Precedenti capitoli:
La Natura mia madre (46)
Prosegue in:
...& il loro 'Verbo'... (48)
MA CHI SEI TU CHE PARLI DEL NOSTRO FEUDO!
(sbraita urla impreca e colpisce non vista la calunnia asservita serva
del secolar suo prezioso padrone il quale tante volte abbiam dipinto fra una
riga fra una strofa fra un Pensiero attraverso il Sentiero di un bosco con cui
comporre nobile Natura ma quantunque senza mai dargli un nome degno di
qualsivoglia onore giacché anche questo [conferire nome] comporta e sottintende
[ed ammette una creazione] una specie un regno sicché nominar tal materia
privata di ogni Natura è offendere qualsiasi Dio; ed allora nominiamo ciò che
era ed è pur la strana apparenza la quale inganna ogni vista: FEUDO di una
Storia mai compresa e condivisa, nella differenza, di chi servo del proprio
padrone qual vera propria misera e meschina bassa natura, privata cioè, della
qualità del PENSIERO il qual rende - o dovrebbe - l’uomo differente fra ciò che
caccia e da cui per sempre cacciato da una vendetta coniata che fanno dell’Elemento,
ogni Elemento, padre supremo di una mistica che difetta di pietra calce e
architettura e nell’apparente povertà dell’intelligenza, quella, in verità e
per il vero, con cui si compone l’Universo intero… privata cioè, del dono della
parola… Solo talvolta si ode qualche Verso strano comporre l’antica Rima della
vita come un frusciare di chiome come un ululato di lupo come un soffio di
vento annunciare la Primavera o l’Inverno ancor più astuto Diavolo taciuto… E
come detto il Feudo scalciar l’ordine antico quell’ordine mai compreso… che lo
vogliono Secondo e mai Primo in questa Giostra di cui si compone la misera sua
vita…)
“Va’ per la tua strada, passa, imperatore, tu sei fermo sul tuo cavallo,
io son fermo sul mio cippo, anche di più. Tu passi, io non passo. Perché io
sono la Libertà”.
Ma non ho il coraggio di dire cosa accade di quest’uomo.
L’aria gli si fa pesante attorno, e respira sempre meno. Sembra
incantato. Non può più muoversi. Sembra paralizzato. Anche le sue bestie
dimagriscono, sembra che gli abbiano gettato un malocchio. I suoi servitori
muoiono di fame. La sua terra non produce più. Gli spiriti di notte la
spogliano.
Resiste:
“In casa propria il pover’uomo è re”.
Ma non lo lasciano in pace.
Viene citato, e deve rispondere alla corte imperiale. Ci va, fantasma
del vecchio mondo, di cui nessuno sa più nulla. “Cos’è?” dicono i giovani. “Come,
non è signore, non è servo. Allora non è niente?”
“Chi sono?”
“Sono colui che piantò il Primo Albero della che ho arginato i fiumi,
ho coltivato l’alluvione, io ho creato la terra, come Dio che la trasse dalle
acque. Da questa terra, chi mi caccerà?”.
“No, amico,” dice il vicino, “non ti cacceremo via. La coltiverai,
questa terra... ma non come credi…”.
…ED INTANTO LA NATURA SUA FIGLIA…
…Ecco, si prostra, l’adora. Prima gli rende l’omaggio, nelle forme del
Tempio, simbolo dell’abbandono assoluto della volontà. Poi il suo padrone, il Principe
del mondo, il Principe dei venti, le soffia come uno spirito di tempesta.
Riceve insieme i tre sacramenti a rovescio, battesimo, sacerdozio, matrimonio.
In questa nuova chiesa, esatto specchio dell’altra, tutto deve essere
rovesciato. Sottomessa, paziente, sopportò la crudele iniziazione, sorretta
dalla parola: vendetta. Nient’affatto sfinita, invece di perdere le forze alla
folgore infernale, si rialzò che faceva paura, gli occhi scintillavano. La luna
che, casta, s’era un momento velata, si spaventò a rivederla. Gonfia da far
spavento del vapore infernale, di fuoco e di furore, di (novità) un certo qual
desiderio, fu per un momento enorme di questo eccesso di pienezza, e d’una
bellezza orrenda. Si guardò intorno.
E la natura era cambiata.
Gli alberi avevano una lingua, raccontavano le cose passate. Le
erbe erano dei semplici. Certi arbusti che ieri pestava come fieno, erano ora
persone, e parlavano di medicina. Si svegliò l’indomani tranquilla e sicura,
lontano, molto lontano dai suoi nemici. L’avevano cercata. Non avevano trovato
che qualche lembo sparso della fatale veste verde. S’era buttata, disperata,
nel torrente? Il demonio l’aveva rapita viva? Chissà. In ogni caso, dannata,
non c’è dubbio. Che consolazione, per la signora, non averla trovata! L’avessero
vista, l’avrebbero riconosciuta appena. Tanto era cambiata! Solo gli occhi
restavano, non brillanti, ma armati di una stranissima luce, poco
tranquillizzante. Lei stessa aveva paura di fare paura. Non li abbassava.
Guardava di lato; nell’obliquità del raggio, ne ostacolava l’effetto. Di colpo
scura, si sarebbe detto che fosse passata
sulla fiamma. Ma chi osservava meglio avvertiva che questa fiamma era in lei,
che possedeva un impuro e ardente fuoco… ed aspro è l’inverno, lungo e triste
nel tetro nord-ovest suo Regno. Anche quand’è finito, a volte riprende, come un
dolore addormentato, che torna, a volte infierisce.
Un mattino, tutto si sveglia addobbato d’aghi brillanti. In questo
ironico splendore, crudele, dove la vita rabbrividisce, tutto il mondo vegetale
sembra essersi fatto minerale, perde la dolce varietà, diviene rigido e ruvido
di cristalli. La povera Natura ora Sibilla, al torpore del misero fuoco di
foglie, sferzata dalla tramontana pungente, sente la verga severa nel cuore.
Sente il proprio isolamento. Ma proprio questo la sorregge. Ritorna l’orgoglio,
e insieme una forza che le scalda il cuore, illumina lo spirito. Tesa e viva,
penetrante, la vista le diventa acuta come questi aghi, e il mondo che lei
patisce, questo mondo crudele, è trasparente come vetro. Allora ne gioisce,
come d’una conquista sua.
Non ne è la regina?
Non ha una corte?
C’è un rapporto evidente tra lei e i corvi. In schiera dignitosa, seri
seri, vengono, come antichi àuguri, a parlarle delle cose del tempo. I lupi
passano timidi, salutando con occhiate di traverso. L’orso (meno raro allora) a
volte si siede goffo, colla sua mole bonaria, sulla soglia della caverna, da eremita
in visita a eremita, come sovente si vede nelle ‘Vite’ dei padri del deserto. Tutti,
uccelli e animali, che l’uomo quasi non conosce che perché li caccia e li
uccide, sono dei proscritti, con lei. Si capiscono. L’Innominato Dèmone è il
grande proscritto, e dà ai suoi la gioia delle libertà della natura, la gioia
selvaggia d’essere un mondo che basta a se stesso. Aspra libertà solitaria,
salve. Tutta la terra sembra ancora vestita di un sudario bianco, prigioniera
di un ghiaccio pesante, spietati cristalli uguali aguzzi crudeli.
Lui il Dèmone antico non l’ha previsto, che non si potesse soddisfarla
con nessuna creatura. Quel che non ha potuto lui, lo fa un non so che di cui
non si sa il nome. A questo desiderio immenso, profondo, vasto come un mare, lei
cede, si addormenta. In questo momento, senza ricordi, senza odio né pensiero
di vendetta, innocente suo malgrado, dorme sulla prateria, proprio come chiunque
altra, la pecora o la colomba, distesa, raggiante; non oso dire, innamorata.
Ha dormito, ha sognato.
Che bel sogno!
Come dirlo?
Il mostro meraviglioso della Vita
Universale si è sprofondato in lei; ormai vita e morte, tutto porta dentro, e
al prezzo di tanti dolori, ha concepito… la Natura.
(…ispirato da Jules… & da una Strega…. Ed accompagnato dalle fotografie di: Shane Salzwedel)