giuliano

sabato 20 aprile 2019

ACHAB: L'ANIMA DELL'AMMIRAGLIO (2)












































Precedenti capitoli:

Achab...: ovvero l'anima dell'ammiraglio (Primo porto d'attracco...)

Prosegue nel:

Sangue di Dio... (3/4)













Perché in quelle acque e in quella stagione, per parecchi anni di seguito, Moby Dick era stato visto soffermarsi regolarmente per un po’ di tempo, come il sole nel suo giro annuale si ferma per un intervallo prefisso in ognuno dei segni dello Zodiaco. Ed era anche là che aveva avuto luogo la maggior parte degli scontri mortali con la balena bianca; quelle onde erano istoriate con le sue imprese, e là si trovava quel punto tragico dove il vecchio maniaco aveva trovato il pauroso movente della sua vendetta.

Ma Achab, che nel lanciare in questa caccia il suo spirito pensoso calcolava tutto con cautela e vigilava senza tregua, non si sarebbe mai permesso di riporre tutte le sue speranze su quell’unica probabilità culminante di cui si è detto, per quanto essa potesse carezzare quelle speranze; né, insonne come lo teneva il suo giuramento, sarebbe riuscito a tenere tanto quieto il proprio cuore da rinviare ogni ricerca precedente.




Ora il Pequod era partito da Nantucket proprio all’inizio della stagione equatoriale. E quindi nessuno sforzo possibile poteva mettere il capitano in grado di fare la grande traversata a sud, doppiare il Capo Horn, e correre per sessanta gradi di latitudine fino a raggiungere il Pacifico equatoriale in tempo per incrociarvi. Bisognava dunque aspettare la stagione successiva. Ma forse questa data prematura per la partenza del Pequod era stata scelta bene da Achab, che teneva presente tutto questo complesso di cose.

Perché così aveva davanti un intervallo di trecentosessantacinque giorni e notti, un intervallo che invece di sopportare con impazienza a terra poteva impiegare in una caccia mista. E forse la balena bianca, passando le vacanze in mari assai lontani dalle sue zone periodiche di pascolo, avrebbe potuto cacciare fuori la sua fronte grinzosa al largo del Golfo di Persia, o nella Baia del Bengala o nei mari della Cina o in altre acque battute dalla sua specie. Sicché monsoni, pamperi e alisei, lo Harmattan o il Nordovest, tutti i venti tranne il levante e il simun potevano spingere Moby Dick nella scia del Pequod che circumnavigava la terra a zigzag.




Ma anche ammettendo tutto questo, se riflettiamo con distacco e cautela, non sembra forse un’idea da manicomio pensare che nell'oceano immenso una balena solitaria, sia pure a incontrarla, possa essere individuata dal suo cacciatore, come se fosse un mufti dalla barba bianca per le arterie affollate di Costantinopoli?

E invece era possibile.

Perché la fronte particolare di Moby Dick, bianca come la neve, e la sua nivea gobba non potevano che essere inconfondibili. ‘E non l’ho forse marcata, la balena?’ brontolava Achab a se stesso, quando dopo avere ponzato sulle sue carte fino a lungo dopo mezzanotte si rovesciava sullo schienale e si perdeva a sognare:

‘È marcata, come mi può sfuggire? Le sue grosse pinne sono forate e dentellate come le orecchie di una pecora smarrita!’.




E qui la sua mente malata si metteva a correre a perdifiato, finché lo prendevano la fatica, la stanchezza di pensare, e allora soleva uscire all'aperto, sul ponte, per vedere di riprendere forza.

Dio, che estasi di torture sopporta l’uomo consumato da un unico insoddisfatto desiderio di vendicarsi! Dorme coi pugni stretti, e si sveglia coi segni del sangue sulle palme. C’erano delle notti in cui lo cacciavano dalla branda sogni estenuanti e insopportabilmente reali, che ripigliavano le preoccupazioni del giorno e le sviluppavano tra un cozzare di impulsi frenetici, e gliele facevano vorticare all’infinito nel cervello avvampato, finché lo stesso pulsare del cuore gli diventava un’angoscia insopportabile; e allora succedeva a volte che questi spasimi dello spirito gli sollevavano l’essere dalle radici, e pareva aprirsi in lui un abisso da cui erompevano fiamme forcute e lampi, e anime dannate gli facevano segno  di saltare giù con loro.




Quando questo inferno dell’anima gli si spalancava sotto i piedi, un urlo feroce echeggiava per la nave, e Achab si precipitava fuori della cabina con gli occhi sbarrati, come se fuggisse da un letto in fiamme. Eppure questi, forse, invece di essere i sintomi inoccultabili di qualche latente debolezza o paura per le sue stesse decisioni, non erano che i segni lampanti dell’intensità di queste ultime. Perché ciò che lo faceva balzare inorridito dalla branda, in quelle occasioni, non era quell’Achab pazzo, il cacciatore subdolo, tenace e insaziato della balena bianca, che vi si era disteso.

La vera causa era l’anima, il principio vivente ed eterno che restava in lui; e nel sonno, dissociatosi per un tratto dallo spirito individuante che altre volte lo usava come suo veicolo o agente esterno, questo principio cercava istintivamente di sfuggire alla vicinanza bruciante dell’essere frenetico di cui per il momento non era più parte. Ma l’intelletto non esiste se non collegato con l’anima: e perciò nel caso di Achab, che asserviva ogni pensiero e ogni fantasia a un solo massimo scopo, quel proposito lottava contro dei e demoni con la mera forza del suo radicato volere, e si trasformava in una sorta di essere autonomo e indipendente.




Poteva anzi vivere e bruciare sinistramente, mentre la vitalità comune cui era congiunto fuggiva inorridita da quella creatura illegittima e indesiderata. In realtà lo spirito tormentato che gli ardeva negli occhi, quando l’essere che pareva Achab si lanciava fuori dalla cabina, in quel momento non era che una cosa vuota, una creatura informe che vagava nel sonno, e che era sempre un raggio di luce viva ma senza un oggetto da colorare, e quindi, in se stessa, un niente.

Dio ti aiuti, vecchio.

…I tuoi pensieri hanno creato dentro di te una creatura; e all’uomo che a forza di pensare si trasforma in un Prometeo, un avvoltoio divora il cuore per sempre. Un avvoltoio che è la stessa creatura che egli crea…

(Melville)














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