giuliano

sabato 28 gennaio 2017

SALVARE NOI STESSI (6)








































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Salvare noi stessi (5)

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Corri uomo corri! (7/1)














Vi è poi una terza condizione di estraneità, nella quale lo Straniero è interpretato quale concetto chiave e primario dallo gnosticismo.
Gli gnostici infatti portano infatti alle estreme conseguenze l’uso della metafora presente nel Vangelo di Giovanni. E ciò, in una duplice direzione. Da un lato, lo Straniero, in quanto oggetto, diventa il mondo, concepito come lo Straniero esterno e cioè il nemico per antonomasia. Dall’altro, lo Straniero, in quanto oggetto, coincide ora con lo stesso gnostico. La radicalizzazione dell’oggetto corre parallela con la radicalizzazione del soggetto, come effetto di un dualismo cosmologico che si radica in un processo di demonizzazione totale del cosmo.
In questa prospettiva, la caratteristica principale dell’uso gnostico della metafora può individuarsi nel fatto che tendono a scomparire i gradi intermedi rilevati nell’uso cristiano. Lo gnostico è uno Straniero esterno, che non ricerca né vuole avere alcuna possibilità di compromesso, alcun permesso di soggiorno temporaneo nel mondo. Anzi, si può dire che il suo problema consista appunto nel rendersi conto di questa sua condizione: soltanto quando ne avrà preso consapevolezza, gli si aprirà veramente quella possibilità di ritorno in patria (celeste), che costituisce la sua unica ancora di salvezza.




Questa concezione dello gnostico come Straniero si fonda su di un radicale sentimento di estraneità al mondo, che porta alle sue estreme conseguenze spunti platonici, biblici e cristiani. Attraverso l’analisi del collegato vocabolario gnostico è possibile cogliere una climax, che aiuta a comprendere come l’autoconsapevolezza dello gnostico come Straniero sia il punto di arrivo di un processo di progressiva estraneazione nei confronti del mondo.
L’estraneità al mondo che vive lo gnostico e descrivono i testi gnostici è prima di tutto un sentimento, il quale riflette una condizione esistenziale di disagio. La descrizione di questa situazione conosce varie sfumature, che aiutano meglio a comprendere la profondità e la raffinatezza dell’analisi psicologica soggiacente ai testi gnostici. Si va da un senso iniziale e generico in cui essere estraneo o Straniero coincide in fondo con l’esser strano o con la ‘novità’ della situazione. Questa iniziale e indistinta situazione si precisa nella misura in cui approfondisce il confronto col mondo e le sue potenze, un mondo avvertito in tutti i sensi ostile.



Anche se i testi gnostici mettono il lettore di fronte a uno spettro variegato di posizioni dualistiche, quelle che ora devono interessare sono le espressioni più decise e conseguenti, che presuppongono una concezione dualistica radicale, fondata a sua volta su di una concezione totalmente pessimistica del mondo e del suo creatore. E, allora, confrontandosi con questo mondo e col suo signore che lo gnostico prende progressivamente consapevolezza della stranezza del mondo e, nel contempo, della sua totale estraneità a questo mondo. Quest’ultimo, inizialmente avvertito come qualcosa di estraneo, di diverso da noi, da ‘me’, dal vero io o sé, senza che questa estraneità comporti però una reale presa di distanza, in una seconda fase o in un secondo stadio di questo percorso ideale di estraneazione e, per converso, di presa di consapevolezza della propria estraneità, si configura non soltanto per noi ma anche per sé come qualcosa di estraneo, un quid di minaccioso ed ostile.
Il terzo stadio, di questo processo ideale può essere individuato nel sorgere e nel manifestarsi di un sentimento di estraneità quanto tale, in sé. Gli gnostici quindi sono gli Stranieri per definizione, in quanto appartengono non ad un tertium genus (il che presume il diritto ad esistere di due altri genera e la necessità di essere riconosciuti da questi), ma alla stirpe straniera per definizione, che si presenta e coincide con l’unica stirpe ‘vera’. 




Questa orgogliosa consapevolezza trova espressione in talune affermazioni che i testi gnostici mettono in bocca al loro rilevatore. Così, nella seconda Apocalisse di Giacomo, il rivelatore gnostico, identificato col Cristo risorto, esclama a Giacomo: ‘Io sono lo Straniero’; o Mani, un personaggio storico fondatore di una tipica religione di gnosi come il manicheismo, definisce se stesso ‘il primo Straniero, lo Straniero proveniente dalla grande gloria, il figlio del dominatore’; e così si definisce anche il salvatore nei testi mandei.
Ma lo gnostico è Straniero, così come lo è il rivelatore, perché, in ultima analisi, Straniero è lo stesso Dio della gnosi, nella sua assoluta trascendenza inaccessibile alla ragione umana e conoscibile soltanto mediante rivelazione della gnosi: in questo mondo, il volto del Cristo neotestamentario, vicino e lontano nel contempo, si è trasformato nel volto di un Dio Straniero, assolutamente inaccessibile, salvo, appunto, che per chi è a lui consustanziale.
Lo Straniero, di conseguenza, viene a chiamare lo Straniero, viene a salvare gli stranieri; e, viceversa, salvando gli stranieri dispersi nel mondo, Egli salva se stesso.


(G. Filoramo, Veggenti Profeti Gnostici)  

















martedì 24 gennaio 2017

CIO' CHE NON MUORE RISORGE (2)


















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Ciò che non muore risorge (gennaio...) (1)


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Ciò che conta! (3)














Infatti ci vedranno fra breve esitare ad imporre le più modeste norme di sicurezza ambientale nella costruzione delle automobili o a esigere che le società finanziarie dicano la verità sugli interessi richiesti per i prestiti che concedono.  Hanno intuito che la criminalità organizzata, questo impero della corruzione, della venalità ingorda e dell’estorsione, continua a prosperare, non soltanto tollerata ma spesso alleata a importanti personalità dei sindacati, del mondo degli affari e del governo.
Per queste ragioni - ora rinnovate ed aggiornate - forse molti giovani come molte donne nel loro manifesto disprezzo per gli eccessi del ‘materialismo’ di una falsa e non solo ingorda ricchezza ma dannosa economia, fanno eco agli insegnamenti di un altro giovane ribelle:

“Ed Egli mandò via i ricchi a mani vuote”.

Ma come ben vedete nel mio ed altrui sacrificio nulla servito perché i ricchi escono dallo stesso mio e vostro ‘studio’ a mani piene di monete e non solo… Ma ciò che respingono questi giovani è qualcosa di più di questi abusi dovuti al principio del profitto; spesso è proprio la natura del materialismo della nostra comune società e le sue conseguenze che li portano ad un ragionevole e rivoluzionario rifiuto.




I sobborghi come avete visto rimangono ‘scatolette sparse su una collina… tutte fatte di cartapesta come un gioco di bambini con i loro giochi, tutte uguali’. ‘Col danaro non mi compero l’amore’, cantano. Ai loro occhi, misuriamo troppo spesso il valore di un uomo in base allo stipendio o a quello che possiede. In definitiva, ritengono che la vecchia generazione abbia rinunciato ai valori sociali e personali in cambio di ‘giocattoli’ che una volta qualcuno ha definito ‘una collezione di passatempi per gente immatura’.
Infatti approfondendo e aggiornando questo concetto, al proliferare di spazi inaccessibili e fortificati, si osserva una sempre più scarsa presenza dei luoghi pubblici, che invece dovrebbero favorire l’incontro, il dialogo, il confronto e lo scambio tra gli individui. Al loro posto sorgono invece nuovi spazi, creati appositamente per il consumo.  Le comunità locali e gli spazi pubblici non sono più quelli di una volta: perdendo ogni legame con il territorio e la capacità di essere occasioni di incontro, viene meno anche la loro funzione principale, cioè quella di aggregare le persone e tenerle unite.




Nei luoghi di riunione si creavano anche norme, in modo da poter fare giustizia e da imporla orizzontalmente, sì da trasformare coloro che parlavano in una comunità, separata dagli altri e integrata al suo interno da criteri comuni e condivisi di valutazione. Ora, un territorio che venga privato di spazi pubblici offre scarse possibilità perché le norme vengano discusse, i valori messi a confronto, perché ci siamo scontri e negoziati. Ciò che viene a mancare è dunque lo spazio del confronto costruttivo, della discussione e della condivisione dei valori; tutte attività importanti e necessarie per costruire e tenere viva una comunità.  “Lungi dall’essere terreno di coltura dello spirito comunitario, le popolazioni locali sono piuttosto accozzaglie di entità prive di legami reciproci”. Le persone che sono escluse e si trovano a vivere assieme nello stesso spazio, condividono semplicemente un vincolo territoriale, ma legami di altro tipo non sussistono; per questo, pur essendo dei gruppi, delle comunità, non possono essere paragonati alle comunità del recente passato.




Questi fenomeni sfociano nella disgregazione delle collettività e nell’erosione degli spazi pubblici, come luoghi di incontro, e producono una condizione, volontaria o imposta, di isolamento dell’individuo: c’è chi sceglie di isolarsi e fa di tutto per rimanere distaccato e chi invece si trova escluso, estromesso, per volontà altrui, perché gli viene negato l’accesso. Le élites hanno prescelto l’isolamento e, per ottenerlo, pagano generosamente e volentieri. Il resto della popolazione si trova tagliata fuori e costretta a pagare l’alto prezzo culturale, psicologico e politico del nuovo isolamento in cui è caduta. Quanti non hanno i mezzi per scegliere di stare separati e di pagare i costi di servizi di sicurezza, si trovano a vivere gli aspetti passivi di questo fenomeno attuale.
Da una parte si trovano dunque le persone che si barricano nelle loro fortezze e dall’altra le persone che sono costrette a rimanere all’interno dei loro spazi, perché estromessi dalle aree di potere. In questo modo la distanza tra le élites che sperimentano l’extraterritorialità e le persone che invece rimangono legate alla territorialità aumenta inevitabilmente, e questa disparità si fa sentire ancor di più se si considera che extraterritorialità vuol dire anche libertà, capacità di movimento, in opposizione alla stanzialità e ai vincoli imposti dalla territorialità:




“Se la nuova extraterritorialità della élite viene vissuta come una inebriante libertà, la territorialità degli altri non fa tanto pensare a una casa, a una base sicura, ma sempre più a una prigione, tanto più umiliante quanto più viene ostentata la libertà di movimento degli altri”.
…Abbiamo conservato gelosamente il nostro sistema educativo e soprattutto universitario considerandolo anch’esso uno dei pilastri della società liberale. Ma questa fede non è condivisa da tutti. Uno dei suoi critici ha detto: “L’educazione è per sua stessa natura un problema individuale… da mantenere al di fuori degli ingranaggi della produzione di massa. Il suo compito non è quello di produrre gente che, istintivamente, vada tutta nella stessa direzione… [eppure] i nostri milioni di studenti imparano tutti le stesse lezioni e trascorrono ore di fronte ad internet o alla televisione guardando più o meno le stesse cose e le stesse cose condividere in ugual identico momento. Per una ragione o per l’altra trascuriamo sempre più le differenze, quando addirittura non cerchiamo di dimenticarle. Andiamo diritti verso la standardizzazione dei cervelli, verso quello che Goethe chiamava ‘il mortale luogo comune che ci incatena tutti’ ”.





Chi ha parlato così non era un oratore di una manifestazione di Berkeley; era Edith Hamilton, uno dei nostri massimi cultori degli studi classici.
Giudizi molto simili vengono pronunciati dai nostri giovani critici. Così ha parlato un rappresentante degli studenti in una riunione del consiglio di amministrazione dell’università di California: “Abbiamo chiesto di essere ascoltati! Avete rifiutato e continuato a firmare accordi in nome del vostro business! Abbiamo chiesto giustizia e non solo per i neri. L’avete chiamata anarchia senza il dovuto codice a barre! Abbiamo chiesto la libertà al di fuori del limitato intento da voi nominato ‘geografia’ globale! L’avete chiamata ‘licenza’. Piuttosto che affrontare la paura e la sfiducia che avete motivato ad ogni vostro evento rinnovato numerato dal ‘sette all’otto’ con il russo corrisposto, avete chiamato tutto questo ‘comunismo’. Ci avete accusato di essere usciti dalle giuste vie. Ma siete a voi a precludercele con ogni vostro nuovo trattato e firma! Voi, non noi, avete edificato le università e non solo quelle sulla sfiducia e sulla disonestà”.




È impossibile fraintendere l’angoscia che scaturisce da queste ed altre proteste. Possono esserci molte cose dietro quel grido, ma una di queste è certamente la protesta dell’individuo contro l'‘universalità’ divenuta una corporazione burocratica troppo spesso foraggiata da interessi privati, contro l’ottusa standardizzazione di cui parlava Hamilton. Perché nella burocrazia e nella standardizzazione (anche con la virtuale e confusa se non addirittura mascherata  pretesa del contrario) c’è la negazione del valore dell’individuo e dell’importanza dell’uomo come tale: se tutti sono uguali, perché ascoltare ciò che il singolo ha da dire? Se non siamo disposti ad ascoltare, allora gli uomini non sono altro che numeri di una serie di statistica, una parte del prodotto nazionale lordo, come tante tazzine da caffè o tanti computer ove a piacimento ricavare dati o se non altro rubarli o spiarli…



         














domenica 22 gennaio 2017

LE NOSTRE MONTAGNE DA SALVARE (2)







































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Le nostre montagne... (1)














Il Cluverio suppose che questi monti sorgessero verso Norcia, ma l’Olstenio li ha indicati fra Rieti e Leonessa, ove le loro falde ed alture prestano ancor oggi copiosi ed eccellenti pascoli estivi alle greggi: sunt haud dubie montes inter Reate et Leonessam pascuis ovium aestivis per omnem hanc Italiae partem celeberrimi. L’ab. Chaupy poi ne fissò la topografica loro ubicazione presso Poggio Bustone nell’Umbria, fra l’una e l’altra città menzionate dall’Olstenio. Il Monte Severo poi, sebbene Virgilio lo descriva presso le orride rupi del Tétrico: Qui Tetricae horrentes rupes, montumque Severum, nondimeno il Biondo e Leonardo Alberti lo hanno riposto a Montenegro, e il Cluverio a Norcia: ma l’ab. Chaupy lo ha determinato nei monti di Cantalice, oggi Cima di Monte, monti di Corno e Tilia, divisi dal monte Fiscello dalla sopradetta valle del Fuscello. E sembra che quest’ultima opinione sia la più vera mediante il commento fatto da Servio al verso di Virgilio: Montemque Severum, proprium nomen montis est, sicut agri Roseus. Or si conosce bene che la rosea rura dello stesso poeta si applica alle pianure del fiume Velino e per conseguenza il Severus mons doveva avere base nel suo campo.
Descritto così topograficamente il gruppo del Terminillo, dobbiamo ora descrivere gli itinerari che si possono seguire per salire alla vetta principale. Essi sono sufficienti a dare nello stesso tempo una idea abbastanza esatta di tutto il gruppo. Da quattro punti principalmente si può incominciare l’ascensione: da Rieti, da Antrodoco, da Sigillo e da Leonessa.




Rieti è la graziosa città Umbra di 16.822 abitanti che siede presso la riva destra del fiume Velino, ai piedi di una collina, in un vasto piano verdeggiante, cosparso di laghetti, fertilissimo, coperto di vigne. La linea ferroviaria che rilega Terni (stazione sulla linea Ancona-Orte-Roma) ad Aquila e Castellamare Adriatico, ha una stazione a Rieti a 41 chilometri da Terni, ed a 63 da Aquila.
Antrodoco è una piccola città bagnata dal fiume Velino, tutta intorno circondata da alte montagne ed addossata al Monte Giano, alto 1826 m. Bella è la sua posizione all’ingresso di parecchie valli ed anguste gole, principali quelle del Velino, che per Sigillo giungono fino a Posta, e quelle di Antrodoco per le quali passa tortuosa la via carrozzabile e la linea ferroviaria a tunnel elicoidali; gole memorande per la strage di circa 4000 francesi commessa nel 1799 dal popolo levatosi in massa. La strategica posizione di Antrodoco, situato a 490 m. d’altezza, fu riconosciuta dagli antichi Sabini che vi avevano, come indicano le tavole itinerarie, una città, e non un vico, come disse Strabone, Interocrea, nome che accenna alla sua situazione fra i monti. A difesa della città sorgeva sopra un colle nel medio evo una ròcca, della quale si vedono gli avanzi, che il Muratori nelle sue annotazioni alla «Storia d’Italia» chiama arx munitissima. In essa nell’anno 1231 si rifugiarono Bertoldo, fratello al Duca di Spoleto, il conte dei Marsi ed altri baroni, i quali, aiutati dai cittadini, fecero fronte ai soldati dell’imperatore Federico II fino al sopraggiungere dei soccorsi dei confederati che liberarono la ròcca dall’assedio. Antrodoco pure ha stazione ferroviaria sulla linea Terni Aquila-Solmona-Castellamare Adriatico, a km. 65 da Terni, ed a 39 da Aquila. Nè vogliamo dimenticare, giacché ci troviamo in questa regione, un’importante luogo degno di visita, situato fra Rieti e Antrodoco, a 5 km. da Cittaducale, a 14 da Rieti e quasi 8 da Antrodoco, vogliamo dire l’antica Cutilia ed il suo lago, ove Varrone pose l’umbilico o il centro d’Italia.




Cotila o Cotilia, riconosciuta nell’odierno borgo di Paterno, è di fondazione remotissima perché presso di essa dovean trovar pace i Pelasgi, secondo l’antichissimo oracolo di Dodona, inciso al dir di Dionisio d’Alicarnasso in un tripode con caratteri antichi nel tempio di Giove: Pergite quaerentes Siculum Saturnia rura Atque Aborigenum Cotylen, ubi se insula vectat Queis misti, decimas Clario transmittite Phoebo. Certo è che Cotila fu dapprima in dominio degli Umbri, che ne furono cacciati dai Sabini, i quali la tennero fino ai tempi romani. Cotile è parola greca e sembra derivare dal prossimo lago, detto parimente Cotile, ossia conca o cratere. Questo lago, che è l’odierno Pozzo di Ratignano, vicino ad un altro più grande detto Lago di Paterno, era dai Sabini tenuto sacro alla Vittoria, detta Vacuna in lingua sabina, e custodito con recinti, come inaccessibile. Soltanto in alcuni tempi si facean sacrifizi e coloro che vi convenivano ascendevano all’isoletta coperta di erbe e virgulti, che col diametro di circa 50 piedi emergeva solo un piede e galleggiava nel lago ove spingevala il vento, a somiglianza di quelle isole mobili fatte di pietra pomice, formata certo da concrezioni prodotte dalla natura delle acque. Presso Cotila sorse poi la villa paterna dell’imperatore Vespasiano, dove questi era solito recarsi nell’estate a godere le fredde acque che intorno vi scorrevano, acque solfuree ed acidule, villa che ei nomò Falacrine a ricordo del vico natale, e dove egli morì, e morì poi anche suo figlio Tito. Sigillo, situato a 621 m. d’altezza, è un misero borgo, frazione del comune di Posta, che nulla offre d’importante: ma importante è invece la via che vi conduce.




Questa via, di recente costruita carrozzabile, si svolge nelle anguste gole dette del Velino dal fiume che vi scorre. Si parte essa da Antrodoco e segue la riva destra del fiume addossata alle falde della giogaia centrale del Terminillo, mentre dal lato opposto sorge dirupato il Monte Giano (1826 m.). Le gole profonde e strette fra monti dirupati, ammirevoli nella loro varietà e nel loro aspetto, selvaggio sì, ma pur sempre bellissimo, erano percorse dalla antica via Salaria che serviva di comunicazione fra i Sabini e i Sanniti, e si vedono tuttora tracce della via antica e sopratutto i tagli colossali fatti nelle rupi per aprir l’adito alla strada.
Sigillo è a circa 10 chilometri da Antrodoco, ma le gole continuano fino quasi a Posta, due chilometri più oltre. Da Posta il fiume Velino scorre in ampia valle; al di là di Cittareale (12 km. da Posta, 24 da Antrodoco) trova le sue sorgenti nel luogo detto Capo d’Acqua alle falde del monte La Speluca, nella piccola valle di Falacrine, ove a poco meno di 4 km. dall’attuale Cittareale, era l’antico borgo Sabino di Falacrine (altri dicono Phacina), il cui nome è rimasto alla valle, vico celebre nella storia per aver dato i natali a Vespasiano.




Leonessa, graziosa cittadella di 5359 abitanti, elevata 974 m. sul livello del mare, è in un altipiano circondato dai monti che sorgono da un lato sulla valle del Velino, dall’altro sulla valle della Nera, ai piedi del monte Tilia (1779 m.) che negli scrittori è, più correttamente che nelle carte dello I. G. M., denominato Attilia.  A piccola distanza corre il fiumicello Corno che si scarica nella Nera. I monti vicini sono coperti di boschi di faggio, di querce, di cerri, ed offrono ricca caccia di volatili, cinghiali, lepri, volpi, lupi ed anche qualche orso. Questa cittadella, che fu costruita nel 1252, è menzionata nella storia per esser stata donata da Carlo V alla propria figlia Margherita, quando andò sposa ad Ottavio Farnese: e ricordano quest’epoca un superbo reliquario in argento di squisito lavoro, con lo stemma di casa Farnese, e la fontana fatta edificare da Margherita d’Austria nel 1548, sulla base della quale si leggono i seguenti distici che il tempo comincia a far scomparire: Dulcior hac nulla est, hac nulla salubrior unda Monstrorum licet e faucibus illa cadat Austriacae donum est Divae, quae non modo nobis Sed docet ingenium milius esse feris. Leonessa è un luogo veramente alpino per la sua posizione bellissima, per le amene escursioni che offre, per la sua elevazione; ma pur troppo vi mancano tutte le comodità che si rendono indispensabili a chi voglia farvi lungo soggiorno. A Leonessa adducono varie vie: la via carrozzabile di Antrodoco-Posta-Leonessa, lunga circa 26 km.; la via pure carrozzabile di Rieti-Morro-Leonessa, lunga circa 30 km. e quella che parte da Rieti o da Cittaducale ed è carrozzabile fino a Cantalice, e diventa poi mulattiera lungo il vallone di Cantalice dapprima e poi lungo il vallone del Tascino, ambedue pittoreschi.




Accennati così i principali luoghi dai quali possiamo partire per l’ascensione al Terminillo, vediamo ora le vie che dobbiamo seguire per compierla. Partendo da Rieti si può scegliere fra due itinerarii: quello per Cantalice e quello per Lisciano. Cantalice dista da Rieti circa km. 9 di via carrozzabile; Lisciano km. 7, pure di via carrozzabile. Da Lisciano in direzione di N. si comincia subito a salire sulla costa di Monte Calcarone, poi a circa 850 m. d’altezza si volge, abbandonando le falde del cennato monte, verso E. sempre continuando a salire, per piegare quindi a NE. Volgendo poi verso SE., in due ore e mezzo circa da Lisciano si arriva alla località impropriamente detta Piano dei Faggi, la quale non è che il declivio di un colle, ove sgorga, in una serie di trogoli scavati nei tronchi d’albero e l’uno all’altro sovrapposti, una sorgente di limpida, fresca ed eccellente acqua.
Maestosi faggi stendono i loro rami in tutte le direzioni. Si sale dipoi ad una specie di colle che è quasi un contrafforte del monte, e dopo una ripida salita si scoprono le prime rocce del Terminillo, tutte a picco, interrotte qua e là d’estate da piccoli nevai. Si trovano quindi vari pozzi di neve ed in 6 ore circa da Lisciano si giunge alla vetta del Terminilletto, denominazione omessa nella carta dell’Istituto Geografico Militare e che alcuni impropriamente denominano Terminillo, per dare il nome di Sassatelli alla cima più elevata, mentre il nome di Sassatelli spetta ad una punta alta 2079 m. che è sulla cresta che si parte in direzione di NO. dalla cresta più alta. Dal Terminilletto (2108 m.) occorre un’ora (d’estate) per giungere al Terminillo (2213 m.) e la via, che presenta d’inverno difficoltà fortissime, tanto da dare il carattere di vera ascensione alpina di prim’ordine a questa del Terminillo, d’estate offre una piacevole e variata arrampicata non priva di emozioni. 




Dal Terminilletto occorre discendere per un certo tratto sopra una cresta sottile di roccia frantumata che forma lo spartiacque dei due ripidissimi pendii del monte: qua e là sorgono spuntoni di roccia compatta che bisogna girare o attraversare; poi, dopo percorsa la lunga cresta, si sale ripidamente su per lungo dorso roccioso, per giungere al segnale trigonometrico elevato dall’Istituto Geografico Militare. Sono in tutto 7 ore da Lisciano per la salita: per la discesa saranno bastanti 4, d’estate ben inteso. D’inverno è ben difficile fare un calcolo; tutto dipenderà dallo stato della neve. Io partito una volta d’inverno da Antrodoco alle 4,50 ant., non giunsi sulla vetta che alle 4,15 pom. avendo dovuto impiegare quasi tre ore e mezzo per passare dalla vetta del Terminilletto a quella del Terminillo. Da Cantalice (680 m.) lasciando a sinistra il vallone omonimo, si esce in direzione di NE. per un sentiero che conduce al colle Varco (950 m.): quindi costeggiando a S. il colle Accuni (1218 m.), per un sentiero tutto sassoso attraverso alcune collinette si arriva al disopra del vallone di Tagliata, si piega a SE., si scende al vallone, si sale al di là verso il fosso delle Rocchette e quindi per un’erto pendio fra boschi si giunge alla cresta SE.-NO. che è fra Sassatelli (2079 m.) e il Terminillo (2213 m.). Anche questa cresta o schiena del monte, come quella NE. descritta, è molto irregolare e conviene ora salire, ora scendere, ora arrampicarsi su rocce; è però più breve e quindi più presto si arriva all’ultimo cono. Da Cantalice occorrono circa 8 ore per l’ascensione e 5 per la discesa, nella stagione estiva. Da Antrodoco si prende un sentiero che, attraverso una pittoresca zona di castagni, pel casale Manetti, conduce fino a monte Oro (1580 m.) e quindi ad una fontana detta fonte Corcina. Superata poi la zona dei faggi, si arriva alla regione più elevata e scoperta detta Campo Forogna (1751 m.) e quindi a Prato Comune, acrócori ondulati su cui si elevano i cocuzzoli e le erte rupi del monte. Si sale quindi al Terminilletto e da questo, per la via già descritta nell’itinerario da Lisciano, si arriva al Terminillo. Anche da Antrodoco occorrono circa 7 ore per la salita e 4 per la discesa. Da Leonessa (974 m.) si esce a SE. e si entra nella stretta gola dove scorre il fosso Tascino, dapprima fra i monti di Corno (1738 m.) a destra e della Croce (1873 m.) a sinistra, poi fra i monti La Tavola (1695 m.) e Catabio.




Dopo un lungo percorso, là ove sbocca il sentiero che viene da Cantalice, la gola piega verso E. ed assume il nome di Valle Vallonina; più innanzi volge verso S.: siamo nel pittoresco bosco Vallonina e passando per le ruine di un convento (1175 m.) si sale su pel bosco verso il vallone della Meta. Si giunge così in un bacino (1500 m.) contornato dalle punte del masso centrale del Terminillo. Qui due vie si presentano: o prendere a destra in direzione SO. uno degli aspri e rocciosi canaloni che adducono alla cresta (2014 m.) fra Sassatelli e Terminillo sopra descritta, via pittoresca ma più faticosa, oppure proseguire in direzione SE. per la regione Costa Gioiosa, girare le rocce che scendono dalla lunga cresta rocciosa che si stacca dal monte i Porcini (2081 m.), da altri detto Pozzone, in direzione NS. e salire per l’erto pendio orientale dell’ultimo cono. Anche da Leonessa si possono nella stagione estiva calcolare 7 ore per la salita e 5 per la discesa.
Aspra è la via da Sigillo per il Terminillo ed io che la percorsi in discesa, ne tornai coi piedi massacrati e le gambe rotte; è però molto pittoresca e sarebbe preferibile seguire questo itinerario in salita anziché in discesa. La via segue il torrente di Valle Scura che s’apre a occidente del villaggio. La lunghissima valle, pittoresca per la sua varietà ed i suoi monti rocciosi, s’arresta (1200 m.) di fronte ad una ripida parete rocciosa a scaglioni, che costituisce il versante orientale della più volte accennata cresta che parte dal monte i Porcini. Bisogna arrampicarsi su per gli scaglioni della parete seguendo un’erto e dirupato sentiero. Si giunge così a 1965 m. e per pascoli e quindi per rocce si arriva al Terminillo per la seconda delle vie accennate nell’itinerario da Leonessa. Da Sigillo l’ascensione richiede 6 ore in salita e 4 in discesa. Descritti gli itinerari per salire alla vetta del monte, diamo uno sguardo al panorama che, se abbiamo fortuna di una serena e limpida giornata, esso offre alla nostra vista. La felice posizione del Terminillo dà agio di scorgere lunga distesa del Mediterraneo da un lato ed un breve tratto dell’Adriatico dall’altro. A N. si ha la cresta dei monti che divide l’Abruzzo dall’Umbria da Monte Pizzuto a Monte Carpellone e un poco verso E. il bellissimo gruppo dei Sibillini con Monte Vettore (2477 m.) e Monte Sibilla.




Ad O. il verdeggiante piano di Rieti con i vaghi suoi laghetti ed al di là i monti dell’Umbria, principale di questi il Monte S. Pancrazio; a SO. oltre i colli Umbri nei quali primeggia la Tancia, la valle del Tevere e fino al mare Mediterraneo la campagna Romana, nella quale con un buon cannocchiale si distingue facilmente la città Eterna. Al S., dopo i colli Umbri che sorgono a mezzodì di Rieti e circondano Rocca Sinibalda, i monti della provincia Romana, i Simbruini, i Prenestini, gli Ernici. A SO. imponente sovra tutti il gruppo del Velino (2487 m.) che domina l’ampio bacino del Fucino, ed il Sirente (2349 m.). Ad E. il gigante dell’Apennino, il Gran Sasso d’Italia con le varie sue punte, Corno Grande (2921 m.), Corno Piccolo (2637 m.), Pizzo Cefalone (2532 m.) e Pizzo d’Intermesole (2646 m.). A NE. I monti della Laga col Pizzo di Sevo (2422 m.) e Pizzo di Moscio (2411 m.), al disopra di Amatrice. In una insenatura fra i monti della Laga ed il Gran Sasso una striscia azzurra indica il mare Adriatico. Questo nelle sue linee generali il vasto ed interessante panorama abbellito dal verde dei piani, dalle cupe rocce sottostanti, dagli estesi campi di nevi sempiterne, dalle valli intersecanti in tutti i sensi l’esteso territorio, dai numerosi paesi situati sui colli, nelle pianure, nelle vallate, fino alla città dominatrice del mondo.
Ecco il gruppo degno d’essere studiato e percorso, che d’estate offre piacevoli passeggiate, d’inverno difficili salite, ecco il monte ardito e bello che reclama un Rifugio che ne renda più facile la lunga salita e più agevole lo studio.

























sabato 14 gennaio 2017

AMMAZZARE IL TEMPO (chi lo ha ucciso?) (9)



















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Ammazzare il Tempo (chi lo ha ucciso?)

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Ammazzare il Tempo (chi lo ha ucciso?) (10)















Il tardo Terziario è il periodo che pone il maggior numero di difficoltà; d’altra parte, esso riveste un ruolo chiave per gli argomenti basati sui paleoanaloghi, visto che si tratta del primo periodo che si incontra, risalendo all’indietro gli archivi geologici, il cui clima globale ricostruito è più caldo di quello odierno in misura paragonabile a quanto previsto per il raddoppio equivalente della CO(2).
Fra i maggiori problemi posti dall’uso del tardo Terziario come analogo per il prossimo secolo, possiamo citare i seguenti fatti:
1) l’altezza dell’Himalaya, dell’altopiano del Tibet e delle montagne occidentali del Nord America era inferiore a quella odierna anche di 3 km;
2) l’oceano Atlantico e il Pacifico erano in collegamento alle basse latitudini, prima che si sollevasse, circa tre milioni di anni fa, l’istmo di Panama;
3) non esisteva, probabilmente, un’estesa calotta ghiacciata sulla Groenlandia, mentre la calotta antartica era di estensione assai minore e variabile;
4) dopo il tardo Terziario molti gruppi di organismi sono andati incontro a una sostanziale evoluzione dal punto di vista morfologico, così da rendere estremamente poco attendibile le ricostruzioni quantitative dei paleoclimi, che si basano in primo luogo sui dati offerti dai fossili della vegetazione terrestre;
    5) vi sono prove del verificarsi di marcate variazioni del clima globale durante il tardo Terziario, i cui andamenti periodici indicano come origine più probabile le variazioni della radiazione solare di origine orbitale. Tale variazione si è verificata su scale temporali troppo brevi per poter essere risolta in dettaglio con le tecniche di datazione disponibili, il che rende.....





impossibile ricostruire il clima globale di uno specifico periodo, con la sua specifica combinazione dei fattori di forzamento, dell’era Terziaria.
Fra questi fattori, l’importanza del solo sollevamento delle catene montuose è stata mostrata da studi condotti per mezzo dei modelli climatici che indicano come l’esistenza di climi più caldi dell’attuale possa essere già spiegata come risultato dei soli cambiamenti a lungo termine avvenuti nella topografia dei continenti.
Inoltre, la stima del livello di concentrazione della CO(2) nell’atmosfera in confronto al periodo post-glaciale porta alla conclusione che tale livello non fosse abbastanza alto da poter essere l’unica causa di un clima così caldo.
In tal modo, le rilevantissime differenze nello stato del sistema globale si combinano con l’indicazione offerta dall’importanza della topografia continentale in confronto al livello atmosferico della CO(2) fino a rendere il tardo Terziario del tutto inadatto ad essere usato come modello analogo del clima futuro.
Per quest’uso, l’ultimo periodo inter-glaciale presenta meno problemi; le principali condizioni climatiche al contorno erano assai simili a quelle attuali. Tuttavia, mentre il forzamento costituito dalla radiazione solare era differente da quello odierno come da quello della  metà del periodo post-glaciale, i dati tratti dalla carota di ghiaccio di Vostok non convalidano l’ipotesi che i livelli di CO(2) nell’atmosfera fossero più alti, durante l’ultimo periodo inter-glaciale, dei livelli subito precedenti alla rivoluzione industriale.





Anche questo periodo è dunque inappropriato come analogo per il futuro, perché ne differisce per la natura del forzamento che fa salire la temperatura su scala globale. Lo stesso vale per l’epoca posta alla metà del periodo post-glaciale; i livelli atmosferici della CO(2) erano simili a quelli subito precedenti la rivoluzione industriale, come pure i livelli degli altri gas serra di origine naturale, mentre il forzamento della radiazione solare significativamente diverso dal periodo attuale.
Per di più, anche se la temperatura media era più alta in molte zone ad alte latitudini dell’emisfero nord, una valutazione della temperatura media globale è giunta alla conclusione che è poco probabile che essa fosse superiore al valore attuale.
Le presenti conclusioni sono rafforzate dalle simulazioni paleoclimatiche realizzate con i modelli della circolazione generale (GCM) dell’atmosfera; la temperatura media globale simulata per i fattori di forzamento e le condizioni al contorno di 6.000 anni fa è quasi la stessa dell’attuale. In più, i climi simulati in base a un raddoppio equivalente della CO(2) differiscono per numerosi aspetti importanti dai paleoclimi simulati per i periodi di più intensa radiazione solare netta; differenze che nascono in primo luogo dall’irregolare distribuzione per stagioni e latitudini del forzamento della radiazione solare rispetto al forzamento uniformemente distribuito, nel tempo e nello spazio, dell’aumentato livello dei gas serra.
Per tutto ciò, siamo costretti a concludere che, per quanto attraente possa sembrare l’idea, i paleoclimi non sono in grado di offrire accettabili analogie per i climi più caldi che ci aspettano nel nostro futuro.