. Mi spiace, sono molto militante e, in effetti, posso essere molto aggressivo rispetto a questo. Le cose che affermo su Moby Dick  non sono i sentimenti che provo, un uomo è legittimato a scrivere a proposito dei suoi sentimenti in riferimento al gioco del cricket. Neville Cardus scrisse molto a proposito delle sue personali risposte al gioco. E con risultati molto brillanti. Nondimeno, insisto a scrivere sul cricket, guardo quel che fanno. E se ho una sensazione rispetto a ciò, essa è strettamente condizionata da ciò che sta avvenendo. E nella mia analisi di  Moby Dick, dico, per esempio, quando la Balena è vicina alla fine, prima che Achab si metta in caccia, gli uomini a bordo del vascello che la sta inseguendo all’improvviso gridano insieme e io considero quelle due o tre pagine tra le più pregevoli del libro. Il che significa per me che Melville, nel momento in cui gli uomini vedono [la balena] e prendono parte [alla caccia], non stanno semplicemente seguendo Achab, che questo lo ispira a scrivere meglio e in modo maggiormente impetuoso di quanto non faccia in altri momenti. Questo è quello su cui mi fermo. Mi fermo su questo. E dico, se tu vuoi essere contro di me, non devi essere contro di me ma mi devi criticare, devi dirmi che quel passo non ha quel significato che io gli do. Ma dico, è lì. Questo è quello su cui mi soffermo. È il vigore e la violenza, la forza del passo che mi fa sentire che Melville sta dicendo, be’, lì sta quello che conta. Achab non conta perché Achab viene ucciso. Queste persone affonderanno, ma prima che affondino, Melville li innalzerà dall’essere membri comuni dell’equipaggio e li renderà protagonisti di uno dei passaggi più illustri del libro.

SH: Tu hai scritto molto, a più riprese, e hai prestato particolare attenzione agli scrittori delle Indie Occidentali.

CLRJ: Sì.

SH: I romanzieri delle Indie Occidentali e la situazione dell’artista nei Caraibi. Non c’è alcun Melville là, ma, voglio dire, ci sono persone, ci sono opere là, che tu credi stiano iniziando a mettersi in relazione, come quella di Melville, con l’intera situazione storica?

CLRJ: Credo che gli scrittori delle Indie Occidentali abbiano iniziato veramente a scrivere dopo le rivolte del 1937-38. Ho discusso di questo con George Lamming. Quella fu l’atmosfera in cui crebbero. E tu hai Lamming, V.S. Naipaul e Wilson Harris e non credo vi sia alcun paese oggi in cui le persone scrivono in inglese che possa produrre tre scrittori che si possa dire siano più significativi di questi. E Lamming è molto importante, perché Lamming si stancò di scrivere in Inghilterra sui Caraibi per un pubblico inglese e per dieci anni non produsse nulla. È un periodo enorme per un uomo ai suoi primordi. E alla fine andò a scrivere  Natives of My Person  che analizza non tanto gli schiavi quanto gli schiavisti. In altre parole, egli ha spostato l’ottica e i critici non sanno come prendere questa cosa. Si aspettano da Lamming un buon libro sui neri.

SH: Schiavi, sì.

CLRJ: Ma Lamming non lo fece. E questo è il risultato del vivere all’estero. E il libro successivo che Lamming scriverà, credo, sarà sulla popolazione delle Indie Occidentali nelle Indie Occidentali, scritto per colui che vive nelle Indie Occidentali – gli ho parlato. Sai, è un uomo straordinario, e Wilson Harris è ancora più straordinario. Wilson Harris ha capito che c’è qualcosa di americano che è differente dalla vita stanziale e organizzata che le persone hanno vissuto in Europa e che persino gli asiatici hanno vissuto. Che in America c’è qualcosa nel clima, c’è qualcosa nella struttura che si imprime e deriva le proprie caratteristiche dagli amerindi e dalle persone che vi andarono e dalle persone che vivono là oggi. La metà di esso, egli dice in modo abbastanza esplicito, sta nel prendere pezzi di storia e utilizzare l’immaginazione storica. Ma egli non ha paura di farlo ed è uno scrittore sconvolgente. Oltre a questo, è veramente una persona deliziosa.


 (C.L.R. James, Marinai, rinnegati e reietti)












sabato 20 aprile 2019

ACHAB: L'ANIMA DELL'AMMIRAGLIO (2)












































Precedenti capitoli:

Achab...: ovvero l'anima dell'ammiraglio (Primo porto d'attracco...)

Prosegue nel:

Sangue di Dio... (3/4)













Perché in quelle acque e in quella stagione, per parecchi anni di seguito, Moby Dick era stato visto soffermarsi regolarmente per un po’ di tempo, come il sole nel suo giro annuale si ferma per un intervallo prefisso in ognuno dei segni dello Zodiaco. Ed era anche là che aveva avuto luogo la maggior parte degli scontri mortali con la balena bianca; quelle onde erano istoriate con le sue imprese, e là si trovava quel punto tragico dove il vecchio maniaco aveva trovato il pauroso movente della sua vendetta.

Ma Achab, che nel lanciare in questa caccia il suo spirito pensoso calcolava tutto con cautela e vigilava senza tregua, non si sarebbe mai permesso di riporre tutte le sue speranze su quell’unica probabilità culminante di cui si è detto, per quanto essa potesse carezzare quelle speranze; né, insonne come lo teneva il suo giuramento, sarebbe riuscito a tenere tanto quieto il proprio cuore da rinviare ogni ricerca precedente.




Ora il Pequod era partito da Nantucket proprio all’inizio della stagione equatoriale. E quindi nessuno sforzo possibile poteva mettere il capitano in grado di fare la grande traversata a sud, doppiare il Capo Horn, e correre per sessanta gradi di latitudine fino a raggiungere il Pacifico equatoriale in tempo per incrociarvi. Bisognava dunque aspettare la stagione successiva. Ma forse questa data prematura per la partenza del Pequod era stata scelta bene da Achab, che teneva presente tutto questo complesso di cose.

Perché così aveva davanti un intervallo di trecentosessantacinque giorni e notti, un intervallo che invece di sopportare con impazienza a terra poteva impiegare in una caccia mista. E forse la balena bianca, passando le vacanze in mari assai lontani dalle sue zone periodiche di pascolo, avrebbe potuto cacciare fuori la sua fronte grinzosa al largo del Golfo di Persia, o nella Baia del Bengala o nei mari della Cina o in altre acque battute dalla sua specie. Sicché monsoni, pamperi e alisei, lo Harmattan o il Nordovest, tutti i venti tranne il levante e il simun potevano spingere Moby Dick nella scia del Pequod che circumnavigava la terra a zigzag.




Ma anche ammettendo tutto questo, se riflettiamo con distacco e cautela, non sembra forse un’idea da manicomio pensare che nell'oceano immenso una balena solitaria, sia pure a incontrarla, possa essere individuata dal suo cacciatore, come se fosse un mufti dalla barba bianca per le arterie affollate di Costantinopoli?

E invece era possibile.

Perché la fronte particolare di Moby Dick, bianca come la neve, e la sua nivea gobba non potevano che essere inconfondibili. ‘E non l’ho forse marcata, la balena?’ brontolava Achab a se stesso, quando dopo avere ponzato sulle sue carte fino a lungo dopo mezzanotte si rovesciava sullo schienale e si perdeva a sognare:

‘È marcata, come mi può sfuggire? Le sue grosse pinne sono forate e dentellate come le orecchie di una pecora smarrita!’.




E qui la sua mente malata si metteva a correre a perdifiato, finché lo prendevano la fatica, la stanchezza di pensare, e allora soleva uscire all'aperto, sul ponte, per vedere di riprendere forza.

Dio, che estasi di torture sopporta l’uomo consumato da un unico insoddisfatto desiderio di vendicarsi! Dorme coi pugni stretti, e si sveglia coi segni del sangue sulle palme. C’erano delle notti in cui lo cacciavano dalla branda sogni estenuanti e insopportabilmente reali, che ripigliavano le preoccupazioni del giorno e le sviluppavano tra un cozzare di impulsi frenetici, e gliele facevano vorticare all’infinito nel cervello avvampato, finché lo stesso pulsare del cuore gli diventava un’angoscia insopportabile; e allora succedeva a volte che questi spasimi dello spirito gli sollevavano l’essere dalle radici, e pareva aprirsi in lui un abisso da cui erompevano fiamme forcute e lampi, e anime dannate gli facevano segno  di saltare giù con loro.




Quando questo inferno dell’anima gli si spalancava sotto i piedi, un urlo feroce echeggiava per la nave, e Achab si precipitava fuori della cabina con gli occhi sbarrati, come se fuggisse da un letto in fiamme. Eppure questi, forse, invece di essere i sintomi inoccultabili di qualche latente debolezza o paura per le sue stesse decisioni, non erano che i segni lampanti dell’intensità di queste ultime. Perché ciò che lo faceva balzare inorridito dalla branda, in quelle occasioni, non era quell’Achab pazzo, il cacciatore subdolo, tenace e insaziato della balena bianca, che vi si era disteso.

La vera causa era l’anima, il principio vivente ed eterno che restava in lui; e nel sonno, dissociatosi per un tratto dallo spirito individuante che altre volte lo usava come suo veicolo o agente esterno, questo principio cercava istintivamente di sfuggire alla vicinanza bruciante dell’essere frenetico di cui per il momento non era più parte. Ma l’intelletto non esiste se non collegato con l’anima: e perciò nel caso di Achab, che asserviva ogni pensiero e ogni fantasia a un solo massimo scopo, quel proposito lottava contro dei e demoni con la mera forza del suo radicato volere, e si trasformava in una sorta di essere autonomo e indipendente.




Poteva anzi vivere e bruciare sinistramente, mentre la vitalità comune cui era congiunto fuggiva inorridita da quella creatura illegittima e indesiderata. In realtà lo spirito tormentato che gli ardeva negli occhi, quando l’essere che pareva Achab si lanciava fuori dalla cabina, in quel momento non era che una cosa vuota, una creatura informe che vagava nel sonno, e che era sempre un raggio di luce viva ma senza un oggetto da colorare, e quindi, in se stessa, un niente.

Dio ti aiuti, vecchio.

…I tuoi pensieri hanno creato dentro di te una creatura; e all’uomo che a forza di pensare si trasforma in un Prometeo, un avvoltoio divora il cuore per sempre. Un avvoltoio che è la stessa creatura che egli crea…

(Melville)














venerdì 19 aprile 2019

PARKER ADDERSON,... FILOSOFO (secondo atto)


















Precedenti capitoli:

Parker Adderson, Filosofo (Primo atto) &

I molti morti del generale Wolfe  &

Prosegue in:

...La nave che affonda...&

L'uomo della Natura...













La spia continuò:

- ...Fate fuoco e io mi trovo nello stomaco qualcosa che non ho ingoiato. Cado, ma non sono morto. Dopo mezz’ora di agonia, sono morto. Ma in ogni singolo istante di quella mezz’ora, sono vivo o morto. Non vi è alcun periodo di transizione. Domani mattina, quando sarò impiccato, sarà la stessa cosa; finché sarò cosciente, sarò vivo; quando sarò morto, sarò incosciente. Sembra che la natura abbia disposto le cose nel mio interesse, come le avrei disposte io stesso. E’ così semplice - aggiunse con un sorriso - che sembra quasi non valga la pena essere impiccati.

Al termine di quelle considerazioni, vi fu un lungo silenzio.




Il generale sedeva impassibile, guardando l’uomo in volto, apparentemente non curante di ciò che era stato detto. Era come se gli occhi avessero montato la guardia al prigioniero, mentre la mente era occupata in altre faccende. Poi trasse un lungo e profondo sospiro, rabbrividì come uno che si svegli da un sogno spaventoso:

 - La morte è orribile!

- esclamò quel ministro di morte.

- Era orribile per i nostri antenati selvaggi

- la spia disse con gravità,

- perché non erano abbastanza intelligenti da separare l’idea di coscienza da quella delle forme fisiche in cui si manifesta; allo stesso modo in cui un livello di intelligenza inferiore, ad esempio quello della scimmia, può essere incapace di immaginare una casa senza abitanti, e vedendo una baracca in rovina crede che sia occupata da qualcuno che soffre. Per noi è orribile perché abbiamo ereditato la tendenza a pensarla in questo modo, e giustifichiamo il concetto con delle teorie selvagge e fantasiose su un altro mondo; proprio come i nomi dei luoghi danno origine a leggende che li spiegano e gli atteggiamenti irrazionali a filosofie che li giustificano. Voi potete impiccarmi, generale, ma il vostro potere di farmi del male finisce qui, non potete condannarmi al paradiso.




Il generale parve non aver udito; le chiacchiere della spia avevano semplicemente deviato i suoi pensieri in un canale sconosciuto dove seguirono una volontà propria e giunsero a conclusioni autonome. La tempesta era cessata, e qualcosa del lo spirito solenne della notte si era trasmesso alle sue riflessioni, conferendo loro il fosco tocco di un terrore soprannaturale. Vi era forse un elemento di preveggenza:

- Non mi piacerebbe morire - disse -, non questa notte.

Fu interrotto, ammesso che avesse davvero l’intenzione di continuare a parlare, dall’entrata di uno degli ufficiali del suo stato maggiore, il capitano Hasterlick, l’ufficiale di polizia militare. Questo lo fece rientrare in sé; lo sguardo assente svanì dal suo volto.

- Capitano,

disse, rispondendo al saluto dell’ufficiale,

- quest’uomo è una spia yankee catturata nelle nostre linee con dei documenti compromettenti su di sé. Ha confessato. Com’è il tempo?




- La tempesta è cessata, signore, e splende la luna.

- Bene; prendete un plotone, conducete immediatamente il prigioniero alla piazza d’armi, e fucilatelo.

Un grido acuto proruppe dalle labbra della spia.

Si slanciò in avanti, allungò il collo, spalancò gli occhi, si afferrò le mani.

- Buon Dio! gridò con voce rauca, quasi incapace di articolare i suoni.

- Non direte sul serio! Dimenticate ...non devo morire prima di mattina.

- Non ho parlato di mattina, disse freddamente il generale; è un’idea che ti sei fatta tu. Morirai adesso.




- Ma generale; vi prego ...vi imploro; devo essere impiccato! Ci vorrà un po’ di tempo per erigere una forca, due ore, un’ora. Le spie vengono impiccate; ho dei diritti secondo la legge militare. Per amor del cielo, generale, considera te quant’è breve…

- Capitano, eseguite gli ordini.

L’ufficiale sguainò la sciabola e fissato lo sguardo sul prigioniero, indicò silenziosamente l’apertura della tenda.

Il prigioniero esitò!

L’ufficiale lo afferrò per il colletto e lo spinse gentilmente in avanti. Non appena si avvicinò al palo della tenda, l’uomo vi si slanciò con frenesia e con l’agilità di un gatto agguantò il manico del coltello da caccia, strappò l’arma dal fodero e spinto in parte il capi tano, si avventò sul generale con la furia di un pazzo, lo gettò a terra e gli cadde addosso a corpo morto. Il tavolo si ribaltò, la candela si spense ed essi lottarono alla cieca nel buio. L’ufficiale della polizia militare si slanciò in aiuto del superiore e fu a sua volta tirato verso i due corpi che si dibattevano.

Maledizioni e grida indistinte di dolore e rabbia provennero dal caotico intreccio di membra e di corpi; la tenda crollò su di loro e nel viluppo e nell’intreccio di pieghe la zuffa andò avanti.




Il soldato Tassman, di ritorno dall’incarico, intuì vagamente la situazione, gettò a terra il fucile e acchiappando a casaccio la tela che si dimenava cercò invano di tirar fuori gli uomini che vi erano sotto; e la sentinella che andava su e giù davanti alla tenda, e che non avrebbe osato abbandonare il proprio giro d’ispezione, cascasse il mondo, sparò un colpo.

Lo scoppio dette l’allarme al campo: i tamburi rullarono a lungo, le trombe suonarono l’adunata e fecero uscire a frotte, al chiaro di luna, uomini seminudi che si rivestivano correndo e si mettevano in riga al secco comando dei loro ufficiali. Il che fu un bene; in riga, gli uomini erano sotto controllo; rimasero armi in pugno mentre lo stato maggiore del generale e gli uomini della scorta riportavano l’ordine nella confusione, sollevando la tenda caduta e separando gli attori sanguinanti e senza fiato di quella strana contesa.




Senza fiato uno di loro lo era davvero; il capitano era morto; il manico del coltello da caccia che gli sporgeva dalla gola, era stato ricacciato sotto il mento fino a che si era impigliato nell’angolo della mandibola, e la mano che aveva assestato il colpo era stata incapace di estrarre l’arma. Il morto aveva in mano la sciabola e l’afferrava con una presa che sfidava la forza dei vivi. La lama era striata di rosso fino all’elsa. Rimesso in piedi, il generale si accasciò nuovamente a terra con un gemito e svenne. Oltre ai lividi aveva ricevuto due sciabolate, una nella coscia, l’altra nella spalla.

La spia aveva subito il danno minore. A parte una frattura al braccio destro, le sue ferite erano quelle che ci si procura in una normale zuffa a mani nude.

Ma era stordito e sembrava non rendersi conto di quel che era successo. Si ritrasse da coloro che si stavano occupando di lui, si rannicchiò a terra e pronunciò incomprensibili rimostranze. Il volto, gonfio per i colpi ricevuti e schizzato di sangue, era tuttavia bianco sotto i capelli arruffati, bianco come quello di un cadavere.

- L’uomo non è pazzo, disse il medico rispondendo a una domanda mentre preparava le bende; è in preda al terrore. Chi e che cosa è?





Il soldato Tassman iniziò a spiegare. Era l’occasione della sua vita; non omise nulla che potesse in qualche modo accentuare la propria importanza in relazione agli avvenimenti della serata. Quando ebbe finito la sua storia e fu pronto a ripeterla daccapo, nessuno gli prestò attenzione. Il generale aveva ripreso conoscenza. Si sollevò sul gomito, si guardò intorno, e notata la spia rannicchiata sotto sorveglianza vicino a un fuoco da campo, disse semplicemente:

- Portate quell’uomo in piazza d’armi e fucilatelo.

- Il generale vaneggiava, disse un ufficiale che si trovava nelle vicinanze.

- Il generale non vaneggia, disse l’aiutante maggiore.

- Ho un promemoria scritto di suo pugno in merito alla faccenda; aveva impartito lo stesso ordine ad Hasterlick - con un gesto della mano rivolto all’ufficiale morto e, per Dio! verrà eseguito.





Dieci minuti dopo, il sergente Parker Addison dell’esercito federale, filosofo e persona arguta, venne fucilato da venti uomini mentre, inginocchiato al chiaro di luna, pronunciava parole incoerenti per aver salva la vita.

Quando la scarica risuonò nell’aria pungente della mezzanotte, il generale Clavering, che giaceva bianco e immobile al rosso bagliore del fuoco da campo, aprì i suoi grandi occhi azzurri, posò uno sguardo affabile su chi gli stava intorno e disse:

- Come tutto è silenzio!

Il medico guardò l’aiutante maggiore con espressione grave e significativa. Gli occhi del paziente lentamente si chiusero, e rimase così per qualche attimo; poi, il volto soffuso di un sorriso di ineffabile dolcezza, disse, con voce flebile:

- Penso che questa debba essere la morte ...e spirò.

(A. G. Bierce, Parker Adderson Filosofo)