giuliano

sabato 21 dicembre 2019

L'EROE ED EREMITA (per caso) (6)













































Precedenti capitoli:

Eremiti (per necessità) (e/o) per caso (5/1)

Prosegue con...:

Le buone maniere...&

Nella girandola dei pazzi...














Una ricerca spirituale?

La parola è troppo grossa.

Un’esperienza?

In senso scientifico, sì.

La capanna è un laboratorio. Un giaciglio dove far precipitare il desiderio di libertà, di silenzio e di solitudine. Un campo sperimentale dove inventare una vita al rallentatore. I teorici dell’ecologia auspicano la decrescita. Non potendo perseguire una crescita infinita in un mondo le cui risorse si vanno esaurendo, dobbiamo rallentare i nostri ritmi, semplificare le nostre esistenze, ridimensionare le nostre esigenze. Possiamo accettare questi cambiamenti spontaneamente; domani le crisi economiche ce li imporranno.

La decrescita non sarà mai un’opzione politica.

Per attuarla servirebbe un despota illuminato.

Quale capo di stato avrebbe mai il coraggio d’imporre al suo popolo un rimedio simile?

Come riuscirebbe a convertire le masse alla virtù dell’ascesi? A convincere miliardi di europei, di cinesi, di indiani, che leggere Seneca è meglio che rimpinzarsi di cheeseburger? L’utopia della decrescita è un espediente poetico per gli individui che intendono seguire i dettami della dietetica.

La capanna è un terreno perfetto per costruirsi una vita fondata su una lussuosa sobrietà. La sobrietà dell’eremita consiste nel non lasciarsi sopraffare dagli oggetti e dalla presenza dei propri simili, nel disabituarsi a quello che un tempo gli era necessario. Il lusso dell’eremita è la bellezza. Dovunque posi lo sguardo, scopre uno splendore assoluto. Il corso delle ore non viene mai interrotto (a parte l’incidente dell’altro ieri). La tecnica non lo imprigiona nel cerchio di fuoco dei bisogni che essa stessa ha creato.

Quello del rifugiarsi nelle foreste è uno spartito che può essere eseguito solo da un numero limitato di interpreti. Gli anacoreti formano una élite. Lo scrive anche Aldo Leopold nel suo Almanacco dì un mondo semplice che ho cominciato a rileggere stamattina, subito dopo aver acceso la stufa:

‘Ogni forma di protezione della vita selvaggia è fatalmente destinata a fallire. Infatti per amare abbiamo bisogno di vedere e accarezzare, ma dopo che un numero abbastanza alto di persone ha visto e accarezzato, non resta più niente da amare’.

Quando le moltitudini invadono le foreste, è solo per abbatterle a colpi d’ascia. La vita nei boschi non risolve il problema ecologico. È un fenomeno che contiene in sé il suo contrario. Le masse, trasferendosi nei boschi, vi porterebbero i mali a cui credevano di sfuggire abbandonando le città. Non esiste una via d’uscita. Luce bianca. In lontananza, il camion di un pescatore. Lungo colloquio con la mia finestra. Sul finire della mattinata, lancio nella neve cinque o sei bottiglie di vodka Kedrovaja. Le ritroverò, di qui a tre mesi, al momento del disgelo: i colli spunteranno dalla crosta gelata annunciando il ritorno del bel tempo meglio di quanto non facciano i bucaneve, dono dell’inverno all’eterno ritorno della primavera.

Un pomeriggio dedicato a riordinare e a fare riparazioni. Sigillo la tettoia della capanna inchiodandovi delle tavole e finisco di sistemare le casse di viveri. Ma poi? Quando non ci saranno più tavole da inchiodare e casse da mettere a posto? Il sole sparisce dietro le creste delle montagne alle cinque del pomeriggio. L’ombra dilaga nella radura e la capanna diventa buia. Trovo un antidoto immediato all’angoscia: qualche passo sul ghiaccio. Basta un’occhiata all’orizzonte per convincermi che ho fatto bene a scegliere questa capanna e questa vita.

Non so se la bellezza salverà il mondo, ma salva la mia serata.

23 febbraio: Viaggio nella vertigine, titolo del racconto di Evghenija Ghinzburg sugli anni dei gulag. Ne leggo qualche pagina al caldo, nel sacco a pelo. Al risveglio le giornate mi stanno davanti, vergini, vogliose, mi si offrono come pagine bianche. E nel mio magazzino ne ho decine e decine di riserva. Di loro mi appartiene ogni secondo. Sono libero di disporne come voglio, di farne dei capitoli di luce, di sonno o di malinconia. Nessuno può alterare il corso di un’esistenza come questa. I giorni sono esseri di creta da modellare. Sono il sovrano di un harem virtuale. Conoscevo la vertigine verticale dello scalatore aggrappato alla parete, atterrito dalla vista dell’abisso. Ricordavo la vertigine orizzontale del viaggiatore nella steppa, frastornato dalle linee di fuga. Avevo provato la vertigine dell’ubriaco che crede di aver avuto un’idea geniale: la sente crescere in sé ma il suo cervello si rifiuta di formularla correttamente.

Adesso scopro la vertigine dell’eremita, la paura del tempo vuoto. La stessa morsa alla bocca dello stomaco che provavo in parete - ma stavolta non per la paura di quello che c’è in basso, bensì di quello che mi sta davanti. Sono libero di fare qualunque cosa in un mondo in cui non c’è niente da fare. Guardo l’icona di san Serafino. Lui aveva Dio. Dio, mai sazio delle preghiere degli uomini, è un ottimo passatempo.

E io?

Io ho la scrittura.

Dopo il tè del mattino, passeggio sul lago. Il ghiaccio non scricchiola più perché il termometro si mantiene basso. Il freddo stringe tutto il sistema in una morsa. Avanzo verso il largo. Sulla neve, con un bastone, traccio la prima poesia di una serie di ‘haiku delle nevi’: Punti di passi sulla neve: la marcia cuce il tessuto bianco. La poesia scritta sulla neve ha di buono che non dura. I versi saranno cancellati dal vento. Una linea di frattura ha spaccato il ghiaccio a due chilometri e mezzo dalla riva. Blocchi traslucidi si accavallano sulla faglia. La stria corre parallela alla riva e dalla fessura sale un rumore gorgogliante.

Il Bajkal soffre.

Costeggio la spiaggia mantenendomi a distanza. Ci vuole poco a finire in acqua. Mi si accendono nella mente le immagini dei miei cari. Per un misterioso processo spirituale, i volti mi si affollano nella memoria. La solitudine è una patria popolata dal ricordo degli altri: pensare a loro consola dell’assenza. I miei sono là, in una piega della memoria: li vedo.

Gli ortodossi credono nella presenza dell’Essere che si è calato nell’immagine. L’essenza di Dio scorre dentro la materia delle icone, si incarna nell’immagine e nei riflessi della pittura a olio. Il quadro subisce una trasmutazione. Al ritorno, mi decido a montare il mio altarino. Taglio una tavoletta di dieci centimetri per trenta, la inchiodo accanto al tavolo da lavoro e vi dispongo tre immagini di san Serafino di Sarov che ho comprato a Irkutsk.

Serafino ha passato quindici anni in una foresta della Russia occidentale; alla fine dava da mangiare agli orsi e parlava la lingua dei cervi. Vicino alla sua immagine metto un’icona di san Nicola, una vergine nera e infine lo zar Nicola Il canonizzato dal patriarca Alessio e raffigurato nello splendore delle vesti imperiali. Accendo una candela e un Partagas serie 4. Attraverso il fumo dell’avana, guardo la fiamma illuminare le dorature delle cornici. Il sigaro, incenso profano. Ho finito di mettere a posto la capanna. Ho sistemato l’ultima cassa. Fumo sdraiato sul letto pensando che ho dimenticato solo una cosa: un bel libro di storia della pittura per contemplare, ogni tanto, un volto.

Per ricordarmi come è fatto, non ho che lo specchio.

(S. Tesson, nelle foreste siberiane)













mercoledì 18 dicembre 2019

(EREMITI) NELLA TAIGA (2)








































Precedente capitolo:

Eremiti...

'Dossier Eremitico' (completo...)

Prosegue nella...:

Legge immutabile della Natura (4)













DAL LIBRO DEL GIORNALISTA:



Per due ore sorvolammo la taiga (e ce ne innamorammo subito), levandoci sempre più in alto nel cielo. A questo ci costringeva l’altezza crescente delle montagne. Dolci e tranquilli nei dintorni di Abaza, i monti diventavano a poco a poco severi e inquietanti. Le verdi e ridenti vallate inondate dal sole cominciarono a restringersi gradualmente e verso la fine del percorso si mutarono in voragini scoscese, con in fondo i fili argentati di fiumi e ruscelli.

‘Eccoci arrivati, mi urlò il comandante dell’elicottero’.

Nella buia valle il fiume riluceva come picchiettato di vetrini al sole, l’elicottero lo sorvolava sempre più basso… Atterrammo su un ghiaione presso la base dei geologi. Sapevamo che da lì fino all’abitazione dei Lykov bisognava risalire quindici chilometri lungo il fiume e poi su per la montagna. Ma avevamo bisogno di una guida. Trovata la guida rieccoci in aria, sorvoliamo l’Abakan riproducendo nella stretta gola le volute del fiume.

Atterrare vicino alla casa dei Lykov è impossibile.





E’ situata sul fianco della montagna. E, a parte il loro orto, nella taiga non c’è una sola radura. Tuttavia da qualche parte nelle vicinanze c’è un acquitrino di montagna su cui non si può atterrare, ma su cui si può scendere molto bassi. Facendo ben attenzione i piloti descrivono un cerchio dopo l’altro per avvicinarsi alla radura dove, sull’erba, luccica pericolosamente l’acqua. Durante queste manovre vediamo sotto di noi quello stesso orto così come era stato scoperto dall’alto.

Orto!

Delle strisce di solchi di patate lungo il declivio, e più giù ancora delle altre verdure. Accanto, la catapecchia annerita.  Quando abbiamo descritto il secondo cerchio abbiamo visto due figurine vicino alla capanna: un uomo e una donna. Osservavano l’elicottero riparandosi con una mano dal sole. Per loro la comparsa di questa macchina significa l’arrivo di esseri umani. Sospesi sull’acquitrino gettammo nell’erba il nostro bagaglio, poi saltammo anche noi sul cuscinetto di muschio bagnato.

Un minuto dopo, senza bagnare i pattini d’atterraggio nell’acquitrino, l’elicottero si sollevò elastico per nascondersi subito dietro la cresta boscosa della montagna.

Silenzio…




Un silenzio assordante, ben noto a chiunque si sia lanciato da un elicottero. E proprio qui sull’acquitrino Erofej confermò la triste notizia giuntaci ad Abaza: della famiglia dei Lykov erano rimasti solo due persone: il vecchio e la figlia minore Agaf’ja. Dmitrij, Savin e Natal’ja erano morti l’autunno scorso uno dietro l’altro, praticamente a catena.

‘Karp Osipovic! Siete vivo?’.

Chiamò Erofej avvicinandosi alla porta il cui stipite superiore gli arrivava sotto la spalla.

Qualcuno si mosse nell’izba. La porta cigolò e vedemmo emergere al sole un vecchietto. Lo avevamo svegliato. Si stropicciò gli occhi, li strizzò, si passò il palmo lungo la barba arruffata e infine esclamò:

‘Signore, Erofej!’…




Era chiaro che il vecchio era contento dell’incontro, mala mano non la diede a nessuno. Avvicinandosi incrociò le braccia sul petto e si inchinò a ciascuno dei presenti.

E noi aspettavamo, aspettavamo. Abbiamo pensato che fosse un elicottero dei pompieri. E ci siamo messi tutti tristi a dormire. Il vecchio riconobbe anche Nikolaj Ustinovic, che era stato da lui l’anno prima.

‘E questo è un ospite di Mosca. Un mio amico. Si interessa alla vostra vita’,

…disse Erofej.

Il vecchio si inchinò con fare circospetto nella mia direzione:

‘Siate il benvenuto, siate il benvenuto’.

(Vasilij Peskov, Eremiti nella Taiga)






L’APPELLO DELL’EREMITA (2014)



Quella dell’eremita è stata da sempre una figura ambigua, vista con un misto di timore e fascinazione.

Ma esistono eremiti contemporanei?

L’uomo è un animale sociale, e fin dalla notte dei tempi si è organizzato in forme di vita comunitaria, dalle tribù di cacciatori-raccoglitori alle metropoli contemporanee. La mente dell’uomo soffre dell’assenza prolungata di contatti con i propri simili, e in molte culture ed epoche il bando e l’esilio, cioè l’essere estromessi dalla comunità e lasciati da soli all’‘esterno’, in quelle che per gran parte delle storia umana erano terre selvagge e inospitali, erano considerati punizioni peggiori alla morte.

Eppure, se la condizione del solitario e del ‘bandito’ dalla comunità è stata associata ai criminali e agli emarginati, basti pensare alla vicenda biblica di Caino, il primo assassino, dall’altra la solitudine è stata, in certi casi, prerogativa di individui superiori, che estraniandosi dal ‘mondo’ (nel senso dell’ambiente delle relazioni sociali) si sono posti per certi versi al di sopra di esso.





La solitudine è da sempre considerata una condizione ideale per l’introspezione, cioè per l’esame del proprio animo, lontano dalle distrazioni e dal ‘rumore di fondo’ prodotto dalla altre persone. Ma è anche una delle pratiche preferite dagli asceti e dagli ‘uomini santi’ per elevarsi spiritualmente e per entrare in contatto con l’‘altro’ mondo, quello della divinità, dei morti e degli Spiriti della Natura. Pensiamo agli sciamani, che si isolavano per lunghi periodi in luoghi solitari e inospitali per comunicare con il proprio spirito-guida.

Ma anche molte figure chiave delle grandi religioni sono passate, secondo le rispettive tradizioni, attraverso la prova cruciale della meditazione solitaria, da Gesù, che passò quaranta giorni e quaranta notti nel deserto, a Buddha, che visse per anni nella foresta nutrendosi solo di un chicco di riso al giorno. Il ‘mondo’, cioè l’insieme di coloro che sono rimasti nella comunità, ha sempre considerato con un misto di timore, fascinazione e rispetto la figura di chi si isola volontariamente dal resto dei propri simili, tanto per la sua supposta vicinanza alle forze della natura e della divinità quanto per la forza d’animo fuori dal comune che sicuramente doveva possedere chi sceglieva di intraprendere una strada così onerosa.





La tradizione cristiana è ricca di saggi, santi e monaci che si isolano dal mondo per cercare un maggiore contatto con il divino, e per loro è stata coniata la parola ‘eremita’, dal greco ‘erēmitēs’, cioè ‘abitante del deserto’.

La figura dell’eremita ha giocato un ruolo importante nella cultura europea dei secoli passati, ispirando innumerevoli storie e opere dell’arte e della letteratura. Con l’avvento dell’età moderna è nata anche la figura dell’‘eremita laico’, incarnata dal naufrago Robinson Crusoe, uscito dalla penna dello scrittore inglese Daniel Defoe. Sebbene Robinson si ritrovi isolato dal mondo non per motivi religiosi ma per un incidente, nondimeno vive una profonda trasformazione spirituale nel corso della sua avventura, e ritorna nel ‘mondo’ come un uomo nuovo.

Il caso tornato agli onori della cronaca negli ultimi giorni in riferimento agli ‘Eremiti’ è  quello della russa Agafia Lykova, una donna nata e vissuta in una capanna nel mezzo della taiga siberiana, a circa 250 km dalla città più vicina, dove tuttora risiede all’età di 71 anni. I suoi genitori appartenevano al movimento dei Vecchi credenti, una fazione tradizionalista della Chiesa ortodossa, e nel 1936 fuggirono in Siberia per scampare alle persecuzioni staliniste.





Per i primi 35 anni della sua vita Agafia non incontrò persone che non fossero i genitori o i fratelli. Le uniche conoscenze che Agafia aveva del mondo esterno venivano dai racconti di suo padre. La famiglia visse completamente isolata dal mondo per decenni, sopravvivendo grazie alla caccia, fino a quando non fu scoperta per caso da un gruppo di geologi che stavano facendo una ricerca nell’area. Scienziati e viaggiatori visitarono la famiglia negli anni successivi, scoprendo che i suoi membri, a causa del lungo isolamento, parlavano un dialetto russo talmente distorto da risultare quasi incomprensibile agli estranei.

Negli anni Ottanta il viaggiatore e giornalista Vasiliy Peskov pubblicò alcuni articoli su Agafia e la sua famiglia, e lei divenne una piccola celebrità. Il governo sovietico si offrì di farle fare un giro della Russia a sue spese, e durante il viaggio Agafia vide per la prima volta dei cavalli e delle automobili, e assistette per la prima volta all’uso del denaro. Dalla morte del padre nel 1988, Agafia è la sola sopravvissuta della famiglia, e continua a risiedere nella casa in cui è nata in mezzo alla foresta siberiana, rifiutandosi di lasciare il suo isolamento nonostante le numerose offerte di accoglienza che le sono giunte da ogni parte del mondo. A dispetto della collocazione remota, Agafia riceve numerose visite durante l’anno da parte di viaggiatori, giornalisti e fotoreporter, che ricambiano la sua ospitalità aiutandola nei compiti ormai troppo pesanti per lei, data l’età avanzata, come raccogliere la legna per il fuoco in previsione del lungo inverno siberiano.

Dotata di un’intelligenza fuori dal comune a detta di coloro che l’anno conosciuta, Agafia accende ancora il fuoco come le ha insegnato suo padre decenni fa, con acciarino e pietra focaia. Qualche settimana fa, Agafia ha dovuto finalmente ammettere il passare degli anni e, in una lettera a un giornale russo, ha lanciato un appello perché qualcuno vada con lei nella taiga, aiutandola nei compiti ormai per lei troppo gravosi, in modo da permetterle di rimanere nella casa dove ha sempre vissuto. Il 20 gennaio il fotografo Vladimir Nad ha risposto all’appello, annunciando che si trasferirà da Agafia per un anno, aiutandola e girando nel contempo un film documentario sulla sua vita. Almeno per un po’ di tempo, dunque, Agafia continuerà a vivere nell’unica casa che ha mai conosciuto…




  

DAL LIBRO DEL GIORNALISTA:



Su queste montagne le notti sono fredde. Non avevamo tende. Agaf’ja e suo padre, osservandoci mentre ci apprestavamo a stenderci vicino al fuoco ‘con quanto ci aveva mandato Dio’ ci invitarono a passare la notte nell’izba. E con la descrizione di questa bisognerà terminare le impressioni della nostra prima giornata.

Curvateci sotto lo stipite della porta sbucammo in un’oscurità quasi completa. La luce azzurra della sera era visibile solo nella finestrella grande quanto due palmi. Dopo che Agaf’ja ebbe acceso una scheggia di legno e l’ebbe fissata nel portaschegge in mezzo all’izba ci fu possibile vedere alla meno peggio l’interno. Persino col lucignolo le pareti erano scure – la fuliggine di molti anni non rifletteva la luce. Anche il soffitto basso era nero come il carbone.

Orizzontalmente sotto il soffitto erano appesi dei bastoni per asciugare i panni. Alla stesa altezza lungo le pareti c’erano degli scaffali per le stoviglie di scorza con le patate secche e i pinoli. In basso lungo le pareti c’erano delle grandi panche. Su queste, come si poteva capire da alcuni stracci, dormivano e adesso si poteva stare seduti. Alla sinistra dell’ingresso lo spazio principale era occupato dalla stufa di pietra. Il camino della stufa, fatto anche quello di lastre di pietra tenute insieme con l’argilla e rivestite con scorza di betulla, non usciva attraverso il tetto, ma dal muro.

D’inverno ci si sarebbero potuti congelare i lupi.





‘Allora abbiamo fabbricato per loro questa stufa a legna. Ancora oggi mi chiedo come abbiamo fatto a trascinarla fin qui…’, disse Erofej, che aveva già pernottato lì più di una volta. In mezzo all’abitazione c’era un tavolino lavorato a colpi d’accetta. Era tutto quello che c’era. Ma si stava stretti. Lo spazio di quella tana era all’incirca di sei passi per cinque, e non si riusciva a capire come sei adulti di entrambi i sessi avessero potuto stringersi lì tutti quegli anni.

Era la miseria…

Il vecchio e Agaf’ja parlavano senza agitazione e con piacere. Ma spesso la conversazione era interrotta dal loro bisogno improvviso di pregare. Voltatisi verso un angolo dove, evidentemente, si trovavano delle icone rese invisibili dall’oscurità, il vecchio e la figlia intonavano a voce alta le loro preghiere, gemevano, sospiravano rumorosamente, sgranavano con le dita i grani della loro lestovka, il rosario usato dai vecchi credenti per tenere il conto delle prosternazioni. La preghiera finiva all’improvviso così come era iniziata, e la conversazione riprendeva dal punto dove era stata interrotta…

…All’ora stabilita il vecchio e la figlia si misero a cena. Mangiarono delle patate che intingevano nel sale macinato grosso. I chicchi di sale caduti sulle ginocchia li raccoglievano con cura e li rimettevano nella saliera. Agaf’ja chiese agli ospiti di portare le loro tazze e vi versò il ‘latte di cembro’. La bevanda, preparata con acqua fredda, aveva un colore simile a quello del tè al latte e forse anche più saporita. Agaf’ja lo aveva preparato di fronte ai nostri occhi: aveva macinato i pinoli in un mortaio di pietra, li aveva mescolati all’acqua in un recipiente di scorza, poi li aveva filtrati…

Agaf’ja non aveva nessuna idea della pulizia.

Il cencio color terra attraverso cui la bevanda era stata filtrata serviva alla padrona di casa anche per pulirsi le mani. Ma che fare, il ‘latte’ lo bevemmo e, procurando ad Agaf’ja un evidente piacere, lodammo sinceramente la sua bevanda.














venerdì 13 dicembre 2019

CHE COSA E' IL TEMPO? (15)






















































Precedenti capitoli:

Che cosa è il Tempo? (14/1)













Che cos’è il tempo?

Salivamo cinque piani vero la luce e ci distribuivamo in tredici file rivolti verso il dio che apre le porte del mattino.

Poi c’era una pausa, quindi arrivava Biehl.

Perché quella pausa?




A un’esplicita domanda sulle sue pause rivoltagli da una delle ragazze brave, Biehl sul momento era rimasto in silenzio. Poi lui, che non diceva mai ‘io’ di se stesso, aveva detto, lentamente e con grande serietà, come stupito della domanda, e forse anche della propria risposta: 

“Quando parlo dovete ascoltare soprattutto le mie pause. Dicono più delle mie parole”.




Questo valeva anche per l’intervallo fra il momento in cui nella sala scendeva il silenzio assoluto e quello in cui lui entrava e saliva SUL PULPITO. Una pausa eloquente, per dirla con parole sue. Poi veniva INTONATO UN CANTO MATTUTINO seguito da una pausa, Biehl recitava un paternostro, pausa, un breve salmo, pausa, un canto patriottico, pausa e fine; a quel punto lasciava la sala come era arrivato, rapido quasi di corsa.

Quali erano i sentimenti in sala mentre ciò avveniva?

Nessun sentimento in particolare, dissi io, era di primo mattino e la gente era stanca, ma non potevamo finirla lì?, Mi stava venendo il mal di testa, ed era tardi, la campanella aveva già suonato, indicai l’ora. Non ancora, disse lei, voleva farmi notare un’altra cosa, cioè il rapporto con il DOLORE.




Nel corso di un esperimento, quando sopravveniva il dolore, come ora il mal di testa, non bisognava mai interrompere e abbandonarlo. Bisognava invece dirigere su di esso la giusta luce dell’attenzione (ciò il male pretende da noi).

Disse così.

La luce dell’attenzione.

Così ci volgemmo verso la PAURA.

Bielh aveva scritto le sue memorie. Lì dentro c’erano i nomi di tutti gli insegnanti che avevano lavorato nella scuola, tutte le volte che ci si era trasferiti in locali migliori e più ampi, una lunga serie di successi e il modo in cui erano stati premiati. Ma nemmeno una parola sul rapporto con gli alunni, e perciò nemmeno SULLA PAURA.




Non una parola, nemmeno nelle pause o fra le righe.

Da principio era incomprensibile. Perché era quella la cosa importante. Non il rispetto o L’AMMIRAZIONE, ….ma la paura. Poi fu chiaro che quella reticenza RIENTRAVA IN UN PIANO PIU’ VASTO.

E allora capii.

All’inizio del mese di gennaio girai tutta Copenaghen in bicicletta per trovare un determinato orologio. Avevo passato più di un anno a scrivere quello che sto raccontando, e avevo sempre rimandato questo impegno: rientrare in una scuola dopo vent’anni. Faceva freddo ed era molto buio, pur essendo giorno c’era un’oscurità notturna. Cominciai a caso, dalla Farimagsgades Skole, forse perché dalla collina del parco intorno alla Biehl si vedeva sempre il campanile della chiesa lì a fianco. L’ufficio della scuola era in una sala dall’ampio soffitto. Rimasi a lungo davanti alle segretarie, poi mi feci coraggio.




‘Potrei vedere l’orologio della vostra scuola?’,

dissi.

‘Sto scrivendo un libro’.

Era collocato molto in alto, incapsulato nel plexiglas, con le cifre rosse digitali. Mi dissero che era stato installato prima del loro arrivo, nessuno ricordava quando, ma funzionava in maniera perfetta, solo di rado veniva un uomo a controllarlo. Mentre ero lì passò un insegnate. Cinque anni prima aveva lavorato alla Frederikssundsvejens Skole, gli pareva che lì avessero un orologio antico.

Così pedalai fin laggiù.




Avevano la stessa scatola di plexiglas con le cifre digitali. Ma mi diedero il numero di telefono dell’ingegnere della scuola. Gli parlai qualche giorno dopo, lavorava alla direzione generale del Genio civile ed era responsabile DELLA MISURAZIONE DEL TEMPO in gran parte delle scuole di Copenaghen. Mi raccontò che nel corso degli ultimi vent’anni la società privata Dansk Tidskontrol era stata incaricata di sostituire la maggior parte dei vecchi orologi con moderni apparecchi al quarzo, che erano molto precisi e non richiedevano quasi nessuna regolazione, e quindi funzionavano praticamente da soli, senza l’intervento umano. Ma aveva sentito dire di un paio del vecchio tipo. Alla Helling Korse alla Prinsesse Charlottes Gades Skole c’erano ancora le vecchie campanelle. Quelle che si usavano negli anni 60 e 70, e che il tempo aveva reso obsolete.

Alla Prinsesse Charlotte Gades Skole lo trovai.

Fu il vicedirettore ad accompagnarmi.




Mi sentivo molto piccolo, mentre lui mi parve più vecchio di una generazione. In seguito mi resi conto che dovevamo essere coetanei. L’orologio era appeso molto in alto e lui mi resse la scala. Era l’orologio che cercavo. L’orologio che avevo visto e toccato una volta, per un attimo di ventidue anni prima.

Un orologio a pendolo Burk a carica manuale.

Aprii il vetro e osservai il meccanismo.

Avrei voluto prendere degli appunti, ma non fu necessario. Era come lo ricordavo (stesso tempo, stesso ritmo… stesse parole). Il vicedirettore, l’ingegnere, le segretarie dell’ufficio, l’insegnante che aveva lavorato alla Frederikssundsvejens Skole, tutti mi hanno dimenticato subito dopo avermi incontrato. Ma mentre eravamo insieme credevano di avere a che fare con un adulto.

Si sbagliavano.

Stavano parlando con un bambino.




Davanti a loro non avevo pelle, niente per coprirmi. Sentivo ogni loro cambiamento di tono, ogni loro sguardo, ne sentivo la fretta e la cortesia, la distrazione e l’incomprensione. Loro mi hanno dimenticato cinque minuti dopo che me ne sono andato,

MA IO LI RICORDERO’ PER SEMPRE.

Entrando in una scuola mi calavo nel bambino che ero ventidue anni fa, e in quella forma incontravo gli adulti. Loro erano protetti. Il tempo li aveva avvolti in una membrana. Erano spiritosi e frettolosi, e non rimanevano minimamente scalfiti dal nostro incontro.

Così era allora, quando andavo alla Biehl, così è adesso, e così sarà sempre.




Intorno agli adulti il tempo si è depositato, con la sua fretta, con la sua noia, le sue ambizioni, la sua amarezza e i suoi obiettivi a lungo termine. Loro non ci vedevano più veramente, e quello che vedono cinque minuti dopo l’hanno già dimenticato.

Mentre noi non abbiamo pelle.

E li ricorderemo per sempre.

Andava così…. alla Biehl.

Noi ricordavamo ogni espressione del volto, ogni insulto e ogni incoraggiamento, ogni osservazione buttata lì, ogni segno di potere e di debolezza. Per loro eravamo la quotidianità, per noi erano senza tempo, cosmici e potenti.

Mi è venuta questa idea: QUANDO PROVI DOLORE, e pensi che la cosa sta crescendo qui, in laboratorio, è inutile, puoi reagire pensando che forse è anche l’unico modo che hai per dire come appariva il mondo.

Cose da adulti.

Cose precise, esatte.

Queste, certo, non mancano. Anzi, rappresentano tutto quello che ci circonda. Ma sentire senza pelle è possibile, forse, solo in condizioni simili a quelle del laboratorio.

(P. Hoeg, I quasi adatti)