giuliano

venerdì 19 aprile 2019

PARKER ADDERSON,... FILOSOFO (secondo atto)


















Precedenti capitoli:

Parker Adderson, Filosofo (Primo atto) &

I molti morti del generale Wolfe  &

Prosegue in:

...La nave che affonda...&

L'uomo della Natura...













La spia continuò:

- ...Fate fuoco e io mi trovo nello stomaco qualcosa che non ho ingoiato. Cado, ma non sono morto. Dopo mezz’ora di agonia, sono morto. Ma in ogni singolo istante di quella mezz’ora, sono vivo o morto. Non vi è alcun periodo di transizione. Domani mattina, quando sarò impiccato, sarà la stessa cosa; finché sarò cosciente, sarò vivo; quando sarò morto, sarò incosciente. Sembra che la natura abbia disposto le cose nel mio interesse, come le avrei disposte io stesso. E’ così semplice - aggiunse con un sorriso - che sembra quasi non valga la pena essere impiccati.

Al termine di quelle considerazioni, vi fu un lungo silenzio.




Il generale sedeva impassibile, guardando l’uomo in volto, apparentemente non curante di ciò che era stato detto. Era come se gli occhi avessero montato la guardia al prigioniero, mentre la mente era occupata in altre faccende. Poi trasse un lungo e profondo sospiro, rabbrividì come uno che si svegli da un sogno spaventoso:

 - La morte è orribile!

- esclamò quel ministro di morte.

- Era orribile per i nostri antenati selvaggi

- la spia disse con gravità,

- perché non erano abbastanza intelligenti da separare l’idea di coscienza da quella delle forme fisiche in cui si manifesta; allo stesso modo in cui un livello di intelligenza inferiore, ad esempio quello della scimmia, può essere incapace di immaginare una casa senza abitanti, e vedendo una baracca in rovina crede che sia occupata da qualcuno che soffre. Per noi è orribile perché abbiamo ereditato la tendenza a pensarla in questo modo, e giustifichiamo il concetto con delle teorie selvagge e fantasiose su un altro mondo; proprio come i nomi dei luoghi danno origine a leggende che li spiegano e gli atteggiamenti irrazionali a filosofie che li giustificano. Voi potete impiccarmi, generale, ma il vostro potere di farmi del male finisce qui, non potete condannarmi al paradiso.




Il generale parve non aver udito; le chiacchiere della spia avevano semplicemente deviato i suoi pensieri in un canale sconosciuto dove seguirono una volontà propria e giunsero a conclusioni autonome. La tempesta era cessata, e qualcosa del lo spirito solenne della notte si era trasmesso alle sue riflessioni, conferendo loro il fosco tocco di un terrore soprannaturale. Vi era forse un elemento di preveggenza:

- Non mi piacerebbe morire - disse -, non questa notte.

Fu interrotto, ammesso che avesse davvero l’intenzione di continuare a parlare, dall’entrata di uno degli ufficiali del suo stato maggiore, il capitano Hasterlick, l’ufficiale di polizia militare. Questo lo fece rientrare in sé; lo sguardo assente svanì dal suo volto.

- Capitano,

disse, rispondendo al saluto dell’ufficiale,

- quest’uomo è una spia yankee catturata nelle nostre linee con dei documenti compromettenti su di sé. Ha confessato. Com’è il tempo?




- La tempesta è cessata, signore, e splende la luna.

- Bene; prendete un plotone, conducete immediatamente il prigioniero alla piazza d’armi, e fucilatelo.

Un grido acuto proruppe dalle labbra della spia.

Si slanciò in avanti, allungò il collo, spalancò gli occhi, si afferrò le mani.

- Buon Dio! gridò con voce rauca, quasi incapace di articolare i suoni.

- Non direte sul serio! Dimenticate ...non devo morire prima di mattina.

- Non ho parlato di mattina, disse freddamente il generale; è un’idea che ti sei fatta tu. Morirai adesso.




- Ma generale; vi prego ...vi imploro; devo essere impiccato! Ci vorrà un po’ di tempo per erigere una forca, due ore, un’ora. Le spie vengono impiccate; ho dei diritti secondo la legge militare. Per amor del cielo, generale, considera te quant’è breve…

- Capitano, eseguite gli ordini.

L’ufficiale sguainò la sciabola e fissato lo sguardo sul prigioniero, indicò silenziosamente l’apertura della tenda.

Il prigioniero esitò!

L’ufficiale lo afferrò per il colletto e lo spinse gentilmente in avanti. Non appena si avvicinò al palo della tenda, l’uomo vi si slanciò con frenesia e con l’agilità di un gatto agguantò il manico del coltello da caccia, strappò l’arma dal fodero e spinto in parte il capi tano, si avventò sul generale con la furia di un pazzo, lo gettò a terra e gli cadde addosso a corpo morto. Il tavolo si ribaltò, la candela si spense ed essi lottarono alla cieca nel buio. L’ufficiale della polizia militare si slanciò in aiuto del superiore e fu a sua volta tirato verso i due corpi che si dibattevano.

Maledizioni e grida indistinte di dolore e rabbia provennero dal caotico intreccio di membra e di corpi; la tenda crollò su di loro e nel viluppo e nell’intreccio di pieghe la zuffa andò avanti.




Il soldato Tassman, di ritorno dall’incarico, intuì vagamente la situazione, gettò a terra il fucile e acchiappando a casaccio la tela che si dimenava cercò invano di tirar fuori gli uomini che vi erano sotto; e la sentinella che andava su e giù davanti alla tenda, e che non avrebbe osato abbandonare il proprio giro d’ispezione, cascasse il mondo, sparò un colpo.

Lo scoppio dette l’allarme al campo: i tamburi rullarono a lungo, le trombe suonarono l’adunata e fecero uscire a frotte, al chiaro di luna, uomini seminudi che si rivestivano correndo e si mettevano in riga al secco comando dei loro ufficiali. Il che fu un bene; in riga, gli uomini erano sotto controllo; rimasero armi in pugno mentre lo stato maggiore del generale e gli uomini della scorta riportavano l’ordine nella confusione, sollevando la tenda caduta e separando gli attori sanguinanti e senza fiato di quella strana contesa.




Senza fiato uno di loro lo era davvero; il capitano era morto; il manico del coltello da caccia che gli sporgeva dalla gola, era stato ricacciato sotto il mento fino a che si era impigliato nell’angolo della mandibola, e la mano che aveva assestato il colpo era stata incapace di estrarre l’arma. Il morto aveva in mano la sciabola e l’afferrava con una presa che sfidava la forza dei vivi. La lama era striata di rosso fino all’elsa. Rimesso in piedi, il generale si accasciò nuovamente a terra con un gemito e svenne. Oltre ai lividi aveva ricevuto due sciabolate, una nella coscia, l’altra nella spalla.

La spia aveva subito il danno minore. A parte una frattura al braccio destro, le sue ferite erano quelle che ci si procura in una normale zuffa a mani nude.

Ma era stordito e sembrava non rendersi conto di quel che era successo. Si ritrasse da coloro che si stavano occupando di lui, si rannicchiò a terra e pronunciò incomprensibili rimostranze. Il volto, gonfio per i colpi ricevuti e schizzato di sangue, era tuttavia bianco sotto i capelli arruffati, bianco come quello di un cadavere.

- L’uomo non è pazzo, disse il medico rispondendo a una domanda mentre preparava le bende; è in preda al terrore. Chi e che cosa è?





Il soldato Tassman iniziò a spiegare. Era l’occasione della sua vita; non omise nulla che potesse in qualche modo accentuare la propria importanza in relazione agli avvenimenti della serata. Quando ebbe finito la sua storia e fu pronto a ripeterla daccapo, nessuno gli prestò attenzione. Il generale aveva ripreso conoscenza. Si sollevò sul gomito, si guardò intorno, e notata la spia rannicchiata sotto sorveglianza vicino a un fuoco da campo, disse semplicemente:

- Portate quell’uomo in piazza d’armi e fucilatelo.

- Il generale vaneggiava, disse un ufficiale che si trovava nelle vicinanze.

- Il generale non vaneggia, disse l’aiutante maggiore.

- Ho un promemoria scritto di suo pugno in merito alla faccenda; aveva impartito lo stesso ordine ad Hasterlick - con un gesto della mano rivolto all’ufficiale morto e, per Dio! verrà eseguito.





Dieci minuti dopo, il sergente Parker Addison dell’esercito federale, filosofo e persona arguta, venne fucilato da venti uomini mentre, inginocchiato al chiaro di luna, pronunciava parole incoerenti per aver salva la vita.

Quando la scarica risuonò nell’aria pungente della mezzanotte, il generale Clavering, che giaceva bianco e immobile al rosso bagliore del fuoco da campo, aprì i suoi grandi occhi azzurri, posò uno sguardo affabile su chi gli stava intorno e disse:

- Come tutto è silenzio!

Il medico guardò l’aiutante maggiore con espressione grave e significativa. Gli occhi del paziente lentamente si chiusero, e rimase così per qualche attimo; poi, il volto soffuso di un sorriso di ineffabile dolcezza, disse, con voce flebile:

- Penso che questa debba essere la morte ...e spirò.

(A. G. Bierce, Parker Adderson Filosofo)





















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