giuliano

venerdì 13 dicembre 2019

CHE COSA E' IL TEMPO? (15)






















































Precedenti capitoli:

Che cosa è il Tempo? (14/1)













Che cos’è il tempo?

Salivamo cinque piani vero la luce e ci distribuivamo in tredici file rivolti verso il dio che apre le porte del mattino.

Poi c’era una pausa, quindi arrivava Biehl.

Perché quella pausa?




A un’esplicita domanda sulle sue pause rivoltagli da una delle ragazze brave, Biehl sul momento era rimasto in silenzio. Poi lui, che non diceva mai ‘io’ di se stesso, aveva detto, lentamente e con grande serietà, come stupito della domanda, e forse anche della propria risposta: 

“Quando parlo dovete ascoltare soprattutto le mie pause. Dicono più delle mie parole”.




Questo valeva anche per l’intervallo fra il momento in cui nella sala scendeva il silenzio assoluto e quello in cui lui entrava e saliva SUL PULPITO. Una pausa eloquente, per dirla con parole sue. Poi veniva INTONATO UN CANTO MATTUTINO seguito da una pausa, Biehl recitava un paternostro, pausa, un breve salmo, pausa, un canto patriottico, pausa e fine; a quel punto lasciava la sala come era arrivato, rapido quasi di corsa.

Quali erano i sentimenti in sala mentre ciò avveniva?

Nessun sentimento in particolare, dissi io, era di primo mattino e la gente era stanca, ma non potevamo finirla lì?, Mi stava venendo il mal di testa, ed era tardi, la campanella aveva già suonato, indicai l’ora. Non ancora, disse lei, voleva farmi notare un’altra cosa, cioè il rapporto con il DOLORE.




Nel corso di un esperimento, quando sopravveniva il dolore, come ora il mal di testa, non bisognava mai interrompere e abbandonarlo. Bisognava invece dirigere su di esso la giusta luce dell’attenzione (ciò il male pretende da noi).

Disse così.

La luce dell’attenzione.

Così ci volgemmo verso la PAURA.

Bielh aveva scritto le sue memorie. Lì dentro c’erano i nomi di tutti gli insegnanti che avevano lavorato nella scuola, tutte le volte che ci si era trasferiti in locali migliori e più ampi, una lunga serie di successi e il modo in cui erano stati premiati. Ma nemmeno una parola sul rapporto con gli alunni, e perciò nemmeno SULLA PAURA.




Non una parola, nemmeno nelle pause o fra le righe.

Da principio era incomprensibile. Perché era quella la cosa importante. Non il rispetto o L’AMMIRAZIONE, ….ma la paura. Poi fu chiaro che quella reticenza RIENTRAVA IN UN PIANO PIU’ VASTO.

E allora capii.

All’inizio del mese di gennaio girai tutta Copenaghen in bicicletta per trovare un determinato orologio. Avevo passato più di un anno a scrivere quello che sto raccontando, e avevo sempre rimandato questo impegno: rientrare in una scuola dopo vent’anni. Faceva freddo ed era molto buio, pur essendo giorno c’era un’oscurità notturna. Cominciai a caso, dalla Farimagsgades Skole, forse perché dalla collina del parco intorno alla Biehl si vedeva sempre il campanile della chiesa lì a fianco. L’ufficio della scuola era in una sala dall’ampio soffitto. Rimasi a lungo davanti alle segretarie, poi mi feci coraggio.




‘Potrei vedere l’orologio della vostra scuola?’,

dissi.

‘Sto scrivendo un libro’.

Era collocato molto in alto, incapsulato nel plexiglas, con le cifre rosse digitali. Mi dissero che era stato installato prima del loro arrivo, nessuno ricordava quando, ma funzionava in maniera perfetta, solo di rado veniva un uomo a controllarlo. Mentre ero lì passò un insegnate. Cinque anni prima aveva lavorato alla Frederikssundsvejens Skole, gli pareva che lì avessero un orologio antico.

Così pedalai fin laggiù.




Avevano la stessa scatola di plexiglas con le cifre digitali. Ma mi diedero il numero di telefono dell’ingegnere della scuola. Gli parlai qualche giorno dopo, lavorava alla direzione generale del Genio civile ed era responsabile DELLA MISURAZIONE DEL TEMPO in gran parte delle scuole di Copenaghen. Mi raccontò che nel corso degli ultimi vent’anni la società privata Dansk Tidskontrol era stata incaricata di sostituire la maggior parte dei vecchi orologi con moderni apparecchi al quarzo, che erano molto precisi e non richiedevano quasi nessuna regolazione, e quindi funzionavano praticamente da soli, senza l’intervento umano. Ma aveva sentito dire di un paio del vecchio tipo. Alla Helling Korse alla Prinsesse Charlottes Gades Skole c’erano ancora le vecchie campanelle. Quelle che si usavano negli anni 60 e 70, e che il tempo aveva reso obsolete.

Alla Prinsesse Charlotte Gades Skole lo trovai.

Fu il vicedirettore ad accompagnarmi.




Mi sentivo molto piccolo, mentre lui mi parve più vecchio di una generazione. In seguito mi resi conto che dovevamo essere coetanei. L’orologio era appeso molto in alto e lui mi resse la scala. Era l’orologio che cercavo. L’orologio che avevo visto e toccato una volta, per un attimo di ventidue anni prima.

Un orologio a pendolo Burk a carica manuale.

Aprii il vetro e osservai il meccanismo.

Avrei voluto prendere degli appunti, ma non fu necessario. Era come lo ricordavo (stesso tempo, stesso ritmo… stesse parole). Il vicedirettore, l’ingegnere, le segretarie dell’ufficio, l’insegnante che aveva lavorato alla Frederikssundsvejens Skole, tutti mi hanno dimenticato subito dopo avermi incontrato. Ma mentre eravamo insieme credevano di avere a che fare con un adulto.

Si sbagliavano.

Stavano parlando con un bambino.




Davanti a loro non avevo pelle, niente per coprirmi. Sentivo ogni loro cambiamento di tono, ogni loro sguardo, ne sentivo la fretta e la cortesia, la distrazione e l’incomprensione. Loro mi hanno dimenticato cinque minuti dopo che me ne sono andato,

MA IO LI RICORDERO’ PER SEMPRE.

Entrando in una scuola mi calavo nel bambino che ero ventidue anni fa, e in quella forma incontravo gli adulti. Loro erano protetti. Il tempo li aveva avvolti in una membrana. Erano spiritosi e frettolosi, e non rimanevano minimamente scalfiti dal nostro incontro.

Così era allora, quando andavo alla Biehl, così è adesso, e così sarà sempre.




Intorno agli adulti il tempo si è depositato, con la sua fretta, con la sua noia, le sue ambizioni, la sua amarezza e i suoi obiettivi a lungo termine. Loro non ci vedevano più veramente, e quello che vedono cinque minuti dopo l’hanno già dimenticato.

Mentre noi non abbiamo pelle.

E li ricorderemo per sempre.

Andava così…. alla Biehl.

Noi ricordavamo ogni espressione del volto, ogni insulto e ogni incoraggiamento, ogni osservazione buttata lì, ogni segno di potere e di debolezza. Per loro eravamo la quotidianità, per noi erano senza tempo, cosmici e potenti.

Mi è venuta questa idea: QUANDO PROVI DOLORE, e pensi che la cosa sta crescendo qui, in laboratorio, è inutile, puoi reagire pensando che forse è anche l’unico modo che hai per dire come appariva il mondo.

Cose da adulti.

Cose precise, esatte.

Queste, certo, non mancano. Anzi, rappresentano tutto quello che ci circonda. Ma sentire senza pelle è possibile, forse, solo in condizioni simili a quelle del laboratorio.

(P. Hoeg, I quasi adatti)












Nessun commento:

Posta un commento