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Eremiti (per necessità) (e/o) per caso (5/1)
Prosegue con...:
Le buone maniere...&
Nella girandola dei pazzi...
Una ricerca
spirituale?
La parola è
troppo grossa.
Un’esperienza?
In senso
scientifico, sì.
La capanna
è un laboratorio. Un giaciglio dove far precipitare il desiderio di libertà, di
silenzio e di solitudine. Un campo sperimentale dove inventare una vita al rallentatore.
I teorici dell’ecologia auspicano la decrescita. Non potendo perseguire una
crescita infinita in un mondo le cui risorse si vanno esaurendo, dobbiamo
rallentare i nostri ritmi, semplificare le nostre esistenze, ridimensionare le
nostre esigenze. Possiamo accettare questi cambiamenti spontaneamente; domani
le crisi economiche ce li imporranno.
La
decrescita non sarà mai un’opzione politica.
Per
attuarla servirebbe un despota illuminato.
Quale capo
di stato avrebbe mai il coraggio d’imporre al suo popolo un rimedio simile?
Come
riuscirebbe a convertire le masse alla virtù dell’ascesi? A convincere miliardi
di europei, di cinesi, di indiani, che leggere Seneca è meglio che rimpinzarsi
di cheeseburger? L’utopia della decrescita è un espediente poetico per gli
individui che intendono seguire i dettami della dietetica.
La capanna
è un terreno perfetto per costruirsi una vita fondata su una lussuosa sobrietà.
La sobrietà dell’eremita consiste nel non lasciarsi sopraffare dagli oggetti e dalla
presenza dei propri simili, nel disabituarsi a quello che un tempo gli era
necessario. Il lusso dell’eremita è la bellezza. Dovunque posi lo sguardo, scopre
uno splendore assoluto. Il corso delle ore non viene mai interrotto (a parte
l’incidente dell’altro ieri). La tecnica non lo imprigiona nel cerchio di fuoco
dei bisogni che essa stessa ha creato.
Quello del
rifugiarsi nelle foreste è uno spartito che può essere eseguito solo da un
numero limitato di interpreti. Gli anacoreti formano una élite. Lo scrive anche
Aldo Leopold nel suo Almanacco dì un mondo semplice che ho cominciato a rileggere
stamattina, subito dopo aver acceso la stufa:
‘Ogni forma
di protezione della vita selvaggia è fatalmente destinata a fallire. Infatti per
amare abbiamo bisogno di vedere e accarezzare, ma dopo che un numero abbastanza
alto di persone ha visto e accarezzato, non resta più niente da amare’.
Quando le
moltitudini invadono le foreste, è solo per abbatterle a colpi d’ascia. La vita
nei boschi non risolve il problema ecologico. È un fenomeno che contiene in sé
il suo contrario. Le masse, trasferendosi nei boschi, vi porterebbero i mali a
cui credevano di sfuggire abbandonando le città. Non esiste una via d’uscita. Luce
bianca. In lontananza, il camion di un pescatore. Lungo colloquio con la mia finestra.
Sul finire della mattinata, lancio nella neve cinque o sei bottiglie di vodka
Kedrovaja. Le ritroverò, di qui a tre mesi, al momento del disgelo: i colli spunteranno
dalla crosta gelata annunciando il ritorno del bel tempo meglio di quanto non
facciano i bucaneve, dono dell’inverno all’eterno ritorno della primavera.
Un
pomeriggio dedicato a riordinare e a fare riparazioni. Sigillo la tettoia della
capanna inchiodandovi delle tavole e finisco di sistemare le casse di viveri.
Ma poi? Quando non ci saranno più tavole da inchiodare e casse da mettere a posto?
Il sole sparisce dietro le creste delle montagne alle cinque del pomeriggio.
L’ombra dilaga nella radura e la capanna diventa buia. Trovo un antidoto
immediato all’angoscia: qualche passo sul ghiaccio. Basta un’occhiata all’orizzonte
per convincermi che ho fatto bene a scegliere questa capanna e questa vita.
Non so se
la bellezza salverà il mondo, ma salva la mia serata.
23 febbraio:
Viaggio nella vertigine, titolo del racconto di Evghenija Ghinzburg sugli anni
dei gulag. Ne leggo qualche pagina al caldo, nel sacco a pelo. Al risveglio le
giornate mi stanno davanti, vergini, vogliose, mi si offrono come pagine
bianche. E nel mio magazzino ne ho decine e decine di riserva. Di loro mi appartiene
ogni secondo. Sono libero di disporne come voglio, di farne dei capitoli di
luce, di sonno o di malinconia. Nessuno può alterare il corso di un’esistenza
come questa. I giorni sono esseri di creta da modellare. Sono il sovrano di un harem
virtuale. Conoscevo la vertigine verticale dello scalatore aggrappato alla parete,
atterrito dalla vista dell’abisso. Ricordavo la vertigine orizzontale del
viaggiatore nella steppa, frastornato dalle linee di fuga. Avevo provato la
vertigine dell’ubriaco che crede di aver avuto un’idea geniale: la sente
crescere in sé ma il suo cervello si rifiuta di formularla correttamente.
Adesso scopro
la vertigine dell’eremita, la paura del tempo vuoto. La stessa morsa alla bocca
dello stomaco che provavo in parete - ma stavolta non per la paura di quello
che c’è in basso, bensì di quello che mi sta davanti. Sono libero di fare
qualunque cosa in un mondo in cui non c’è niente da fare. Guardo l’icona di san
Serafino. Lui aveva Dio. Dio, mai sazio delle preghiere degli uomini, è un
ottimo passatempo.
E io?
Io ho la
scrittura.
Dopo il tè
del mattino, passeggio sul lago. Il ghiaccio non scricchiola più perché il
termometro si mantiene basso. Il freddo stringe tutto il sistema in una morsa.
Avanzo verso il largo. Sulla neve, con un bastone, traccio la prima poesia di
una serie di ‘haiku delle nevi’: Punti di passi sulla neve: la marcia cuce il
tessuto bianco. La poesia scritta sulla neve ha di buono che non dura. I versi
saranno cancellati dal vento. Una linea di frattura ha spaccato il ghiaccio a
due chilometri e mezzo dalla riva. Blocchi traslucidi si accavallano sulla
faglia. La stria corre parallela alla riva e dalla fessura sale un rumore
gorgogliante.
Il Bajkal
soffre.
Costeggio
la spiaggia mantenendomi a distanza. Ci vuole poco a finire in acqua. Mi si
accendono nella mente le immagini dei miei cari. Per un misterioso processo
spirituale, i volti mi si affollano nella memoria. La solitudine è una patria
popolata dal ricordo degli altri: pensare a loro consola dell’assenza. I miei
sono là, in una piega della memoria: li vedo.
Gli
ortodossi credono nella presenza dell’Essere che si è calato nell’immagine.
L’essenza di Dio scorre dentro la materia delle icone, si incarna nell’immagine
e nei riflessi della pittura a olio. Il quadro subisce una trasmutazione. Al
ritorno, mi decido a montare il mio altarino. Taglio una tavoletta di dieci
centimetri per trenta, la inchiodo accanto al tavolo da lavoro e vi dispongo
tre immagini di san Serafino di Sarov che ho comprato a Irkutsk.
Serafino ha
passato quindici anni in una foresta della Russia occidentale; alla fine dava
da mangiare agli orsi e parlava la lingua dei cervi. Vicino alla sua immagine
metto un’icona di san Nicola, una vergine nera e infine lo zar Nicola Il
canonizzato dal patriarca Alessio e raffigurato nello splendore delle vesti
imperiali. Accendo una candela e un Partagas serie 4. Attraverso il fumo dell’avana,
guardo la fiamma illuminare le dorature delle cornici. Il sigaro, incenso
profano. Ho finito di mettere a posto la capanna. Ho sistemato l’ultima cassa.
Fumo sdraiato sul letto pensando che ho dimenticato solo una cosa: un bel libro
di storia della pittura per contemplare, ogni tanto, un volto.
Per
ricordarmi come è fatto, non ho che lo specchio.
(S. Tesson, nelle foreste siberiane)
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