giuliano

giovedì 30 maggio 2024

ERETICHE FORESTE

 










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con la Fattucchiera


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& Teatrali compagnie 


acrobatiche







I popoli alpini hanno tentato, in ogni modo, di opporsi all’omologazione culturale e alla soppressione delle proprie tradizioni. In questa lunga lotta, le donne hanno combattuto in prima fila: come guerriere armate ma anche come intellettuali, e soprattutto come custodi della memoria. Non è un caso che le antiche lande selvagge del pianeta scompaiano a mano a mano che viene meno la comprensione della propria intima natura arcaica. Non è poi tanto difficile capire come mai le foreste antiche e le signore anziane sono considerate risorse di scarsa importanza nella nostra civiltà.

 

Non è mera coincidenza se i lupi e gli orsi, le civette e le donne un po’ strane e solitarie godono di una reputazione simile. Tutte queste figure si rifanno ad archetipi connessi, e sono considerate prive di grazia e di gentilezza, istintivamente pericolose e rapaci. Ma l’archetipo della Donna Selvaggia si può esprimerlo anche in termini completamente diversi. Si può chiamare natura istintiva, psiche naturale, comprensione intuitiva e immediata della situazione. È qualcosa di tacito, presciente e viscerale. Talvolta viene chiamata ‘la donna che vive alla fine del tempo’, oppure ‘quella che vive ai confini del mondo’.




E questa creatura è sempre un creatura-strega, o una dea della morte, o una vergine in caduta, o mille altre personificazioni. È amica e madre di quelli che hanno perso la strada, di chi ha bisogno di sapere, ha un enigma da risolvere, di chi vaga e cerca nella foresta (o nel deserto). La Donna Selvaggia in quanto archetipo, e tutto quanto sta dietro di lei, è la patrona dei pittori, degli scrittori, degli scultori, di coloro che compongono preghiere, che ricercano, che trovano. È la forza Vita/Morte/Vita. È colei che tuona contro l’ingiustizia. È idee, sentimenti, impulsi e memoria: è quella che, incarnata in milioni di donne generazione dopo generazione, ci ha permesso di non perdere il ricordo.

 

Cominciamo il nostro racconto dalle radici della cultura che, attualmente, ancora domina il pensiero occidentale: il modello greco e latino, razionalistico e misogino. E cominciamo dalla Madre mitica, ispiratrice di ogni femmina ribelle. Per Aristotele non esistono parole, né immagini, né categorie per esprimere la materia indifferenziata, perché la forma è la condizione dell’accesso logico alla realtà. C’è solo un vocabolo che il filosofo non può evitare parlando dell’indicibile: hyle.

 

È il primo a dargli il senso filosofico di materia.




Tuttavia in origine hyle non significava materia, ma Foresta. Il suo derivato, in latino, è silva: in latino arcaico, sylva, foneticamente vicino a hyle. Ma lo stesso vocabolo ‘materia’ non si allontanava molto da foresta: materia vuol dire legno, il legno utilizzabile dell’albero, in opposizione alla scorza, ai frutti, alle foglie. E ‘materia’ ha la stessa radice di mater: la madre. Questa parentela prelinguistica riesce a esprimersi nel mito, si manifesta in Ovidio nelle storie di uomini trasformati in animali, in fiori, in alberi, in altri fenomeni della foresta.

 

Le tappe della metamorfosi mettono in scena la natura fondamentalmente superficiale delle forme della creazione, evidenziando i legami che uniscono tutte le cose in virtù della genesi comune. La divinità che presiede alle selve, per i greci è Artemide, per i romani Diana: cacciatrice e protettrice degli animali selvatici, ma anche delle partorienti. È la grande matrice del mondo al di là delle zone abitate dagli uomini (civili): nutre i cuccioli col latte delle proprie mammelle, è la guardiana di misteri crudeli. È l’iniziatrice alla conoscenza della natura non umana. Non la si può né vedere né avvicinare.

 

È la matrice, la materia e la madre insieme.




È lo spirito del bosco che fa nascere un’immensità di specie (di forme), che sorveglia la vicinanza originale con la rete di corrispondenze materiali che animano la selva. Negli spazi selvaggi, non esistono differenze irriducibili. Il suo ricordo rimarrà a lungo nella memoria popolare, e molti processi alle streghe, prima che del Demonio, parlano proprio di Lei.

 

È l’archetipo della Donna Selvaggia che prende il nome di una dea, e che serve per preservare un’intera civiltà: la cultura della foresta. E mentre nelle città romane prima e cristiane poi trionfa una religione che serve le classi dominanti e che in seguito modella essa stessa chi avrà il privilegio di governare, sotto l’ombra materna degli alberi millenari si continua ad adorare la Grande Dea.

 

Per tutto il Medioevo immense foreste meravigliose ricoprono il continente nell’indifferenza dei tempi. Qua e là piccoli insediamenti umani sparsi sopravvivevano con la caccia e la raccolta di quanto il bosco poteva offrire. Per il nuovo ordine sociale che si riorganizzava lentamente sulla base delle istituzioni feudali e religiose le foreste erano, per l’appunto, foris, all’esterno. Là vivevano i proscritti, i folli, gli amanti, i briganti, i fuggitivi, i disadattati, gli eremiti, i santi, i lebbrosi, i rivoluzionari, gli eretici, i perseguitati, le streghe, le donne perdute, gli uomini selvaggi.




Ma non solo: in periodi di grande instabilità, di invasioni e di scorrerie violente da parte di popoli stranieri, sull’arco alpino (ma non solo) molte città spariscono completamente, e gli abitanti superstiti si ritirano a vivere nelle grotte, al di fuori dei sentieri battuti dalle orde di barbari, protetti dalle fronde di boschi impenetrabili. Il fenomeno del vagabondaggio fuorilegge, del resto, rispecchiava l’estrema mobilità di una parte della società medievale, la popolazione flottante: mercanti, sensali, venditori ambulanti e girovaghi, artigiani, diffusissimi sull’intero arco alpino fino a pochi decenni fa (ogni valle si specializzava in un mestiere); carbonai, altri personaggi tipicamente alpini; monaci questuanti, o vaganti in fuga dal convento, frati perdona tori e venditori di reliquie, chierici senza patria, poeti cortigiani e cantastorie, trovatori, studenti itineranti che chiedevano la carità muniti della lettera col sigillo universitario, corrieri e cursori, indovini e chiromanti, negromanti ed eretici, settari e predicatori di ogni ordine e disordine, medicastri e guaritori, istrioni, bari e giocolieri, pellegrini autentici e non, visionari, ‘Uomini di Dio’, ebrei erranti e maledetti. mendicanti veri e falsi, soldati e mercenari, scampati dai pirati o dagli infedeli, servi fuggiaschi, maestri e apprendisti.




A partire dal tardo Medioevo si aggiungono gli zingari, arrivati dall’India attraverso una migrazione secolare. E ogni gruppo con il proprio linguaggio ‘corporativo’ o gergo segreto (la lingua occulta), coi suoi santi, le sue cantilene e salmodie, le sue pentole, i suoi sogni. Le schiere di sbandati spinti alla ribalderia dalle guerre, dalle imposte, dalla fame, dovevano essere davvero tante: la società medievale getta sulle strade, e nel bosco, le sue frange più deboli. Il numero degli esclusi aumenta vertiginosamente, e questa gente raggiunge - e vi si unisce fino a confondervisi - il preesistente popolo della foresta e delle montagne.

 

E dove sarebbero potuti andare?

 

Scappare dalla legge e dalla società degli uomini civili era ritrovarsi automaticamente ‘al monte’. La Chiesa cristiana, che nel frattempo cercava di unificare l’Europa sotto il segno della croce, era fondamentalmente ostile alle montagne, queste barriere impassibili di natura incolta. I principi di identità e di non contraddizione, fondamenti della logica che presiede al pensiero dell’uomo civile, svaniscono nella foresta. Il profano si trasforma in sacro. I fuorilegge diventano i difensori di una giustizia superiore: vedi il mito di Robin Hood, diffuso sotto varie forme su tutto il continente europeo. Che la legge sia religiosa, politica, psicologica, o anche solo logica, la foresta la destabilizza. Le foreste sono al di là della legge: o meglio, fuori dalla legge. La bestialità, la caduta, il nomadismo, la perdizione: queste le immagini che la mitologia cristiana associa alla foresta e alla montagna. Dal punto di vista teologico, i boschi rappresentano l’anarchia della ‘materia’. Essendo l’esatto contrario del mondo creato a immagine di Dio, erano considerati come gli ultimi bastioni del culto pagano.




Nelle tenebrose foreste celtiche regnavano i druidi; in Germania esistevano i boschi sacri; di notte, appena fuori dalle città, assediate da vicino dalla selva sterminata, le streghe celebravano i loro riti. Antichi demoni, fate e spiriti della natura si aggiravano fra gli alberi, e la popolazione manteneva e coltivava i legami tradizionali col passato pagano. Distruggere i boschi non significava soltanto. ridurre in cenere innumerevoli secoli di crescita naturale: significava soprattutto annullare i fondamenti della memoria culturale della gente che li abitava. Infatti, disboscamento e sradicamento di alberi sacri furono attività a cui le gerarchie ecclesiastiche si applicarono devotamente e con profitto.

 

Comunque, ci volle di sicuro molto tempo per conquistare le campagne e per convertire quei pagani che erano i contadini. Nelle foreste si stabilirono i monaci e le purificarono dissodandole: dove prima si trovavano dei boschi sacri venivano fondati dei monasteri. Ma gli esseri un tempo divini nel Medioevo vivevano ancora al riparo delle fronde. La Chiesa non era riuscita a esorcizzarli tutti. Alcuni li aveva convertiti e, in certi casi, erano perfino diventati santi. Altri li aveva coperti con una ‘patina cristiana’ che li aveva resi irriconoscibili, anche se ne restavano ancora.




Erano troppo numerosi; e molti facevano parte della categoria degli irriducibili. Nelle selve si correva il rischio di incontrarli all’improvviso: e non solo perché, scacciati dai cristiani, si erano rifugiati fra gli alberi, ma anche e soprattutto perché erano creature silvestri per natura. Il terrore suscitato dalla loro apparizione, o anche da un rumore sospetto, da una luce insolita che ne annunciava la presenza, altro non era che quel panico ben conosciuto dagli antichi. La parola è greca, e indicava l’incontrollabile spavento che si impadroniva di chi, in un luogo isolato, incontrava Pan, dio cornuto della foresta e della sessualità sfrenata e contagiosa. Ancora una volta, pan significa tutto, come hyle, sylva e ‘materia’: impersona l’energia genetica che anima l’universo e che è il Tutto della vita, la sua stessa origine: il timore che può Ispirare è più che giustificato.

 

Lo stesso panico che colpì le legioni romane mentre attraversavano le Alpi e la Selva Ercinia in Germania si credette che avesse di nuovo turbato le armate napoleoniche in un bosco nei pressi di Mosca durante l’invasione della Russia. Testimonianze di culti estatici e sciamanici che legano donne, foreste e montagne sono antichissime; e prima dei romani che raccontano dei celti, ne parlano gli storici greci riferendosi al culto di Dionisio, preesistente rispetto agli dei dell’Olimpo e celebrato ancora nelle icone più isolate e meno civili della Grecia ellenistica.




Era un fatto reale che comunità (tìasi) di donne si appartassero in luoghi montani per celebrare le feste di Dioniso. Questo rito, la corsa sui monti (oreihusìa) si svolgeva ad anni alterni. Il culto di Dioniso è molto speciale, e precorre in qualche modo la religione delle streghe di montagna ‘scoperta’ dagli inquisitori. Come le credenze delle maghe nostrane, la celebrazione dei riti dionisiaci è basata su un mondo ‘altro’ rispetto a quello faticosamente costruito all’interno della città, di un’alterità che ti nello stesso tempo psicologica e sociale: un mondo che si proclama più semplice e felice.

 

Stringere i legami fra sé e gli altri, scavalcare le barriere degli anni che dividono i giovani e i vecchi, superare le differenze sociali, ritornare alla natura: ecco il richiamo del rito. Questo ruolo è storicamente attestato presso gli strati più poveri e infimi della popolazione, ed è la sopravvivenza di forme di religiosità che si perdono nella notte dei tempi. La menade, colei che celebra i fasti di Dioniso, sembra proprio l’antenata della strega: regredisce, perde i connotati della cultura umana e riassume uno stato di naturalità.

 

Fugge dai luoghi frequentati dall’uomo per rifugiarsi sui monti: non semplicemente al di fuori delle mura cittadine, ma in luoghi che sono di per sé l’ambiente delle fiere.




E diviene lei stessa una bestia, mascherandosi da animale (si copre con una pelle di cerbiatto) e assumendone i comportamenti: dimentica la famiglia, abbandona marito e figli, fa da madre ai selvatici, maneggia serpenti (i rettili sono da sempre associati alle streghe e al diavolo). Diventa cacciatrice, assale i maschi a mani nude, uccide. Si esprime attraverso suoni inarticolati e urla. Cade in trance, balla fino a cadere esausta e senza fiato. È investita di poteri soprannaturali tramite il tirso, bacchetta magica fatta da una canna con in cima una pigna e avvolta in rami di edera, che la porta all’identificazione col regno vegetale.

 

Questi riti arcaici, che celebrano la fecondità della terra e dei campi attraverso feste orgiastiche, favoriscono la trance, l’estasi e la profezia, tramandano una conoscenza esoterica e iniziatica che è privilegio delle donne. Riti che, sotto altri nomi, erano diffusi sull’intero continente europeo, nelle regioni al di fuori dell’influenza della civiltà urbana etrusca, greca e romana. E si mantengono per tutto il Medioevo, malgrado i tentativi di evangelizzazione e di omologazione culturale che venivano dalle città.




Nei boschi e sulle montagne, sulle Alpi e sui Pirenei, sopravvivevano gli adepti delle divinità arcaiche, i loro sacerdoti: le antichissime scuole druidiche non avevano retto all’urto cristiano, che aveva interrotto i collegamenti fra i collegi druidici; ma restavano i ministri del ‘culto del popolo’: le streghe e le fate. È opinione diffusa che ‘la stregoneria si stabilisca in maniera invincibile in alcune ‘sventurate vallate delle Alpi’.

 

Nel cuore dei boschi, nei luoghi selvaggi, presso alcune fontane, all’ombra di vecchi alberi, un tempo si potevano intravedere donne alte, vestite di bianco o di verde, con uno strano copricapo, dotate di bellezza sovrumana e luminose. Spesso le si scorgeva ballare. In Bretagna si mostravano preferibilmente nei dintorni dei dolmen, dove sembrava che si fossero rifugiate. Sulle Alpi si trovano vicino alle incisioni rupestri, oppure nei pressi dei monumenti preistorici chiamati, appunto, ‘cerchi magici’. Non è un caso che nei luoghi di culto di origine arcaica, ricchi di pietre incise, la popolazione mantenne per lungo tempo l’antica religione; e l’Inquisizione fu particolarmente feroce: vedi la Valcamonica, o la Valtellina, dove si bruciarono le ultime fattucchiere.




Per combattere questi riti ancestrali, il cattolicesimo oltre a condannare la saxorum veneratio cercò di adattarsi, appropriandosi di queste speciali forme di venerazione, e fece incidere croci a più non posso sui graffiti pagani. La presenza delle fate nella memoria popolare, in ogni modo, è documentata in maniera sicura fino al Concilio di Trento. Pare che le loro apparizioni siano state relativamente frequenti, almeno fino all’inizio del XIX secolo, se si tiene conto del fatto che i testimoni che osavano parlarne erano molto rari.

 

Fate e streghe spesso si confondono. In molti casi, probabilmente, le streghe erano le fate invecchiate. Oppure, ricoprivano i gradi inferiori della gerarchia sacerdotale celtica e appartenevano alle caste basse delle tribù; mentre le fate erano druidesse che avevano studiato, donne ricche, colte e belle (le scuole druidiche duravano più di vent’anni: come vere università di musica, teologia, politica e medicina). In genere, le fate avevano con gli umani rapporti di buon vicinato. All’occorrenza rendevano loro un qualche servizio, facendo ritrovare gli oggetti smarriti, mettendo a loro disposizione la propria conoscenza sui segreti dei ‘semplici’. Però erano suscettibili, e si vendicavano quando qualcuno disubbidiva o le insultava. Ma se si dimostrava la deferenza a cui avevano diritto, erano pronte ad aiutare chi aveva bisogno. Ciò non toglie che, a volte, venivano accusate di rapire i bambini, o di cercare di unirsi a uomini per averne.




I Bretoni dicevano che il loro scopo era quello di rigenerare la loro razza maledetta: per raggiungerlo, violavano tutte le leggi del pudore, ‘come le sacerdotesse dei Galli’. E, in effetti, le leggende alpine ed europee hanno tramandato la libertà sessuale di cui potevano godere questi esseri strani e misteriosi, senza obblighi familiari e morali che potessero imprigionare la loro facoltà di scelta. A partire dal XVIII secolo, le fate cominciano a scomparire. Non era solo il progresso dei ‘lumi’ a cacciarle via, ma soprattutto lo sviluppo della rete stradale che riduceva i luoghi appartati e selvaggi in mi potevano trovare un rifugio sicuro.

 

Perché le fate, che il più delle volte sono di origine mitica, sembrano però, in alcuni casi, esseri reali che vivono isolati, in posti segreti, e non si fanno vedere quasi mai perché hanno tutto l’interesse di farsi dimenticare per poter continuare a vivere e non cadere nelle grinfie degli inquisitori. Alcuni elementi presenti nei rapporti raccolti dai folcloristi dall’Ottocento in poi rendono abbastanza verosimile che molte fate, se non tutte, fossero tardive discendenti delle antiche sacerdotesse dei celti che avevano preferito la solitudine alla conversione.




In tutte le Alpi abbondano i luoghi considerati ‘le ultime dimore dei pagani’: buchi, grotte, rovine di castelli e di fortificazioni, addirittura chiese. Concordano anche le descrizioni che riguardano l’abitazione, i gusti, il modo di fare e i rimpianti suscitati dall’estinzione delle ‘buone signore’. Ecco come la tradizione ricorda la fine di una di queste donne:

 

‘In un tempo molto antico, una regina protestante, saracina, o che altro mai fosse, non volendo piegarsi alla nuova fede, che da ogni parte incalzava, si rifugiò in Val Brembilla. Dapprima andò a mettersi sull’altura verdeggiante su cui sorge la chiesa di Sant’Antonio abbandonato, ma poi, non sentendosi lì abbastanza sicura, si ritirò più addentro nella valle e più in alto; nel luogo che ora prende il nome da lei, il Castello della Regina. Ma i credenti non le dettero tregua, e la strinsero in modo da non poter più resistere. Allora lei si ficcò in una botticella e si fece precipitare giù per i dirupi del lato orientale. A questo modo si sfracellò. Quanto alle sue genti, si arresero ai nemici ed ebbero in parte salva la vita’.




Il poco che sappiamo delle druidesse è che vestivano di bianco, detenevano segreti terapeutici vegetali, praticavano diverse forme di mantica, proferivano maledizioni magiche contro i nemici e – stando alla testimonianza di Strabone, che nel I secolo parla di una comunità di donne stabilita su di un’isoletta alle foci della Loira - si abbandonavano a volte a un comportamento simile a quello delle menadi. Benché perseguitate dai romani, queste profetesse celtiche sembra godessero, ai loro occhi, di un certo prestigio, in epoca imperiale anche abbastanza tarda, fino alla fine del III secolo.

 

Essendo pochissime, isolate e, tutto sommato, inoffensive, le ultime sacerdotesse non furono perseguitate apertamente dal clero, almeno fino alla caccia alle streghe. Ma loro lo temevano profondamente (e chi potrebbe dare loro torto!), tanto da non sopportare il suono delle campane, e gli serbavano rancore perché le aveva confuse con ‘gli spiriti delle tenebre’. I preti si limitavano a esorcizzarle da lontano e intervenivano in maniera pesante soltanto se costretti, almeno fino al Rinascimento, che segna la recrudescenza nella repressione delle antiche vestigia dei culti pagani.




I giudici accusarono Giovanna d’Arco di avere ubbidito alle fate, e non ai santi. All’inizio del XVII secolo, Le Nobletz, ‘missionario in Bretagna’, trovò nell’isola di Sein tre druidesse che diffondevano il culto del sole: venivano consultate dagli uomini prima di mettersi in mare. Il sacerdote cristiano racconta che riuscì a convertirle e a farle stabilire sulla terraferma, dove conclusero la vita in un convento. Probabilmente non fu un caso unico molte ‘buone signore’, stanche della vita selvaggia che dovevano condurre, finirono i propri giorni con il soggolo delle suore.

 

E se le druidesse, assimilabili agli alti prelati e alle badesse cristiane, ricche, colte, capaci di esprimersi e probabilmente anche di dissimulare una fede diversa dalla loro per sopravvivere, abituate alla disciplina e alla vita di comunità, alla fine si confusero con le suore, le povere streghe non potevano certo essere accettate in un convento; né loro avevano la minima intenzione di entrarci. Anche perché, per secoli, nessuno le degnò di una qualche considerazione, e poterono continuare a officiare i propri riti indisturbate, o quasi.




Si hanno buone ragioni per credere che, in alcune zone isolate, ma neanche tanto, queste donne abbiano costruito e siano riuscite a mantenere una qualche forma di organizzazione sociale specifica, matriarcale, fondata sulla sapienza esoterica, riconosciuta se non dai governi centrali (che preferivano ignorare le popolazioni di montagna, accontentandosi di sfruttarle e facendo finta di non vedere per evitare disordini, almeno fino a quando la Chiesa lo permise) almeno dagli intellettuali di punta dell’epoca, che spesso si sono confrontati con queste signore.

 

In Italia, più che le fate, sono conosciute, documentate e rappresentate da diversi artisti le Sibille. Quella che segue è la descrizione tardiva di una di queste profetesse in Lombardia, quando già incutevano paura:

 

Il suo corpo magro e spigoloso era coperto da una lunga veste nera, e le sue chiome grigie svolazzavano liberamente al soffio dell’aria mattutina. La vecchia aveva una figura spettrale, una folta lanugine grigia copriva le sue labbra sottili e paonazze, sotto le palpebre crespe e giallastre due pupille grigie e sfavillanti rivelavano uno spirito ancor pieno di energia e forse di violenza. [...] “I miei piedi non possono calpestare le soglie consacrate.[...] Se mi avvicino agli uomini lo faccio perché ascoltino la parola del comando, ma non per soddisfare i loro iniqui desideri. Chi sono io? Sono la Sibilla, sì la Sibilla, la creatura maledetta, colei che fugge ed è fuggita, colei che è odiata e che odia, la creatura che trova chiuse tutte le porte come tutti i cuori, quella che fa gridare di spavento il lattante e fa inacidire il latte nel seno della nutrice, quella il cui sguardo fatale fa tacere la gioia, il dolore, l’amore, perché il terrore è più forte di tutto e tutto fa dimenticare” ’.




Teofilo Folengo racconta, se pure in maniera ironica, della pratica di andare a ‘consultare le streghe di Valcamonica’ nel 1526.

 

Ma il il luogo in cui la memoria storica dell’antica società è rimasto più a lungo sono le Marche, regione fuori dalle grandi strade commerciali e militari, coperta di montagne e di boschi un tempo quasi impenetrabili. Là queste antiche sacerdotesse, depositarie della conoscenza magica ma anche del potere sulle proprie comunità, hanno lasciato il nome al territorio che per millenni le ha ospitate: i Monti Sibillini. L’organizzazione sociale e politica ‘sibillina’, ancora dopo l’Unità d’Italia, si reggeva sulle comunanze: praticamente, la proprietà privata non esisteva; non solo il bosco e il pascolo erano di uso collettivo, ma anche il seminativo veniva coltivato a turno dalle famiglie che facevano parte della comunità.

 

La civiltà delle Sibille è stata, per secoli, un punto di riferimento e di attrazione per gli intellettuali che contestavano l’assetto teocratico-militare dello Stato. Cecco d’Ascoli fu mandato al rogo per aver avuto rapporti con i negromanti e le Sibille dei Monti Sibillini. Molti pensatori fra i più noti, dal Trecento al Seicento, dal cavaliere de La Salle ad Agrippa von Nettesheim, da Benvenuto Cellini ad Andrea Silvio Piccolomini, andarono a visitare la Sibilla, passando per Norcia, in Umbria, o per Montemonaco, nelle Marche.


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giovedì 23 maggio 2024

LA FUGA

 









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Della Scimmia indovina!


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Il Dialogo prosegue







Dopo la faccenda di mastro Pietro, del quale già sappiamo che razza di birbante fosse, successe che Don Chisciotte venne a trovarsi tra la gente armata del villaggio dei ‘sovranisti-ragliatori’… dell’asino Matteo!

 

Cercò quindi di persuaderli a non azzuffarsi con una simile bambinata sovranista; senonché Sancio, per dargli conforto, ebbe la cattiva idea di mettersi a ragliare fors’anche muggire (da sovrano) anche lui, dal che venne fuori la sassaiola alla quale Don Chisciotte si sottrasse fuggendo al galoppo e raccomandandosi a Dio di tutto cuore affinché lo liberasse da quel pericolo.




 Ed ecco che nel narrare, per la prima volta, che fugge il prode vincitore del biscaglino, del Cavaliere degli Specchi e del leone, colui che tante volte aveva affrontato intere truppe di uomini, lo storico ci dice:

 

Quando il valoroso fugge, è evidente che è stato raggirato, ed è proprio degli uomini saggi conservarsi per migliore occasione.

 

Ma come avrebbe fatto Don Chisciotte a tener testa ad un paese che si vanta di ragliare da sovrano?




Il modo di esprimersi collettivamente di un paese è una specie di muggito sovranista, anche se ognuno dei suoi componenti si serve di un linguaggio articolato - o dialetto locale - per i suoi bisogni individuali; è infatti risaputo quanto spesso avviene che, quando si radunano uomini ragionevoli o magari solo semi-ragionevoli, tutti assieme formano un popolo sovrano.

 

Dicono più assennato e Sovrano!

 

Prima di dettare costituzioni per governare un popolo, ascoltiamone il parere – si dice – consultiamolo.




 E ciò - mi fa pensare - che sarebbe lo stesso se un veterinario, invece di esaminare una vacca o testarla, sentirgli il polso, guardarla per dritto e per traverso alfine di scoprire di che male soffre, dove gli duole e di che cosa ha bisogno, la consultasse ed aspettasse di udirla muggire per ordinargli una medicina arrogandosi in certo modo la parte di interprete dei patimenti.

 

No, signori miei!

 

Quando non si riesce a convincere una vacca belante, l’unica cosa che resta da fare è scappar via, da uomo prudente e più che maturo e non certo temerario.




E soprattutto non far caso ai Sanci egoisti che si lamentano se non li difendiamo quando hanno avuto la cattiva idea di mettersi a muggire e proclamare al cospetto di sovrani locali doc.

 

E poi Sancio tornò a battere il chiodo del salario, e Don Chisciotte decise di saldargli il conto e di licenziarlo; fu proprio allora che gli disse quelle durissime parole:

 

Vacca sei, vacca sarai e porca vacca finirai quando si compirà il corso della tua vita.




E udendo ciò, il povero scudiero scoppiò in lacrime e confessò che per essere una vacca del tutto gli mancano le corna da sovrano.

 

E il magnanimo Cavaliere lo perdonò raccomandandogli di cercare di farsi un po’ coraggio. Fu ed è, questo, uno dei più notevoli benefici di cui Sancio andò ed è debitore a Don Chisciotte: fu il nostro hidalgo a convincerlo che per essere vacca del tutto gli mancano solo le corna da vichingo.

 

Corna che non gli spunteranno e non gli cresceranno finché seguirà e servirà Don Chisciotte. 


(M. de Unamuno & il Capitolo completo)


lunedì 13 maggio 2024

IL DIALOGO DEI CANI (2)

 

















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‘Ma dove volete’,

…replicò l’altro,

‘che il mio capocomico abbia abiti paonazzi per dodici cardinali?’.

‘Ebbene, se me ne toglie anche uno soltanto’,

…rispose il poeta,

‘io gli darò la mia commedia tanto facilmente come potrei mettermi a volare. Corpo di Bacco! E vorreste mandare in rovina una scena così grandiosa? Immaginate un po’, di qua, che figura farà in teatro un sommo pontefice con dodici solenni cardinali e con tutto il seguito che per forza si devon tirar dietro. Giuro al cielo che sarà uno dei più grandi e solenni spettacoli che mai si sia visto in una commedia, foss’anche quella del Mazzolino di Daraja!’.

A questo punto mi persuasi del tutto che il primo era un poeta e il secondo un attore.




L’attore consigliò al poeta di tagliare un pochino sui suoi cardinali, se non voleva rendere impossibile al capocomico la rappresentazione del lavoro; al che il poeta rispose che doveva ringraziarlo se non ci aveva messo dentro tutto il conclave ch’era riunito durante i memorabili fatti che voleva richiamare alla memoria della gente nella sua magnifica commedia; il comico rise, e lo lasciò alle sue occupazioni per andare a fare il mestiere, ch’era quello di studiare una parte per una nuova commedia.

Il poeta dopo aver scritto qualche altra strofa del suo capolavoro, con molta compostezza e molto tono tirò fuori di tasca alcuni tozzi di pane e una ventina di chicchi d’uva passa, che a quel che mi pare, gli contai a uno a uno, e sono ancora in dubbio se fossero proprio tanti, perché insieme con essi c’erano, a far numero, certi bricioline di pane che li accompagnavano.




Ci soffiò sopra e fece cadere le briciole e poi, uno alla volta, si mangiò i chicchi d’uva con tutti i gambi, giacché non gliene vidi buttar via nemmeno uno, spingendoli giù con i tozzi di pane che, colorati com’erano dalla fodera della tasca, sembravano ammuffiti, ed erano talmente duri di indole che, sebbene egli cercasse di ammorbidirli girandoseli in bocca molte e molte volte, non riuscì a smuoverli dalla loro ostinazione.

Il ché ridondò infine a mio vantaggio, perché me li tirò dicendo:

‘TOH! TOH! PRENDI, E BUON PRO TI FACCIANO!’.

‘Guarda un po’,

…dissi tra me,

‘che nettare e che ambrosia mi dà questo poeta, sebbene sogliano dire che di ciò si mantengono gli Dèi e il loro Apollo, su in cielo!’.




In realtà, almeno per la maggior parte, la miseria dei poeti è grande; ma il mio bisogno era più grande ancora, se mi costrinse a mangiar quello ch’egli buttava via. Finché durò la composizione della sua commedia, egli non tralasciò un sol giorno di venire nell’orto, né a me vennero a mancare tozzi di pane, perché egli li divideva con me con grande liberalità; poi ce ne andavamo alla noria, dove, io a quattro zampe ed egli con il secchio, ci si toglieva la sete come due re. Ma poi il poeta non venne più, ed in me la fame giunse a tal punto che decisi di abbandonare il mio amico e di andarmene in città a tentare la sorte, ché chi cerca trova...




Alla morte di don Chisciotte e dopo le prime condoglianze e la logica agitazione, gli amici lì riuniti, la governante e la nipote non seppero bene cosa fare, anche se poi, piano piano, agirono in modo ordinato durante il resto del giorno, quasi quella fosse allo stesso tempo la prova generale e il debutto di una così triste e memorabile giornata, e fecero quanto ritenevano indispensabile per confortare il dolore degli altri, alleggerendo in questo modo il proprio.

Alla morte di don Chisciotte… e dopo, presso non più il capezzale, ma dall’Ospedale alla Tomba, eterno Sepolcro ed Altare del sommo Maestro, e con lui accompagnato, chi al meglio lo ha dapprima creato e poi resuscitato, qual specchio della grande Anima araldo della nobile dimenticata casata, ornare edificando lo Spirito avvilito e vilipeso, coniare  sommo Dialogo e motto: profilo con due cani affamati di saggia antica dismessa somma Verità…




SCIPIONE. Amico Berganza, lasciamo questa notte l’ospedale in guardia della Fiducia e ritiriamoci in questo luogo solitario, su queste stoie, dove, senza che nessuno ci veda, potremo godere di quest’insolito favore che il cielo ci ha fatto a tutte e due nel medesimo tempo.

BERGANZA. Fratello Scipione, io sento che tu parli e so che io parlo a te, né posso persuadermene, perché mi pare che il parlar noi passi i limiti del naturale.

SCIPIONE. È vero, Berganza, e tanto maggiore viene ad essere questo prodigio in quanto che parliamo non solo ma parliamo e ragioniamo, come se fossimo capaci di ragione; mentre tanto ne siamo privi che la differenza tra il bruto e l’uomo consiste nell’essere l’uomo animale ragionevole e il bruto no.

BERGANZA. Quanto tu dici, o Scipione, io lo capisco; e il dirlo tu e il capirlo io mi è causa di nuova maraviglia. Ben è vero che nel corso della mia vita spessissimo e in diverse occasioni ho sentito ricordare i grandi pregi che noi abbiamo, tanto che pare ci siano stati alcuni i quali hanno volentieri creduto che noi abbiamo in molte cose un istinto particolare così vivo e così fino da offrire indizio e argomento che poco manca a dimostrare che abbiamo un non so che d’intelligenza, capace di ragionamento.




SCIPIONE. Quel ch’io ho sentito lodare ed esaltare è l’aver noi molta memoria, la gratitudine e la fedeltà nostra, tanto che si è soliti dipingerci come simbolo dell’amicizia. E cosí avrai visto (se ci hai badato) che sulle tombe di alabastro su cui di solito sono ritratti quelli che lí giacciono sotterrati, mettono, quando sono marito e moglie, fra l’uno e l’altro, giù da piedi, una figura di cane per significare che si serbarono in vita amicizia e fedeltà invidiabile.

BERGANZA. So bene che ci sono stati cani così riconoscenti che si sono buttati dentro la stessa sepoltura con i morti corpi dei loro padroni; altri che si sono accucciati sui sepolcri dove erano sotterrati i loro proprietari, senza più discostarsene, senza più mangiare fino a lasciarsi morire; so pure che dopo l’elefante, il primo a sembrare di avere intelligenza è il cane, poi il cavallo e in ultimo la scimmia.

SCIPIONE. Così è, però ben vorrai confessare di non avere mai visto né sentito dire che qualche elefante, o cane, o cavallo o bertuccia abbia parlato; perciò son per credere che questo nostro parlare così a un tratto rientra nel numero di quelle cose che son chiamate prodigi, al mostrarsi e all’apparire dei quali l’esperienza ha dimostrato che qualche grande calamità minaccia il mondo.




Alla morte di don Chisciotte tutto si fece un po’ più confuso ma anche più chiaro di prima…

…E accadde anche un’altra cosa…

…Alla morte di don Chisciotte, i più ingenui (o più ignoranti) pensarono che anche le sue storie avrebbero avuto fine (per abdicare il sogno ad innominati incubi, per tacitare ed abdicare la Natura ad ingannevoli sofferenze neppure svelate in tutta la loro abietta statura in ciò che compone sofferto contrario principio alla Lei per sempre avverso), proprio come, anche se il paragone non è elegante, si vuol dire: morto il cane, niente più rabbia.




BERGANZA. Grazie, amico Scipione, perché se non mi avvisavi, tanto mi andavo infervorando a dire che non mi sarei fermato finché non ti avessi esposto un libro intero, di quelli che mi tenevano in inganno. Ma verrà tempo che potrò dir tutto con migliori ragioni e con miglior procedimento d’ora.

SCIPIONE. Guardati un po’ ai piedi e disfarai l’arcolaio Berganza; voglio dire che tu rifletta che sei un animale privo di ragione e che, se ora mostri averne un po’, siamo rimasti tutti e due d’accordo essere cosa soprannaturale e non mai veduta.

BERGANZA. Così sarebbe se io stessi nell’ignoranza di prima; ma ora che m’è venuto a mente quel che avrei dovuto dire al principio della nostra conversazione, non soltanto non mi maraviglio del mio parlare, ma sono stupito di quello che tralascio di dire.

SCIPIONE. Ma allora, non puoi dire quello di cui adesso ti ricordi.

BERGANZA. È una certa avventura che mi accadde con una gran fattucchiera, discepola della Camaccia di Montiglia.

SCIPIONE. Voglio che me la racconti prima che tu vada avanti nel racconto della tua vita.

BERGANZA. No davvero, finché non sia tempo. Abbi pazienza e ascolta, per ordine come mi sono accaduti, i miei casi, ché così ne avrai più piacere; se pure il desiderio di conoscere quei di mezzo prima di quei di cima, non ti sia molesto.

SCIPIONE. Sii breve e racconta quel che vuoi e come vuoi.




BERGANZA. Dico dunque che io mi trovavo bene con l’ufficio di guardiano del gregge, parendomi di mangiare il pane dei miei sudori e delle mie fatiche, e che l’ozio, causa e padre di tutti i vizi non avesse a che fare con me, perché riposavo il giorno; non dormivo la notte, dovendo stare all’erta per gli assalti che ogni poco ci davano i lupi. E appena i pastori mi avevano detto: al lupo, Rossino! io correvo prima degli altri cani verso dove m’indicavano che c’era il lupo. Mi davo a correre per le valli, frugacchiavo per i monti, penetravo nei boschi, saltavo botri, attraversavo strade e la mattina facevo ritorno al branco senza aver trovato del lupo neppur la traccia, ansimante, sfinito che cascavo a pezzi, con i piedi spaccati dai rovi; e nel branco trovavo ora una pecora uccisa ora un montone sgozzato e mangiato mezzo dal lupo. Io mi disperavo nel vedere quanto poco servisse il mio tanto zelo la mia tanta diligenza. Capitava il padrone del gregge: i pastori gli uscivano incontro con la pelle della bestia uccisa: lui incolpava di trascuratezza i pastori e ordinava di castigare i cani come poltroni. Sopra di noi piovevano legnate e sopra di loro rimproveri. 




Perciò un giorno che mi vidi castigato senza aver colpa, e che la mia attenzione, sveltezza e bravura non giovavano a cogliere il lupo, mi decisi a cambiare modo, non più stancandomi per cercarlo, com’ero solito,  lontano dal gregge, ma tenermi sempre vicino a questo. Poiché li veniva il lupo, lì più sicuro sarebbe stato il prenderlo. Ogni settimana si dava un allarme; e una notte scura scura, pure riuscii a scorgere i lupi da cui il gregge non avrebbe potuto guardarsi. Io mi accovacciai dietro un cespuglio; i cani, miei compagni, passarono oltre; spiando di lì, vidi che due pastori, agguantato un montone, fra i migliori dell’ovile, l’ammazzarono sì che la mattina sembrò che davvero il lupo fosse stato il carnefice. Gran sorpresa fu la mia, stupefatto al vedere che i lupi erano i pastori e che quegli stessi sbranavano la mandria i quali avrebbero dovuto guardarla. Al loro padrone facevano subito sapere che il lupo aveva predato, gli davano la pelle e parte della carne; essi poi se ne mangiavano il più e il meglio. Il padrone, da capo a rimproverarli, e da capo anche il castigo ai cani. Lupi non ce n’era e il branco scemava! Avrei ben voluto svelare la cosa, ma non avevo la favella; e tutto questo intanto mi riempiva di maraviglia e di amarezza.

‘Dio buono! dicevo fra me; chi potrà metterci riparo a questa iniquità? Chi sarà capace di far comprendere che il difensore è che offende, che le sentinelle dormono, che la fiducia è ladra e che colui che vi bada è quello che ammazza?’.

(Prosegue alla morte di don Chisciotte [capitolo completo] )