Precedenti capitoli:
Che cosa è il Tempo? (14/1)
Che cos’è
il tempo?
Salivamo
cinque piani vero la luce e ci distribuivamo in tredici file rivolti verso il
dio che apre le porte del mattino.
Poi c’era
una pausa, quindi arrivava Biehl.
Perché
quella pausa?
A
un’esplicita domanda sulle sue pause rivoltagli da una delle ragazze brave,
Biehl sul momento era rimasto in silenzio. Poi lui, che non diceva mai ‘io’ di
se stesso, aveva detto, lentamente e con grande serietà, come stupito della
domanda, e forse anche della propria risposta:
“Quando parlo dovete ascoltare
soprattutto le mie pause. Dicono più delle mie parole”.
Questo
valeva anche per l’intervallo fra il momento in cui nella sala scendeva il
silenzio assoluto e quello in cui lui entrava e saliva SUL PULPITO. Una pausa
eloquente, per dirla con parole sue. Poi veniva INTONATO UN CANTO MATTUTINO
seguito da una pausa, Biehl recitava un paternostro, pausa, un breve salmo, pausa,
un canto patriottico, pausa e fine; a quel punto lasciava la sala come era
arrivato, rapido quasi di corsa.
Quali erano
i sentimenti in sala mentre ciò avveniva?
Nessun
sentimento in particolare, dissi io, era di primo mattino e la gente era
stanca, ma non potevamo finirla lì?, Mi stava venendo il mal di testa, ed era
tardi, la campanella aveva già suonato, indicai l’ora. Non ancora, disse lei,
voleva farmi notare un’altra cosa, cioè il rapporto con il DOLORE.
Nel corso
di un esperimento, quando sopravveniva il dolore, come ora il mal di testa, non
bisognava mai interrompere e abbandonarlo. Bisognava invece dirigere su di esso
la giusta luce dell’attenzione (ciò il male pretende da noi).
Disse così.
La luce
dell’attenzione.
Così ci
volgemmo verso la PAURA.
Bielh aveva
scritto le sue memorie. Lì dentro c’erano i nomi di tutti gli insegnanti che
avevano lavorato nella scuola, tutte le volte che ci si era trasferiti in
locali migliori e più ampi, una lunga serie di successi e il modo in cui erano
stati premiati. Ma nemmeno una parola sul rapporto con gli alunni, e perciò nemmeno
SULLA PAURA.
Non una
parola, nemmeno nelle pause o fra le righe.
Da
principio era incomprensibile. Perché era quella la cosa importante. Non il
rispetto o L’AMMIRAZIONE, ….ma la paura. Poi fu chiaro che quella reticenza RIENTRAVA
IN UN PIANO PIU’ VASTO.
E allora
capii.
All’inizio
del mese di gennaio girai tutta Copenaghen in bicicletta per trovare un
determinato orologio. Avevo passato più di un anno a scrivere quello che sto
raccontando, e avevo sempre rimandato questo impegno: rientrare in una scuola
dopo vent’anni. Faceva freddo ed era molto buio, pur essendo giorno c’era
un’oscurità notturna. Cominciai a caso, dalla Farimagsgades Skole, forse perché
dalla collina del parco intorno alla Biehl si vedeva sempre il campanile della chiesa
lì a fianco. L’ufficio della scuola era in una sala dall’ampio soffitto. Rimasi
a lungo davanti alle segretarie, poi mi feci coraggio.
‘Potrei
vedere l’orologio della vostra scuola?’,
dissi.
‘Sto
scrivendo un libro’.
Era
collocato molto in alto, incapsulato nel plexiglas, con le cifre rosse
digitali. Mi dissero che era stato installato prima del loro arrivo, nessuno ricordava
quando, ma funzionava in maniera perfetta, solo di rado veniva un uomo a
controllarlo. Mentre ero lì passò un insegnate. Cinque anni prima aveva
lavorato alla Frederikssundsvejens Skole, gli pareva che lì avessero un
orologio antico.
Così
pedalai fin laggiù.
Avevano la
stessa scatola di plexiglas con le cifre digitali. Ma mi diedero il numero di
telefono dell’ingegnere della scuola. Gli parlai qualche giorno dopo, lavorava
alla direzione generale del Genio civile ed era responsabile DELLA MISURAZIONE
DEL TEMPO in gran parte delle scuole di Copenaghen. Mi raccontò che nel corso
degli ultimi vent’anni la società privata Dansk Tidskontrol era stata
incaricata di sostituire la maggior parte dei vecchi orologi con moderni
apparecchi al quarzo, che erano molto precisi e non richiedevano quasi nessuna
regolazione, e quindi funzionavano praticamente da soli, senza l’intervento
umano. Ma aveva sentito dire di un paio del vecchio tipo. Alla Helling Korse
alla Prinsesse Charlottes Gades Skole c’erano ancora le vecchie campanelle.
Quelle che si usavano negli anni 60 e 70, e che il tempo aveva reso obsolete.
Alla
Prinsesse Charlotte Gades Skole lo trovai.
Fu il
vicedirettore ad accompagnarmi.
Mi sentivo
molto piccolo, mentre lui mi parve più vecchio di una generazione. In seguito
mi resi conto che dovevamo essere coetanei. L’orologio era appeso molto in alto
e lui mi resse la scala. Era l’orologio che cercavo. L’orologio che avevo visto
e toccato una volta, per un attimo di ventidue anni prima.
Un orologio
a pendolo Burk a carica manuale.
Aprii il
vetro e osservai il meccanismo.
Avrei
voluto prendere degli appunti, ma non fu necessario. Era come lo ricordavo
(stesso tempo, stesso ritmo… stesse parole). Il vicedirettore, l’ingegnere, le
segretarie dell’ufficio, l’insegnante che aveva lavorato alla
Frederikssundsvejens Skole, tutti mi hanno dimenticato subito dopo avermi
incontrato. Ma mentre eravamo insieme credevano di avere a che fare con un
adulto.
Si
sbagliavano.
Stavano
parlando con un bambino.
Davanti a
loro non avevo pelle, niente per coprirmi. Sentivo ogni loro cambiamento di
tono, ogni loro sguardo, ne sentivo la fretta e la cortesia, la distrazione e
l’incomprensione. Loro mi hanno dimenticato cinque minuti dopo che me ne sono andato,
MA IO LI
RICORDERO’ PER SEMPRE.
Entrando in
una scuola mi calavo nel bambino che ero ventidue anni fa, e in quella forma incontravo
gli adulti. Loro erano protetti. Il tempo li aveva avvolti in una membrana. Erano
spiritosi e frettolosi, e non rimanevano minimamente scalfiti dal nostro
incontro.
Così era
allora, quando andavo alla Biehl, così è adesso, e così sarà sempre.
Intorno
agli adulti il tempo si è depositato, con la sua fretta, con la sua noia, le
sue ambizioni, la sua amarezza e i suoi obiettivi a lungo termine. Loro non ci
vedevano più veramente, e quello che vedono cinque minuti dopo l’hanno già
dimenticato.
Mentre noi
non abbiamo pelle.
E li
ricorderemo per sempre.
Andava
così…. alla Biehl.
Noi
ricordavamo ogni espressione del volto, ogni insulto e ogni incoraggiamento,
ogni osservazione buttata lì, ogni segno di potere e di debolezza. Per loro
eravamo la quotidianità, per noi erano senza tempo, cosmici e potenti.
Mi è venuta
questa idea: QUANDO PROVI DOLORE, e pensi che la cosa sta crescendo qui, in
laboratorio, è inutile, puoi reagire pensando che forse è anche l’unico modo
che hai per dire come appariva il mondo.
Cose da
adulti.
Cose
precise, esatte.
Queste,
certo, non mancano. Anzi, rappresentano tutto quello che ci circonda. Ma
sentire senza pelle è possibile, forse, solo in condizioni simili a quelle del
laboratorio.
(P. Hoeg, I quasi adatti)
Nessun commento:
Posta un commento