giuliano

sabato 21 dicembre 2019

L'EROE ED EREMITA (per caso) (6)













































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Le buone maniere...&

Nella girandola dei pazzi...














Una ricerca spirituale?

La parola è troppo grossa.

Un’esperienza?

In senso scientifico, sì.

La capanna è un laboratorio. Un giaciglio dove far precipitare il desiderio di libertà, di silenzio e di solitudine. Un campo sperimentale dove inventare una vita al rallentatore. I teorici dell’ecologia auspicano la decrescita. Non potendo perseguire una crescita infinita in un mondo le cui risorse si vanno esaurendo, dobbiamo rallentare i nostri ritmi, semplificare le nostre esistenze, ridimensionare le nostre esigenze. Possiamo accettare questi cambiamenti spontaneamente; domani le crisi economiche ce li imporranno.

La decrescita non sarà mai un’opzione politica.

Per attuarla servirebbe un despota illuminato.

Quale capo di stato avrebbe mai il coraggio d’imporre al suo popolo un rimedio simile?

Come riuscirebbe a convertire le masse alla virtù dell’ascesi? A convincere miliardi di europei, di cinesi, di indiani, che leggere Seneca è meglio che rimpinzarsi di cheeseburger? L’utopia della decrescita è un espediente poetico per gli individui che intendono seguire i dettami della dietetica.

La capanna è un terreno perfetto per costruirsi una vita fondata su una lussuosa sobrietà. La sobrietà dell’eremita consiste nel non lasciarsi sopraffare dagli oggetti e dalla presenza dei propri simili, nel disabituarsi a quello che un tempo gli era necessario. Il lusso dell’eremita è la bellezza. Dovunque posi lo sguardo, scopre uno splendore assoluto. Il corso delle ore non viene mai interrotto (a parte l’incidente dell’altro ieri). La tecnica non lo imprigiona nel cerchio di fuoco dei bisogni che essa stessa ha creato.

Quello del rifugiarsi nelle foreste è uno spartito che può essere eseguito solo da un numero limitato di interpreti. Gli anacoreti formano una élite. Lo scrive anche Aldo Leopold nel suo Almanacco dì un mondo semplice che ho cominciato a rileggere stamattina, subito dopo aver acceso la stufa:

‘Ogni forma di protezione della vita selvaggia è fatalmente destinata a fallire. Infatti per amare abbiamo bisogno di vedere e accarezzare, ma dopo che un numero abbastanza alto di persone ha visto e accarezzato, non resta più niente da amare’.

Quando le moltitudini invadono le foreste, è solo per abbatterle a colpi d’ascia. La vita nei boschi non risolve il problema ecologico. È un fenomeno che contiene in sé il suo contrario. Le masse, trasferendosi nei boschi, vi porterebbero i mali a cui credevano di sfuggire abbandonando le città. Non esiste una via d’uscita. Luce bianca. In lontananza, il camion di un pescatore. Lungo colloquio con la mia finestra. Sul finire della mattinata, lancio nella neve cinque o sei bottiglie di vodka Kedrovaja. Le ritroverò, di qui a tre mesi, al momento del disgelo: i colli spunteranno dalla crosta gelata annunciando il ritorno del bel tempo meglio di quanto non facciano i bucaneve, dono dell’inverno all’eterno ritorno della primavera.

Un pomeriggio dedicato a riordinare e a fare riparazioni. Sigillo la tettoia della capanna inchiodandovi delle tavole e finisco di sistemare le casse di viveri. Ma poi? Quando non ci saranno più tavole da inchiodare e casse da mettere a posto? Il sole sparisce dietro le creste delle montagne alle cinque del pomeriggio. L’ombra dilaga nella radura e la capanna diventa buia. Trovo un antidoto immediato all’angoscia: qualche passo sul ghiaccio. Basta un’occhiata all’orizzonte per convincermi che ho fatto bene a scegliere questa capanna e questa vita.

Non so se la bellezza salverà il mondo, ma salva la mia serata.

23 febbraio: Viaggio nella vertigine, titolo del racconto di Evghenija Ghinzburg sugli anni dei gulag. Ne leggo qualche pagina al caldo, nel sacco a pelo. Al risveglio le giornate mi stanno davanti, vergini, vogliose, mi si offrono come pagine bianche. E nel mio magazzino ne ho decine e decine di riserva. Di loro mi appartiene ogni secondo. Sono libero di disporne come voglio, di farne dei capitoli di luce, di sonno o di malinconia. Nessuno può alterare il corso di un’esistenza come questa. I giorni sono esseri di creta da modellare. Sono il sovrano di un harem virtuale. Conoscevo la vertigine verticale dello scalatore aggrappato alla parete, atterrito dalla vista dell’abisso. Ricordavo la vertigine orizzontale del viaggiatore nella steppa, frastornato dalle linee di fuga. Avevo provato la vertigine dell’ubriaco che crede di aver avuto un’idea geniale: la sente crescere in sé ma il suo cervello si rifiuta di formularla correttamente.

Adesso scopro la vertigine dell’eremita, la paura del tempo vuoto. La stessa morsa alla bocca dello stomaco che provavo in parete - ma stavolta non per la paura di quello che c’è in basso, bensì di quello che mi sta davanti. Sono libero di fare qualunque cosa in un mondo in cui non c’è niente da fare. Guardo l’icona di san Serafino. Lui aveva Dio. Dio, mai sazio delle preghiere degli uomini, è un ottimo passatempo.

E io?

Io ho la scrittura.

Dopo il tè del mattino, passeggio sul lago. Il ghiaccio non scricchiola più perché il termometro si mantiene basso. Il freddo stringe tutto il sistema in una morsa. Avanzo verso il largo. Sulla neve, con un bastone, traccio la prima poesia di una serie di ‘haiku delle nevi’: Punti di passi sulla neve: la marcia cuce il tessuto bianco. La poesia scritta sulla neve ha di buono che non dura. I versi saranno cancellati dal vento. Una linea di frattura ha spaccato il ghiaccio a due chilometri e mezzo dalla riva. Blocchi traslucidi si accavallano sulla faglia. La stria corre parallela alla riva e dalla fessura sale un rumore gorgogliante.

Il Bajkal soffre.

Costeggio la spiaggia mantenendomi a distanza. Ci vuole poco a finire in acqua. Mi si accendono nella mente le immagini dei miei cari. Per un misterioso processo spirituale, i volti mi si affollano nella memoria. La solitudine è una patria popolata dal ricordo degli altri: pensare a loro consola dell’assenza. I miei sono là, in una piega della memoria: li vedo.

Gli ortodossi credono nella presenza dell’Essere che si è calato nell’immagine. L’essenza di Dio scorre dentro la materia delle icone, si incarna nell’immagine e nei riflessi della pittura a olio. Il quadro subisce una trasmutazione. Al ritorno, mi decido a montare il mio altarino. Taglio una tavoletta di dieci centimetri per trenta, la inchiodo accanto al tavolo da lavoro e vi dispongo tre immagini di san Serafino di Sarov che ho comprato a Irkutsk.

Serafino ha passato quindici anni in una foresta della Russia occidentale; alla fine dava da mangiare agli orsi e parlava la lingua dei cervi. Vicino alla sua immagine metto un’icona di san Nicola, una vergine nera e infine lo zar Nicola Il canonizzato dal patriarca Alessio e raffigurato nello splendore delle vesti imperiali. Accendo una candela e un Partagas serie 4. Attraverso il fumo dell’avana, guardo la fiamma illuminare le dorature delle cornici. Il sigaro, incenso profano. Ho finito di mettere a posto la capanna. Ho sistemato l’ultima cassa. Fumo sdraiato sul letto pensando che ho dimenticato solo una cosa: un bel libro di storia della pittura per contemplare, ogni tanto, un volto.

Per ricordarmi come è fatto, non ho che lo specchio.

(S. Tesson, nelle foreste siberiane)













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