giuliano

lunedì 29 maggio 2023

LA LORO 'RAGIONE'

 









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Gente di confine


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Nella enumerazione dei fattori capaci di impressionare l’anima delle folle potremmo fare a meno di nominare la ragione, se non fosse necessario indicare il valore negativo della sua influenza.

 

Abbiamo già dimostrato che le folle non sono influenzabili coi ragionamenti, e non comprendono che grossolane associazioni di idee. Gli oratori che sanno impressionarle, non fanno mai appello alla loro ragione, ma ai loro sentimenti.

 

Le leggi della logica razionale non hanno nessun potere sulle folle.




Per convincere le folle, bisogna prima rendersi ben conto dei sentimenti da cui sono animate, fingere di condividerli, poi tentare di modificarli, provocando, per mezzo di facili associazioni, certe immagini suggestive, saper tornare - al bisogno - sui propri passi, e soprattutto indovinare in ogni momento, i sentimenti che si suscitano. La necessità di variare il proprio linguaggio secondo l’effetto prodotto nel momento in cui si parla, rende inefficaci i discorsi preparati e studiati. L’oratore, seguendo il suo pensiero e non quello dell’uditorio, perde soltanto per questo, tutta l’influenza.

 

Gli spiriti logici, abituati alle concatenazioni dei ragionamenti un po’ serrati, non possono far a meno di ricorrere a questo metodo di persuasione quando si rivolgono alle folle, e poi restano sempre sorpresi della mancanza di effetto dei loro argomenti.




 Le conseguenze matematiche usuali fondate sul sillogismo, vale a dire su associazioni d’identità, scrive un logico, sono necessarie. La necessità porterebbe all’assentimento di una massa inorganica, se questa fosse capace di seguire delle associazioni di identità.

 

 Certamente; ma la folla, come la massa inorganica, è incapace di seguirle, e di capirle. Cercate di convincere con dei ragionamenti degli spiriti primitivi, selvaggi o fanciulli, ad esempio, e vi renderete conto del debole valore che possiede questo modo di argomentare.

 

E non c’é neanche bisogno di discendere fino agli esseri primitivi per constatare la completa impotenza dei ragionamenti quand’essi devono lottare con dei sentimenti. Rammentiamoci semplicemente quanto sono state tenaci, per lunghi secoli, alcune superstizioni religiose, contrarie alla più semplice logica. Per quasi duemila anni, i geni più luminosi sono stati piegati sotto le loro leggi, e fu necessario arrivare ai tempi moderni perché la loro verità abbia potuto essere soltanto contestata.




Il Medioevo e il Rinascimento possederono molti grandi uomini; e non ne hanno posseduto uno solo al quale il raziocinio abbia mostrato i lati infantili di tali superstizioni e che abbia fatto sorgere il più lieve dubbio sui misfatti del diavolo o sulla necessità di bruciare gli stregoni.

 

C’è da dolersi che la ragione non sia la guida delle folle?

 

Non oseremmo dirlo.

 

Senza dubbio, la ragione umana non sarebbe riuscita a trascinare l’umanità sulle vie della civiltà con l’ardore e l’arditezza con cui l’hanno sollevata le sue chimere. Figlie dell’incosciente che ci guida, tali chimere erano probabilmente necessarie.




 Ogni razza porta nella sua costituzione mentale le leggi dei suoi destini, e forse obbedisce a queste leggi per un ineluttabile istinto, perfino negli impulsi apparentemente più irragionevoli. Pare talvolta che i popoli siano sottomessi a forze segrete analoghe a quelle che obbligano la ghianda a trasformarsi in quercia o la cometa a seguire la sua orbita.

Lasciamo dunque la ragione ai filosofi, ma non le chiediamo troppo di intervenire nel governo degli uomini.

 

Non con la ragione, ma, spesso, nonostante essa, si sono creati sentimenti come l’onore, l’abnegazione, la fede religiosa, l’amore della gloria e della patria, che sono stati fin qui i grandi suscitatori di tutte le civiltà.

 

Non appena un certo numero di esseri viventi sono riuniti, si tratti d’un branco di animali o di una folla d’uomini, si mettono istintivamente sotto l’autorità di un capo, cioè di una guida.

 

Nelle folle umane, il caporione ha una parte notevole.




La sua volontà è il nodo intorno a cui si formano e si identificano le opinioni. La folla è un gregge che non potrebbe far a meno di un padrone. Il condottiero quasi sempre è stato prima un fanatico ipnotizzato dall’idea di cui in seguito s’è fatto apostolo. Quest’idea ha talmente invaso che tutto sparisce all’infuori di essa, e tutte le opinioni contrarie gli sembrano errori e superstizioni. Così Robespierre, ipnotizzato dalle sue chimeriche idee, e che adoperò i procedimenti dell’Inquisizione per propagarle.

 

I trascinatori di folle, il più delle volte, non sono intellettuali, ma uomini d’azione. Sono poco chiaroveggenti, e non potrebbero esserlo, poiché la chiaroveggenza porta generalmente al dubbio e all’inazione. Appartengono specialmente a quei nevrotici, a quegli eccitati, a quei semi-alienati che rasentano la pazzia. Per quanto assurda sia l’idea che difendono o lo scopo che vogliono raggiungere, tutti i ragionamenti si smussano contro la loro convinzione. Il disprezzo e le persecuzioni non fanno che eccitarli maggiormente.




 Tutto è sacrificato, interesse personale e famiglia. Perfino l’istinto di conservazione viene distrutto in essi, a tal punto che, spesso, la sola ricompensa che essi ambiscono è il martirio. L’intensità della fede dà alle loro parole un grande potere suggestivo. La moltitudine ascolta sempre l’uomo dotato di volontà forte. Gli individui riuniti in folla, perdendo ogni volontà, si volgono istintivamente verso chi ne possiede una.

 

I condottieri non sono mai mancati; ma tutti non possiedono le convinzioni profonde che fanno gli apostoli. Spesso sono retori sottili, che fanno il loro interesse personale e cercano di persuadere lusingando bassi istinti. Così l’influenza che esercitano è sempre effimera. I grandi apostoli che sollevarono l’anima delle folle, i Pietro l’Eremita, i Lutero, i Savonarola, gli uomini della Rivoluzione, hanno esercitato un fascino dopo essere stati essi stessi soggiogati da un’idea. Allora poterono far nascere nelle anime, quel potere formidabile chiamato fede, che rende l’uomo schiavo assoluto del proprio sogno.




Far nascere la fede, sia fede religiosa, politica o sociale, fede in un’opera, in una persona, in un’idea, questo, soprattutto, è il compito dei grandi condottieri. Di tutte le forze di cui la natura dispone, la fede è sempre stata una delle più notevoli, ed ha ben ragione il Vangelo attribuendole il potere di sollevare le montagne. Dare all’uomo una fede, vuol dire decuplicare la sua forza. I grandi avvenimenti storici furono spesso realizzati da oscuri credenti che non avevano che la loro fede. Le religioni che hanno governato il mondo, e i vasti imperi che si estendevano da un emisfero all’altro, non sono sorti per merito di letterati o di filosofi o di scettici.

 

Ma tali esempi si applicano ai grandi condottieri, e questi sono troppo rari perché la storia possa facilmente notarne il numero.

 

Essi formano una serie continua, che dal potente condottiero d’uomini scende all’operaio che, in una fumosa osteria, affascina lentamente i suoi compagni rimasticando continuamente certe formule che egli non capisce, ma la cui applicazione - secondo lui - deve portare alla immediata realizzazione di tutti i sogni e di tutte le speranze.




 In ogni sfera sociale, dalla più alta alla più bassa, non appena l’uomo non è più isolato, cade sotto la legge di un capo.

 

La maggior parte degli individui, specialmente nelle masse popolari, non avendo nessuna idea netta e ragionata al di fuori della loro specialità, sono incapaci di guidarsi. Il condottiero serve loro da guida. Può essere sostituito, ma non in modo completo, da quelle pubblicazioni periodiche che fabbricano delle opinioni per i loro lettori e procurano loro frasi fatte dispensandoli dal riflettere.

 

L’autorità dei condottieri è molto dispotica, e non arriva ad imporsi che con questo dispotismo. Si è notato come si facciano ubbidire facilmente, senza tuttavia possedere nessun mezzo per appoggiare la loro autorità, tra gli operai più turbolenti. Essi fissano le ore di lavoro, i salari, decidono gli scioperi, li fanno cominciare o cessare a ore fisse.




Gli agitatori tendono oggi a sostituire progressivamente i poteri pubblici a misura che questi ultimi si lasciano discutere e indebolire. Grazie alla loro tirannia, questi nuovi padroni ottengono dalle folle una docilità completa che nessun governo può ottenere. Se, per un incidente qualsiasi, il condottiero sparisce e non è subito sostituito, la folla ridiventa una collettività senza coesione né resistenza. Durante lo sciopero dei conducenti d’omnibus a Parigi, fu sufficiente arrestare i due agitatori che lo dirigevano, per farlo subito cessare.

 

L’anima delle folle è sempre dominata dal bisogno di servitù e non da quello di libertà. La sete di obbedienza le fa sottomettere d'istinto a chi si dichiara loro padrone.

 

Il libro che narrerà la vita di tutti questi grandi, conterrà pochi nomi, ma questi nomi sono stati in testa agli avvenimenti più importanti della civiltà e della storia.

 

Quando si tratta di esaltare per un momento una folla e di condurla a commettere un atto qualsiasi saccheggiare un palazzo, farsi massacrare per difendere una barricata, bisogna operare su di essa con mezzi rapidi di suggestione. Il più energico è l’esempio. E allora necessario che la folla sia preparata da talune circostanze, e che colui il quale vuol trascinarla possieda la qualità che io studierò più oltre sotto il nome di prestigio.




Quando si tratta di far penetrare lentamente idee e credenze nello spirito delle folle - le teorie sociali moderne, ad esempio - i metodi dei condottieri sono diversi. Essi sono principalmente ricorsi a questi tre procedimenti: l'affermazione, la ripetizione, il contagio.

 

L’affermazione pura e semplice, svincolata da ogni ragionamento e da ogni prova, costituisce un sicuro mezzo per far penetrare un’idea nello spirito delle folle. Più l’affermazione è concisa, sprovvista di prove e di dimostrazione, più essa ha autorità: I libri religiosi e i codici di tutte le epoche hanno sempre proceduto per semplice affermazione. Gli uomini di Stato chiamati a difendere una causa politica qualunque, gli industriali che diffondono i loro prodotti con annunci, conoscono il valore dell’affermazione.

 

Quest’ultima non acquista tuttavia reale influenza se non a condizione d’essere costantemente ripetuta, e il più possibile, negli stessi termini. Napoleone diceva che esiste una sola figura seria di retorica, la ripetizione. La cosa affermata riesce a stabilirsi negli spiriti a tal punto da essere accettata come una verità dimostrata.


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domenica 28 maggio 2023

E' TEMPO DI CHIEDERE A QUESTI SIGNORI CHE LA SMETTANNO..... (B. Mussolini)

 

 


 

 





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l'isola dell'isolato







Ma tre o quattro mesi fa era successo qualcosa di inaspettato. Un uomo che possedeva uno o due acri di terreno in cima alla collina aveva fatto salire a fatica un paio di autocarri su per il pendio, carichi di grosse travi squadrate di pino dell’Oregon; i carpentieri avevano cominciato a lavorarci sopra, e il vicinato li aveva fissati, chiedendosi che strano tipo di casa potesse essere. Improvvisamente la notizia si era diffusa, in un’esplosione di eccitazione: una torre petrolifera!

 

La trivellazione iniziò e continuò, monotona e tranquilla. I giornali locali riportarono i risultati: il DH Culver Prospect No. 1 era a 1478 piedi, in una dura formazione di arenaria e senza segni di petrolio. Era lo stesso a 2.000 ea 3.000; e poi per settimane l’impianto ha ‘pesca’ un trapano rotto e tutti hanno perso interesse; non era altro che un ‘buco secco’ e le persone che avevano rifiutato il doppio dei prezzi per i loro lotti iniziarono a maledirsi. ‘Wild-gatting’ non era altro che il gioco d’azzardo in ogni caso, molto diverso dagli investimenti prudenti in lotti urbani. Poi i giornali riferirono che DH Culver Prospect n. 1 stava perforando di nuovo; era a 3059 piedi, ma i proprietari non avevano ancora perso la speranza di scoprire qualcosa.




Poi è successa una cosa strana. Arrivarono camion carichi di roba, accuratamente ricoperti di tela. Tutti coloro che avevano a che fare con l’impresa erano stati avvertiti o corrotti affinché tacessero; ma ragazzini sbirciavano sotto il telo mentre i camion risalivano faticosamente la collina con motori rombanti, e riferivano di grosse lastre di metallo ricurve, con buchi lungo i bordi per i bulloni. Potrebbe essere solo una cosa, carri armati. E allo stesso tempo arrivarono voci secondo cui DH Culver aveva acquistato un altro tratto di terreno sulla collina. Il significato di tutto questo era ovvio: il Prospect No. 1 era finito nelle sabbie bituminose!   




Roma, 10 giugno 1924. Alle 16,30 il deputato socialista Giacomo Matteotti lasciò la sua abitazione di via Pisanelli 40. La moglie Velia lo seguì dal pianerottolo fino alle scale e poi, dalla finestra, finché poté accompagnarlo con lo sguardo. Egli aveva già preso parte in mattinata ai lavori della Camera e ora intendeva tornare a Montecitorio per fermarsi nella biblioteca della giunta del Bilancio, leggere e prendere appunti, in vista di un infuocato discorso contro il governo che avrebbe voluto pronunciare in Parlamento.




In abito chiaro, scarpe bianche di camoscio e cravatta in tinta, con una busta sotto il braccio intestata ‘Camera dei deputati’ che portava sempre con sé, Matteotti attraversò la brevissima via Mancini e iniziò a percorrere il lungotevere Arnaldo da Brescia, diretto verso la fermata del tram numero 15 in Piazza del Popolo. Il clima pomeridiano di tarda primavera invogliava a riversarsi in riva al fiume. I ragazzi, dopo un bagno rinfrescante, trascorrevano qualche ora distesi al sole sui gradoni in pietra.

 

Due bambini che giocavano accanto al parapetto del lungotevere videro arrivare Matteotti. Lo riconobbero, perché era solito passare di lì; talvolta in tenuta sportiva saliva su una canoa e remava per ore su e giù. Quel giorno, però, un fatto inconsueto attirò la loro attenzione.




Matteotti procedeva a passo svelto. Era assorto nelle sue riflessioni e non badava molto alle persone che in quel momento lo circondavano. All’improvviso due uomini interruppero il corso dei suoi pensieri. Lo bloccarono e lo afferrarono bruscamente, cercando di trascinarlo a forza verso la strada. Ad attenderli, accostata al marciapiede, un’elegante auto scura, una Lancia Lambda a sei posti, modello limousine chiusa.

 

Resosi conto di quanto stava avvenendo, il deputato socialista, non molto robusto ma con un fisico scattante, iniziò subito a dibattersi e a contorcersi in tutti i modi, pur di riuscire a liberarsi dalla presa dei due sgherri e a sottrarsi alle loro intenzioni. Gli assalitori non si aspettavano questa vigorosa reazione, e infatti egli riuscì per un attimo a divincolarsi buttandone uno a terra.




In quell’istante la salvezza sembrava ancora alla portata. Sennonché, mentre Matteotti cercava di sfuggire definitivamente alla morsa degli aggressori, si diresse di gran carriera verso di lui un terzo uomo, vestito di grigio, elegante, alto e robusto, che lo colpì violentemente al volto e lo gettò sull’asfalto. Il giovane deputato, tramortito, poteva ora essere sollevato di peso e trasportato sull’automobile.

 

Egli però non si arrese.                       

 

Ripresosi in pochi secondi, tornò a opporre ogni resistenza di cui era capace, dibattendosi e gridando aiuto, mentre gli uomini della banda gli assestavano tremendi colpi al torace e al basso ventre.




Matteotti, con gli abiti strappati, il viso tumefatto, e tuttavia combattivo, fu caricato sul veicolo. Nella concitazione la Lancia partì di scatto e percorse a zig-zag le prime centinaia di metri, con uno degli sgherri ancora fuori sul predellino, aggrappato alla maniglia della portiera. Il deputato socialista continuava intanto ad agitarsi e a urlare. Fece in tempo a spedire un ultimo appello: gettò per strada la sua tessera ferroviaria, poi raccolta da due contadini che transitavano sul lungotevere con un carretto.

 

A bordo proseguì nella sua lotta disperata e, dimenandosi, riuscì a frantumare con un calcio il vetro che divideva l’abitacolo posteriore da quello del conducente. Mentre la Lancia superava il ponte Milvio e imboccava la via Flaminia, Matteotti e i suoi rapitori, sudati e stremati già dalla lunga attesa in macchina prima dell’agguato con le tendine abbassate e i finestrini chiusi, non mettevano fine a una battaglia furibonda.




Per coprire le grida l’autista fu costretto a procedere con il clacson bloccato fino all’uscita dalla città. Di fronte all’irriducibile resistenza del deputato socialista gli aguzzini non esitarono a prendere una decisione estrema: meglio finirlo all’interno della vettura anziché attendere di raggiungere l’aperta campagna.

 

Fu questione di un attimo: un pugnale attraversò il torace di Matteotti. La ferita penetrante gli causò la perforazione di un polmone, con conseguenti rigurgiti dalla bocca. Il sangue imbrattò gli indumenti, la tappezzeria e il sedile del veicolo.

 

Matteotti era morto.




A questo punto i sicari poterono procedere, con il cadavere a bordo, alla ricerca di un luogo adatto per occultarlo. Uscirono dalla città in direzione nord-est, verso Civita Castellana. Dopo alcune ore, quando ormai era buio, a 23 chilometri da Roma, nella macchia della Quartarella vicino al villaggio di Riano Flaminio, trovarono un terreno molle e scavarono in fretta e furia una fossa, facendosi luce con alcuni cerini: non avevano attrezzi adeguati per solcare il terreno, perciò adoperarono una lima che avevano trovato nell’auto.




Essendo stanchi e volendo seppellire la vittima il più in fretta possibile, non rimasero lì per più di mezz’ora. L’esito dei loro sforzi fu una buca di forma ovoidale, non molto grande e poco profonda. Vi gettarono il corpo straziato di Matteotti dopo averlo denudato per rendere più difficile l’identificazione. Dovettero però rannicchiarlo con manovre assai violente in modo da riuscire a farlo entrare nella fossa. Al termine di queste macabre operazioni, poterono finalmente risalire sulla Lancia, alla volta della città.

 

I passeggeri dell’auto erano ora solo quattro: Amerigo Dumini, Albino Volpi, Giuseppe Viola, Amleto Poveromo; alla guida Augusto Malacria.




Tutti ricollegabili all’esperienza dell’ ‘arditismo’ milanese, nato da ex componenti dei reparti d’assalto dell’esercito italiano che nel ’19 avevano partecipato alla fondazione dell’Associazione nazionale degli arditi d’Italia e avevano poi aderito in gran numero al fascismo, adorandone il leader carismatico, Benito Mussolini. Più in generale, i cinque uomini della banda erano, per molti versi, degni rappresentanti del sottobosco fascista, ‘pesci piccoli’ disposti a qualunque cosa per sbarcare il lunario, gregari ottusi e devoti, operanti per cieco fanatismo e per piccoli arricchimenti personali, servili quanto basta a tutelare il proprio tornaconto e ottenere la gratitudine dei potenti.

 

Erano dunque pronti a eseguire anche ‘lavori sporchi’ pur di soddisfare il capo, a maggior ragione da quando, nel ’22, questi era giunto alla guida del governo italiano. Mussolini, peraltro, li conosceva bene tutti: era loro legato da una complicità che risaliva al 1918, quando aveva cercato amici e appoggi in giro per Milano.




Dumini, l’organizzatore dell’attentato, aveva preso parte a molte azioni in Toscana, facendo della violenza il suo biglietto da visita. Circolava voce che amasse provocare il sobbalzo dell’interlocutore presentandosi come ‘Dumini, undici omicidi’, in realtà, al di là di quanto millantava, era più che altro uno spaccone sempre in prima fila quando si trattava di intervenire in pestaggi o bastonature. Tentando in ogni modo di infilarsi in solide reti di conoscenze e di mutua assistenza, era anche entrato a fare parte della massoneria. Coltivava inoltre da tempo il desiderio di diventare giornalista; un primo passo in questa direzione gli era sembrata l’assunzione come dipendente presso un importante quotidiano, il ‘Corriere italiano’.

 

Ciò che più contava per lui, comunque, erano le amicizie di alcuni uomini potenti: quella di Cesare Rossi, capo dell’Ufficio stampa di Mussolini, e quella di Giovanni Marinelli, segretario amministrativo del Partito fascista. Dumini era pertanto frequentatore dei palazzi governativi, dove incrociava anche il presidente del Consiglio e i suoi più stretti collaboratori. Gli venivano affidate operazioni poco pulite per alimentare le casse del partito, quelle del quotidiano della famiglia Mussolini, ‘Il Popolo d’Italia’, così come pure i conti correnti personali dei dirigenti fascisti.




Godeva di un’assoluta impunità, contraccambiandola con un’ostentata e totale abnegazione al capo del fascismo. Nel ’23, ad esempio, si era recato in Jugoslavia per negoziare segretamente con il governo di Belgrado la vendita di una partita di armi che aveva ottenuto dal ministero della Guerra italiano grazie alla copertura finanziaria garantitagli da un istituto di credito. Un personaggio come Dumini non avrebbe mai potuto accedere a quel materiale bellico, né alle risorse finanziarie necessarie per l’operazione, se non vi fossero state personalità più importanti a garantire per lui.

 

Al suo ritorno in Italia era stato arrestato dalla polizia ma aveva ottenuto immediatamente il rilascio grazie a interventi di altissimo livello. L’entourage del primo ministro si era impegnato altresì nel tentativo di soffocare lo scandalo: Mussolini, fratello del presidente del Consiglio e direttore del ‘Popolo d’Italia’, aveva pubblicato un articolo benevolo, che presentava la vicenda del contrabbando di armi come un ‘equivoco’ e descriveva Dumini quale ‘valoroso ex combattente di vecchio e provato patriottismo’.




 Anche Albino Volpi era uno dei tanti volenterosi gregari, esecutori di lavori sporchi, abbagliato dal carisma del capo del fascismo, nonché dalla possibilità di ottenere vantaggi materiali dalla propria dedizione. Era un pregiudicato, già condannato diverse volte negli anni Dieci per reati comuni. Nel dopoguerra, però, aveva preso parte all’organizzazione degli Arditi, si era poi unito al movimento fascista milanese ed era entrato così nella sfera dei collaboratori di Mussolini, il quale si era servito di lui per varie mansioni di fiducia e, nel ’21, aveva persino testimoniato a favore della sua innocenza in un processo per omicidio, sostenendo falsamente che il colpevole fosse stato un altro fascista, nel frattempo deceduto. Con questi sistemi, da Volpi così come da moltissimi altri devoti membri del suo movimento, il capo del fascismo era riuscito a ottenere una fedeltà assoluta.





Consumato il delitto, gli uomini della banda fecero ritorno a Roma in tarda serata, mentre la spensierata vita notturna della capitale affollava le strade e i caffè del centro. Erano stremati, l’auto era mal ridotta, impolverata a causa delle strade percorse, cosparsa di frammenti di vetro, sporca di sangue. Dumini la parcheggiò dapprima spavaldamente nel cortile del Viminale, sede del ministero dell’Interno. Poi tornò a riprenderla. Sotto la Galleria Colonna, luogo come ogni notte di chiacchiere e confidenze per molti romani, Albino Volpi incontrò Arturo Benedetto Fasciolo, stenografo e segretario particolare di Mussolini, e gli raccontò quanto era avvenuto.

 

Secondo una delle versioni dei fatti, i membri della banda andarono pure a casa di Fasciolo: la prima cosa da fare era lavarsi le mani, togliersi di dosso i segni del crimine e consegnare la busta con i documenti di Matteotti. Grazie all’aiuto di Filippelli e di altri complici, Dumini si liberò poi dell’auto nascondendola in un garage. E a quel punto – erano passate le tre del mattino – si fece portare da un taxi al suo appartamento di via Cavour 44. Il lavoro era compiuto e finalmente poteva andare a riposare.

 

Quella notte Velia Matteotti la passò alla finestra in attesa del marito.




Giacomo Matteotti stava lavorando ad un Libro di 91 pagine, su due fitte colonne, pubblicato e distribuito quasi clandestinamente ai primi del 1924. Quando fu assassinato, stava lavorando a una ristampa corretta e aggiornata dell’opera, che non vide mai la luce.

 

Questi sono taluni suoi appunti:

 

 

 

LA LIBERTA’ DI STAMPA (e di libero arbitrio)

 

 

 

1922, 6 Dicembre

 

 

Così non si può andare avanti. Gli ambienti fascisti più vicini al Governo sono decisi di porre una disciplina anche ai giornali (sia pubblici che privati… e ON LINE), davanti allo spettacolo offerto quotidianamente da certa stampa, nessuno si meraviglia se il Governo fascista imporrà la censura e adotterà misure ancora più severe.

 

 

POPOLO D’ITALIA, giornale di Mussolini






 

7 Dicembre

 

Avvertimento da meditare: Se accade che i fogli socialisti, ed in particolar modo la cosiddetta unitaria “Giustizia”, si sono abbandonati alle più gesuitiche campagne contro il Governo…

 

È tempo di chiedere a questi signori che la smettano.

 

La rivoluzione fascista è stata generosa…

 

Ma guai se i capi del socialismo e del comunismo ne abuseranno. La rivoluzione fascista non ha proceduto ad esecuzioni sommarie – e lo poteva fare benissimo. – Ma, attenzione ai mali passi, vecchie canaglie del socialismo italiano.

 

POPOLO D’ITALIA, giornale di Mussolini




 

13 Dicembre

 

 

Il Direttorio del Fascio milanese di combattimento… diffida la Direzione del giornale “La Giustizia” dal più oltre propalare notizie destituite di ogni fondamento di verità, tendenziose o comunque tali da eccitare l’odio di classe, ammonendola che ove dovesse perseverare in tale scorretto sistema giornalistico il Fascio milanese di combattimento determinerà pei provvedimenti che riterrà del caso per ridurla all’osservanza delle norme di correttezza e di onestà giornalistica.

 

POPOLO D’ITALIA, giornale di Mussolini


 




1923, 5 Gennaio

 

 

La Questura invia ai giornali una circolare per intimare, d’ordine del Governo, di non pubblicare nessuna notizia sulla ribellione della Guardia Regia a Napoli, a Torino, a Roma e altrove, che non sia quella distribuita dal Governo stesso – pena le sanzioni che il Governo applicherà… in virtù dei pieni poteri (!?).

 

 

6 Marzo

 

 

Il “Corriere è inquieto”: “Per le zucche che si rialzano ci sono cinquecentomila manganelli sempre pronti. E c’è della gente dal fegato sano. E c’è una milizia fascista. E ci saranno, occorrendo, della buona mitraglia e delle bombe a mano. Dorma dunque i suoi sonni tranquilli il “Corriere”… E lasci fare allo stato fascista!”.





  

6 Aprile

 

 

Non si può continuare ad abusare impunemente dell’enorme e forse già eccessiva longanimità dei capi del fascismo. Guai se questi capi saranno costretti, davanti al vituperio immondo, a rilanciare lo storico e terribile grido di “A noi!”… Ci pensi chi deve. È ormai tempo!

 

POPOLO D’ITALIA

 

 

8 Aprile

 

Sempre “La Giustizia”! Questo giornale, che sta diventando un libello, abusa della pazienza del fascismo. Sembra che già si approssimi il giorno in cui desterà una tale reazione tra i fascisti, che non saranno gli svenimenti, i piagnistei, gli appelli disperati della paura a salvarla da una fine immatura.

 

POPOLO D’ITALIA, giornale di Mussolini







8 Aprile

 

 

Ora sarà bene avvertire cotesti giornali e chi li dirige che se essi hanno il diritto di usare della libertà mantenuta dal dittatore Mussolini e dal suo tiranno governo, hanno anche il dovere imprescindibile di non abusare. Altrimenti non è proprio da escludersi che l’esempio di Lenin possa essere seguito in Italia nei riguardi di certe canaglie.

 

POPOLO D’ITALIA, giornale di Mussolini

 

 

9 Maggio

 

 

Quando la fatica è improba e si cammina sotto un carico enorme di responsabilità, non si sopporta il lazzo dei lazzaroni, il dileggio dei vagabondi, e colpiremo anche se la libertà di stampa, la semivergine, leva alte le grida.

 

POPOLO D’ITALIA, giornale di Mussolini





 

24 Giugno

 

 

La miglior risposta sarebbe il sacrosanto manganello che ha tante volte punito dei capilega, colpevoli più che altro di… ubriachezza e di ignoranza e che non provocavano, in ogni caso, un danno nazionale. Questi scribi invece danneggiano la nazione in faccia all’estero e non v’è purtroppo mezzo di farli tacere a meno si attui una buona volta quella necessaria limitazione della libertà di stampa.

 

Quanto al manganello fascista non è proprio detto che non debba e non possa essere richiamato in servizio da un momento all’altro.

 

(A proposito di un articolo stampato sul «Secolo» dal prof. G. Ferrero.)

 

POPOLO D’ITALIA, giornale di Mussolini





 

8 Luglio

 

 

Senatore Albertini, (cioè, “Corriere della Sera”), a noi! Senatore Albertini, vi sopportiamo già da molto tempo, da troppo tempo, e vi diciamo apertamente che basta!… Senatore Albertini, ci sono tanti fascisti, tanti! tanti! tanti!… Noti, notissimi ed ignoti in molte città d’Italia che solo domandano, per iscritto – assumendo in pieno l’onore e la dignità del gesto – di essere presenti a radere al suolo la vostra indegna “baracca”. Se questo non è avvenuto ancora voi potete bene immaginare chi potete ringraziare, senatore Albertini! Ma piantatela, ve ne prego. E ve ne prego non già per amore di voi e per amore del vostro giornale.

 

POPOLO D’ITALIA, giornale di Mussolini





 

8 Luglio

 

 

L’obliquo senatore liberale, responsabile morale degli assassinii dei fascisti compiuti in questi giorni dalla canaglia rossa di cui ormai è palese e cinico alleato, tenta di scamotare e di ciurlare nel manico. Non glielo permetteremo. È tempo di ricacciargli in gola il grido di “Viva la libertà” perché questo mestatore ha tutta la libertà di sputare sul Governo, ha perfino la libertà di trovare ridicolo il gesto del Governo che si inginocchiava il 4 novembre… Il senatore Albertini accetta dunque in pieno la sua complicità coi comunisti?… Quando risulta, come risulta documentato e documentabile, che i leninisti di Mosca riportano gli articoli del “Corriere” e contano sulla campagna antifascista del senatore liberale Albertini, il marchio rosso che lo bolla a sangue è definitivo ed incancellabile. Lo ricordino i fascisti!

 

POPOLO D’ITALIA, giornale di Mussolini





 

11 Luglio

 

 

L’on. Mussolini dichiara che fin dal novembre scorso aveva preparato provvedimenti contro gli abusi della stampa ma che ne ha sempre dilazionata la presentazione sperando nel ravvedimento. Scomparso il pericolo dell’azione diretta illegale del fascismo, gli oppositori hanno rialzata la testa e intensificano l’opera sobillatrice… Il Governo fascista ha l’obbligo di intervenire, o per prevenire o per rapidamente colpire… Il Consiglio all’unanimità deferisce a tre ministri l’incarico di presentare uno schema di provvedimento.

 

 

12 Luglio

 

 

Il Consiglio dei Ministri ha approvato il decreto per la stampa, secondo il quale:

 

‘Il prefetto della provincia ha facoltà di diffidare e successivamente di sospendere il giornale che con notizie false o tendenziose rechi intralcio all’azione diplomatica del governo, o danneggi il credito nazionale all’interno o all’estero, e desti un ingiustificato allarme nella popolazione, ovvero in qualsiasi modo turbi l’ordine pubblico… se ecciti all’odio o alla disobbedienza delle leggi o turbi la disciplina degli addetti ad un pubblico servizio’.




 

CONSIGLIO DEI MINISTRI, comunicato ufficiale

 

 

16 Luglio

 

 

“Ci risulta che S. M. il Re ha firmato il decreto per un nuovo regolamento sulla stampa. Il decreto è adunque nelle mani del presidente del Consiglio, il quale si riserva di dargli corso al momento opportuno”.

 

 

30 Aprile – Aquila

 

 

I fascisti invadono la tipografia e sequestrano 500 copie del Giornale socialista ‘L’Avvenire’, il cui redattore è percosso gravemente; è bastonato anche il socialista Oscar Del Re.

 

(G. Matteotti)