giuliano

venerdì 24 aprile 2015

IL VOLO DI JONATHAN (14)







































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Il volo di Jonathan (13)

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Litigano in pubblico poi fanno la pace... (15)













... Fuggito, come quegli uomini nel Tempo di un diverso Dio mai appassito, anche io ho volato nel sudario di quanto da te miniato… Cacciato da un essere troppo vile per essere narrato, troppo meschino per essere appena ricordato, confuso fra un riso compiaciuto per l’inganno arrecato, per la tortura inflitta, per il confino giammai meritato, ed un ghigno di disprezzo per quanto narrato nel volo braccato e cacciato. Perché la caccia al volo antico e per sempre rinato ricordano la Storia in cui affoghi la morale della tua falsa gloria. E come l’uomo perito sognando il volo su un diverso Creato, per la loro colpa ed il loro peccato, pregando una verità Universale pace del Creato, sono stato  umiliato tradito e braccato, volo ‘cacciato’ agnello consumato!
Nella materia mi vedi e controlli, disciplini e dispensi la ‘regola antica’, per questo mai taciterò il canto della Rima, giammai impazzita al porto della tua strana Dottrina, e se la Storia vuoi tacitare, se la vista vuoi annebbiare, se la mente confondere, se la ‘penna’ bruciare, sappi che il Vento mi è amico, il Vento del Primo Dio! E’ Lui che indica la via, è Lui che ricorda la Verità tradita, per questo deve essere narrata alla rinascita di ogni vita perita e torturata. Così da poter di nuovo apparire al foglio ed al bordo del libro miniato ornare con ugual voce antica l’araldo della tua nuova conquista appesa alla ‘parabola’ della nuova via…)




Una seconda campagna illustrativa dal carattere unitario, di sicuro posteriore cronologicamente rispetto al primo intervento pittorico, intrapresa in un momento successivo allo scopo di integrare l’apparato illustrativo (nell’icona che stai guardando, nel piccolo schermo antico e moderno al tuo rigo, miniatura di un falso dio…) del manoscritto, rimasto in un primo tempo incompleto, si individua in 17 riquadri miniati, realizzati in aggiunta negli spazi lasciati appositamente liberi dai ‘copisti’, e si deve, come abbiamo potuto dimostrare, ad una bottega ben riconoscibile originaria della Francia meridionale, operante ad Avignone: quella del manoscritto ‘Speculum Humanae Salvationis’, oggi nella Biblioteca dell’Accademia Nazionale dei Lincei e Corsiniana di Roma, datato alla metà degli anni trenta del XIV secolo.
Alcune influenze dello stile lineare dell’Ile-de-France sono preponderanti a Tolosa e nella Linguadoca così come nell’insieme del Sud-Ovest francese, tuttavia l’interpretazione che i miniatori meridionali danno dello stile settentrionale presenta dei caratteri specifici che ben difficilmente possono confondersi con quelli peculiari di altri territori francesi ed europei. Motivi decorativi distintivi della produzione miniata della regione tolosana sono: il repertorio di figure grottesche dai volti lunari e dall’espressione ilare, posate su lunghi colli filiformi dall’andamento sinusoidale; le teste di cicogna che sovente stringono nel becco cerchi o bolli d’oro, abbarbicati in cima ad un collo filiforme e sinuoso oppure arricciato a guisa di molla; le figure mostruose che abitano le anse delle iniziali, caratterizzate da un collo filiforme, ripetutamente annodata, occupanti tutto lo spazio disponibile con la loro coda desinente in uno stelo spiraliforme a foglie tribolate; la superficie degli sfondi dei riquadri miniati trattata a bande verticali di diverso colore affiancate…..




… Pasqua…. 1655…
Confortato dai padri gesuiti, il marchese di Pianezza, ministro di Carlo Emanuele II, scatena da Torino una crociata antivaldese (ben organizzata nel ‘canone’ che disciplina la ‘parabola’ della via…) senza precedenti. Non bada a spese, ed anche se gli accidenti provengono da tutt’altri luoghi e personaggi, l’occhio di codesto dio attento osservatore di ogni volo incatena il suo odio, la sua ‘disciplina’, la ‘regola’ di vita alla volontà del martirio voce superba senza alcun dio al nuovo libro miniato icona di un piccolo schermo ‘Creato’, nel traffico della misera ora.. così ingegnosamente distribuita al traffico della Storia… E passerrano alla Storia come ‘le Pasque piemontesi’: 2000 morti, un incubo documentato dal pastore valdese Giovanni Léger, autore della ‘Storia generale delle chiese evangeliche delle valli del Piemonte (1669)’. Un libro degli orrori, illustrato, che la gentile bibliotecaria del Centro culturale valdese di Torre Pellice ancora oggi stenta, comprensibilmente, a mostrare (certo che la Storia fa orrore, la Memoria deve essere braccata ed inquisita… al rogo della nuova Dottrina…).




Ma a metà Seicento, quando esce questo volutone, stava nascendo un fenomeno del quale i Savoia non avevano tenuto conto: il giornalismo moderno. Le ‘Gezzette’ di Parigi, di Londra, di Amsterdam parlano della strage dei riformati valdesi, l’Europa protestante si indigna, il grande poeta inglese John Milton scrive il famoso sonetto sui ‘Massacri in Piemonte’. Non basterà purtroppo. Quando in Francia sale al trono l’ambizioso Luigi XIV, se possibile, la situazione peggiora. Nel 1685 il ‘Re Sole’ revoca l’editto di Nantes, che garantiva libertà a decine di migliaia di ugonotti residenti in Francia. Di più. Costringe il nipote Vittorio Amedeo II di Savoia, un ragazzo di 19 anni, a vietare l’asilo ai rifugiati ugonotti ed a eanare, nel 1686, un editto che suona quasi surreale: siano demoliti i templi valdesi, siano resi cattolici a forza i bimbi valligiani (pena la frusta per le madri), imprigionati i padri e impalati i ribelli. Sono gli anni in cui il filosofo inglese John Locke scrive le ‘Lettere sulla tolleranza’. Ma ai valdesi non resta che l’espatrio, Cioè la fuga verso la vicina e tollerante Svizzera, patria di Calvino.




(Ed ora, vento e dio che hai conferito favella, ecco il Tempo mio. Lo vedi? Un fiocco di neve. Osserva, non è meraviglioso come Dio imbianca il mio cammino come Dio raccoglie e narra la Tortura subita al calvario della tua via. Un fiocco di neve quale eterna e prima simmetria di vita, ed a te io dirò in questo tempo senza ‘ora’, in questo giorno senza alcuna tortura: che il bianco sudario cui hai destinato Parola, possa perdonare il gesto antico cui destini l’eterna avventura di chi fuggito con una barca e la speranza di un mondo più giusto alla tua parola. Un mondo bianco ove la Rima possa essere solo la neve della poesia, e giammai l’eterna tortura cui destini e rinchiudi diverso vento al porto della tua parola)…




Dura tre anni quell’esilio…
I valdesi hanno lasciato 6.000 amici nelle carceri sabaude (ne sopravvivranno la metà) e le loro case in mano a nuovi coloni. La dimensione del ritorno nella terra dei padri diventa mito, gli esuli non parlano d’altro che di un prossimo ‘glorioso rimpatrio’. E così, nella notte tra il 26 e il 27 agosto 1689, 1.000 volontari valdesi, tra cui anche qualche donna vestita da uomo, si raccolgono sulle sponde del lago Lemano presso Nyon: noleggiano qualche barca, ne sequestrano qualcun’altra, e attraversano il lago, sbarcando in territorio savoiardo nei pressi di Yvoire. Comincia insomma quella che lo storico valdese Giorgio Bouchard ha efficacemente chiamato ‘la lunga marcia’. Quindici giorni di battaglie contro gli eserciti del re di Francia e del duca di Savoia, che mettendo in campo 22.000 uomini non riescono a fermare l’eroico monopolio di montanari. I valdesi marciano con disciplina impeccabile, non rubano una gallina, pagano tutto e non toccano le donne. Prendono soltanto qualche ostaggio ad ogni tappa, che trattano bene e rilasciano alla tappa successiva.
Passato al prezzo di molte vite il ponte di Salbertand, sulla Dora, i fuggiaschi – che nel frattempo sono diventati 600 – si arrampicano sui monti, scelgono valichi ed itinerari impervi, si accampano dove è impossibile essere circondati. Non hanno certo bisogno di guide: a differenza dei dragoni di Francia e dei soldati torinesi, conoscono quei posti come le loro tasche. Una volta raggiunte ‘le valli’, è la guerriglia. Che non contempla pietà neppure per i contadini che i partigiani, nel frattempo ridottisi a 400, incrociano sulle mulattiere: i testimoni degli spostamenti furtivi non possono vivere, la delazione significherebbe la fine. Ma come accade in ogni guerriglia, i convertiti a forza rimasti ad Angrogna, a Prali, a Bobbio foraggiano i rimpatriati clandestini, li fiancheggiano, esponendosi al rischio della vita.
… Arriva l’inverno…




(e con lui, compagno del mio cammino, esilio in una nuova Terra, compio il volo di Dio, ogni fiocco di neve che prego ed osservo nel silenzio del bosco mi narra una Parola, mi suggerisce la Rima. Su un albero di vita su cui poggiai e riposai il passo stanco, orna la chioma così da sembrare un vecchio saggio. Lui è in questo secolare paradiso per indicarmi la via all’improvvisa smarrita, mi narra la Storia, mi dice che l’uomo che gli rubò la forza per un nuovo condomino, un Tempo gli tolse anche la Parola, perché ebbe la pretesa di tradurre e spiegare al volgo il verbo di Dio. Ebbe la pretesa di predicare e narrare ‘povera novella’ ad un pastore per poi al piccolo borgo spiegare che la vita cela una Verità mai predicata alla ricca mensa di un ugual ‘pastore’, per la stessa via. La sua predica fu un Tempio della Parola inquisita e l’ombra da lì nata divenne rifugio per ogni viandante smarrito: quel grande Spirito racconta nel sogno di una eterna via, la fatica della vita, la persecuzione dell’atroce martirio subito nel fuoco patito. Ogni viandante nell’inverno del suo passo o nella primavera quando disseta la sua venuta e nell’estate quando ‘Re Sole’ brucia…, si riposa, e scorge 




qualcosa,  mira un evento strano, un sogno antico di chi mai perito che per sempre narra la Storia e la fuga. E quando il viandante sudato per il sogno ritrovato mira la via si sente più saggio di prima, ed al Frammento dell’eterna ora quale nuova preghiera si incammina e appoggia per il sentiero di una nuova vita: comprendere l’altrui motivo scritto nella corteccia… di Dio, contare gli anelli del vicino tronco abbattuto per scoprire che il passo ed il sogno confondono il Tempo suo, per essere già vissuto da inquisitore della libera parola, oppure con una scelta degna dell’eterna ora. E mirare quel secolare ‘faggio’ perito nel coraggio, vederlo con occhi diversi ascoltarlo nel silenzio di uno strano Viaggio, sembra di averlo un Tempo vissuto ed ora ritrovato, quale sogno o incubo arrecato nell’oltraggio di quel taglio. Il bivio diviene scelta di un nuovo e più certo cammino in questo Sentiero ove non si ode voce né rumore né vento di un Secondo Dio. Paradiso all’ombra di un albero antico, Divino per il comune sogno smarrito divenuto terreno cammino. Anima che narra la Storia per chi ascoltare la voce della Natura raccolta nell’invisibile Memoria abbattuta e figlia di quel Vento che mai tortura. Ma come una carezza adesso attraversa ogni foglia diventa mio e suo respiro nel comune Tempo di questo Dio… diventa scelta di un miglior cammino al bivio dove ho riposato un lontano mattino….)…




… La banda di irriducibili si rifugia a Balsiglia, un piccolissimo borgo montano ai piedi dei Quattro Denti, in fondo alla via Massello. Fa freddo e c’è poco da mangiare. I guerriglieri si accorgono però che sotto la neve, nei campi, ci sono ancora le spighe di grano che nella baraonda dell’estate precedente i contadini non avevano fatto in tempo a mietere. La sopravvivenza dunque è assicurata, ma il peggio deve venire, 3.800 soldati francesi, appoggiati da 1.400 contadini e cacciatori per i ‘servizi’, cominciano in aprile una faticosa marcia di avvicinamento a….
Ma i valdesi resistono ancora…..

(Airone, aprile 1993 & Giuliano Lazzari)      
















             

domenica 12 aprile 2015

IL VOLO DI JONATHAN (12)






































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Il volo di Jonathan (13)













Giammai il volo destinerò alla tua meschina via, in quanto tutto il museo dovrai percorrere per conoscere l’opera magnifica che Dio compie per ogni vita. Quella è sacra e non nutre certo la ‘panza’ priva di qualsiasi spirituale e naturale sostanza, cui affidi la terrena paura di una diversa vista che riveste la terrena pretesa di sfamare la solo vita donata con la ricchezza ad ogni Natura rubata. E nell’Ermetica Parola nata è scritta la verità a te sconosciuta e taciuta, perché orni la tua certezza con il pasto Polifemo della cieca tua vista appesantito dalla dottrina al porto di questa terribile Notizia. Pasto ingordo narrato da un Angelo taciuto a cui affido questa preghiera Eretica al condimento della tua ‘ora’, Dio ‘saporito’ della falsa tua parola.
Il mare inghiottì tutte le anime come fosse un boato ed il cielo si è spezzato perché fuggivano da una Terra dove non v’è più Creato, perché fuggivano il deserto dove nulla è mai nato, perché fuggivano un destino non meritato, perché fuggivano la moneta di un vile Dio per essere qui solo narrato. La guerra che ciascun nobile arma per la sua ricca mensa priva di coscienza brucia la vita di chi vittima dell’eterno sacrificio, io che nel Teschio ho patito ugual martirio. Divennero mensa di un mare che accoglie il male subito con la promessa che la fine è solo un nuovo inizio. Tutte quelle vite morte al crocevia di un vento privo di qualsiasi Natura, ricordano il passo antico di chi ha subito il secolare destino per servire un diverso Dio schiavi di un mondo senza Dio. Queste Parole, dettate in quell’ora dal  Vento, custode della Preghiera, appendo al muro del mio Paradiso: venite anime smarrite e rapite, dal fondo di un mare al cielo di una nuova vita condurrò la paura, preghiera raccolta nell’ora infinita!




Continuo il volo ed il ricordo invade la Memoria, mentre il parco del mio Paradiso si trasforma in un inferno senza Dio, mentre quell’Eretica ora mi trascina per un ricordo appassito, ma la Primavera sazia e nutre lo Spirito, il volo proseguo perché lo vuole e comanda Dio, e proprio nel ricordo della stessa ora, quando ugual popolo fuggiva, sorvolo e scendo verso una regione ove è incisa la Memoria perseguitata. Il ricordo non fiacca la vista, altrettanto sublime al vento della Parola, perché nell’Universo di un mondo perseguitato, un vento nato non da un naturale miraggio, ma dall’intollerante parola ha scritto ugual memoria, di chi affogato nel peccato mai consumato di un battesimo scritto nell’acqua di un Dio distante dal gesto troppo piccolo per essere narrato come peccato. L’acqua divenne ugual tomba e martirio, condanna affogata dalla parola quale monolitica certezza, affogata nel fiume e nel mare senza alcun Dio. Il mare mi fa compagnia nel volo di questo ricordo, e nella miniatura cagione e ‘regola di vita’, canone e punizione di un peccato mai consumato, dedico ai martiri periti in quel vento nemico di ogni Dio. Perché il mare e il fiume fu la loro condanna, se pur l’Eresia mai predicata, ma amore e certezza che senza il ‘rito’ l’anima vola in Paradiso. Possiate accogliere e nutrire, in questo comune ricordo, la speranza di un mondo più nuovo, e risorgere a nuova vita, per condividere al porto di Dio chi ha patito e subito l’oltraggio alla Vita.




Il Purgatorio non esiste. Il papa è un collegio di saggi, in cui le donne rappresentano il trenta per cento. I santi sono cadaveri da non idolatrare. Maria una brava persona, ma certo non adorabile. I sacramenti sono soltanto due. La gerarchia ecclesiastica è diabolica.
Non basta?
Progressisti e ambientalisti per vocazione, i valdesi stanno per principio dalla parte dei poveri e dei vinti, predicano la pulizia morale delle loro valli e praticano ogni estate una ‘caccia alla lattina’ tra i boschi, condannano la teologia cristiana che ha permesso ad un’unica specie, l’essere umano, di distruggere e minacciare le altre forme di vita. E per finire, secondo loro pecca di più uno che ruba che un ministro di culto omosessuale. Eppure, sono cristiani. Cristiani da bruciare (o affogare…), come è stato detto. E fatto!
Tutto comincia con la storia di un personaggio simile a san Francesco, il commerciante Pietro Valdo, nato a Lione verso il 1140, il quale un bel giorno dell’anno 1174 decide di rinunciare ai suoi guadagni, di darsi alla predicazione del Vangelo e fin qui va bene: ma osa anche tradurre in dialetto la Bibbia. E’ l’Eresia. Ma mentre Francesco di Assisi, che fece analoghe scelte di vita, alla fine – grazie anche a una genuflessione davanti al pontefice – sarà canonizzato, Valdo viene immediatamente scomunicato (1184). E i suoi seguaci, ‘i poveri di Lione’, censori del lusso e della corruzione del clero, vanno incontro ad una persecuzione che gli storici contemporanei non esitano a chiamare genocidio.




Oggi i valdesi che vivono in Piemonte, concentrati in tre valli delle Alpi Cozie settentrionali (Chisone, Pellice e Germanasca), sono circa 13.000. Altrettanti sono sparsi nell’Italia centrale e meridionale, e altri 13.000 sono insediati nel Nuovo Mondo, principalmente in Uruguay ed in Argentina. I seguaci di Valdo hanno un loro Sinodo (l’organo collegiale che per questi riformati corrisponde al ‘pontefice’ romano), un consiglio esecutivo chiamato ‘Tavola’ e una  rete capillare di ‘sacerdoti.pastori’ presenti in ogni frazione montana. Gestiscono inoltre un ospedale modello, trasmettono musica e notiziari da una radio, ospitano in villeggiatura tutti i nonni di quei torinesi che ad agosto schizzano in Kenya e a Bangkok.
Eppure in mezzo a queste montagne aspre, tra il Monvisio e il Moncenisio, in questo baluardo naturale da ‘volpi eretiche’, come venivano soprannominati un tempo, i valdesi vivono ancora in riserva. Forse non più nel ghetto, come nei 287 anni trascorsi tra la pace firmata a Cavour da Emanuele Filiberto di Savoia che ne riconosceva l’esistenza fisica (1561) e l’editto di Carlo Alberto che dopo secoli di soprusi e di repressioni concedeva loro finalmente i diritti civili (1848). Ma in una specie di riserva indiana, sì!




(Quanto sublime la Terra vista dall’alto, quanto rigogliosa e prosperosa, ma possibile che tanto male l’ha seminata, tanto odio l’ha nutrita, eppure nel libro miniato, ragione di un comune desiderio pregato, come può la Parola volgere ad un vento nemico di ogni comune ‘ora’, questo io non comprendo e capisco, continuo il volo perché Dio nasce dal vento di un diverso Principio. Dio non può essere racchiuso in un rigo, al crocevia di uno strano bivio dove la via può essere smarrita perseguitata o inquisita. Così che un vento nemico di ogni Natura crea la disavventura per ogni naufrago nero o bianco che sia per perire in un mare profondo quale battesimo di una strana Dottrina.
“Quanto sei ingenuo Jonathan, corri veloce per questi ed altri luoghi con compagna la sola certezza dell’umile preghiera di un mondo limpido e giusto a misura di ogni Pensiero all’uomo muto nello Spirito taciuto”.
Chi sei, non ti vedo!




“Certo che no, perché sono quel Dio pregato dal libro narrato e venerato, mi hai dato del ‘guardiano’ del tuo creato, mi hai rivolto blasfema parola offesa al secolare Verbo. Puoi leggermi su un rigo su una strofa così ben curata e descritta nello stesso secolo di quell’‘ora’, ed io farò nascere quel vento nemico alla tua Prima Parola, poi solleverò la Terra affinché la nebbia si sazi del tuo istinto immaturo. Quelle genti prega(va)no il mio pensiero al bivio di un diverso vento nato e poi risorto, e tu ben sai, visto che cavalchi la Parola dal medesimo Principio partorita, che nascono bufere al crocevia di basse o alte atmosfere, con tutte le perturbazioni che fanno il mio secolo infinito, il tuo un invisibile creato da me per sempre punito ed inquisito. Lo hai detto e descritto, per questo è nata una bufera, sono io che comando l’uomo su questa Terra, anche se Secondo al Primo di un istinto taciuto, pace e tolleranza non appartengono alle ragioni del tuo Sogno pensato e Creato, ho dovuto metterlo per iscritto e dettare il tutto ad un profeta, salì alto nel monte, non fu cosa facile incidere tutte quelle parole, per giunta il mio popolo si era anche smarrito e la legge fu l’ancora di ogni peccato, comandai quell’uomo per disciplinare quanto da te Creato, senza legge e peccato! Son io che disciplino e regolo la rotta, infatti tutti in segreto predicano la tua nuova venuta, in quanto la ‘moneta’ coniata quale eterna certezza araldo di vita, con te, certo, avrebbe esistenza ben dura! La ‘materia’ sulla quale poggi le tue ali quali fossero Divine Parole, per me, che combatto con l’uomo ogni giorno, sono scemenze senza contorno, sono tavolette per la povera favella. Il figlio che hai abbandonato per una lenta agonia nominata da te evoluzione dal mare partorita, conosce una diversa Rima, l’ermetico e intricato pensiero conosce una diversa evoluzione alla Rima dell’Eterna mia venuta, perché io quale custode nominato ho creato in verità ogni creatura...















venerdì 10 aprile 2015

L'ESILIO DI JONATHAN (10)





































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L'esilio di di Jonathan (9)

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Il volo di Jonathan (11)














... Antico (per essere da noi capito), come se non fosse tuo ingegno ‘meccanico’ con l’ala volontà cui si forma l’istinto nel gene custodito, ma al contrario (immonda Eresia…), il vento ti è, ed era amico, e indica la via della tua Parola quanto il passo quale volo della nostra misera ‘ora’. Il vento io avevo ed ho capito, legge la strofa e l’ingegno di Dio come fosse un suo sospiro, guida il volo nell’attimo in cui la Parola dal Pensiero ‘vola’, dal tuo Dio nutrita e concepita, questo elemento a noi nemico. Questo mistero per noi non può essere accettato o appena tollerato, delle ‘bestie’ come te noi nutriamo il nostro corpo e con esso il suo Spirito, perché la ‘via’ Dio ha indicato quale padrona del tuo martirio. Non tornare per questi luoghi, fuggi dal nostro sentiero, l’esilio sia compagno dell’eterno destino… Siamo noi i padroni del tuo volo, siamo noi il tuo Dio, e da qui il mio terreno occhio non scorge l’Eretico Primo Dio, con questa bestemmia noi nutriamo l’eterno pasto ben condito, tu cacciagione del nostro mortale istinto…. Il nostro vento ed in nostro comune ‘verbo’ corrono veloci da un ‘parabola’ ad un filo… occhio di Dio.  Te osi nominare Polifemo la nostra ‘parabola’? Te osi insultare la nostra ‘parola’? Disciplina e ‘canone’ di vita? Te osi turbare l’economia ed i denari della terrena e comune ricchezza? Osi pronunciare la tua ‘scemenza’ nominata ‘Eresia’, non turbare la ‘via’ non osare altra ‘magia’ da me scorta una mattina, perché ad un fucile appenderò la tua inutile e dannosa vita, ad un chiodo ornerò il mio camino quale trofeo antico la tua testa occhio senza alcun Dio. Testa di un pasto troppo antico per essere discusso al regno della eterna legge di cui leggo il raffinato e ben illustrato libro. ‘Minare’ il tuo volo è mio dovere perché la legge di un papa padrone del creato mi investì del secolare incarico…”
Quell’uomo già ho visto giù da basso, nella valle che forma la mia Rima, come una parentesi una stonatura alla musica dell’Eterna Ora, un colpo di freccia o forse di fucile, una brusca ‘parola’: non è Rima di vita, non è musica ‘trovata’ uno stesso giorno da un altro nobile Signore. Trovatore della Parola accompagna(va) il suo quanto mio motivo. Ma  io ed altri miei fratelli di questo martirio, dopo un ‘viaggio’ troppo lungo per essere qui solo descritto, cantiamo la strofa eterna di Dio, ed il Trovatore apprese e musicò la Poesia, la canzone antica…, apostrofò la vita di nuovo risorta al teschio della terrena vita…)







Per chi viene (come Jonathan…) dal cuore della Francia, i Pirenei si materializzano di colpo…., come una sorpresa…..
Dalla verde pianura ondulata allo spartiacque ci sono 3.000 metri di dislivello e non più di una quarantina di chilometri in linea d’aria: creste, cime e nevai sono parte integrante del profilo urbano di Pau, di Tarbes, di Saint-Gaudens, di Lourdes e degli altri centri abitati allineati sul margine della pianura. Verso quelle vette che superano o sfiorano i 3.000 metri (Marboré, Vignemale, Balaitous, Pic du Midi d’Ossau…) salgano valli ripide e incassate, rivestite di faggete e abetaie, percorse da acque spumeggianti. In alto si aprano i pascoli e le pietraie, si alzano creste dentellate e pareti. Poche altre regioni d’Europa offrono l’uno accanto all’altro ambienti che sembrano appartenere a ‘mondi’ così diversi.
Un nibbio reale che prende quota sopra il massiccio del Ribeste, che sovrasta Lourdes, si innalza in un’aria che sa di Mediterraneo, profumata di timo, rosmarino e lavanda, sorvola prati verdi come nella più verde Irlanda e oscuri boschi di faggi e abeti bianchi degni della Foresta Nera, ed in pochi minuti è sopra gli antichissimi graniti del massiccio di Néouvielle punteggiati di laghi glaciali e rivestiti di praterie e torbiere, o tra le pareti verticali dei giovani circhi glaciali di Troumouse, Estaubé e Gavarnie, ciclopici anfiteatri calcarei di origine marina. Anche fauna e flora qui presentano un campionario fuori del comune. Fa effetto vedere i grifoni o i capovaccai, uccelli che viene spontaneo associare alle grandi pianure aride, roteare sopra questi paesaggi alpestri sorvolando le abetaie dove canta il gallo cedrone, le pietraie dove fischia la marmotta o si acquatta la pernice bianca, le creste su cui si avventura il camoscio. E poi ci sono le aquile reali ed il grande avvoltoio degli agnelli; giù nei boschi più impenetrabili, si nasconde l’orso, e nei torrenti vive la sua vita furtiva lo straordinario desman.






Quanto alla flora, conta 150 endenismi, specie che vivono solo qui, come su un’isola, e la bellissima ramondaia, pianta tropicale sopravvissuta ad un’epoca in cui il clima su questi monti doveva essere straordinariamente caldo. Insomma, un patrimonio di ricchezze naturali e ambienti da non perdere. E infatti, in queste valli, dal 1967 c’è uno dei parchi nazionali francesi: il Parco dei Pirenei occidentali. Una striscia larga al massimo 15 chilometri e solo uno e mezzo nel punto più stretto, che corre per un centinaio di chilometri lungo la frontiera con la Spagna, dalla testata della valle d’Aure a quella della valle d’Aspe a ovest. Ha una superficie di 457 chilometri quadrati, a cui si aggiungono i 23 della Riserva naturale di Néouvielle, ma nessuna abitazione sorge nel suo territorio. Il perimetro è ossessivamente marcato da una vistosa segnaletica – una testa di camoscio rossa in campo bianco – come se fosse necessario, a scanso di equivoci, rendere ben chiaro dove comincia la protezione (ugual testa orna il mio camino nel Tempo ciclico del feudo antico, ugual trofeo orna la mia caccia svago della mia ‘ora’, non v’è direzione in codesta ‘Parola’ bada amico che leggi la mia ‘opera’, perché ora vedo il nobile signore chino attento al suo libro. Scorgo l’occhio freddo e lucido mentre contempla la parola, mentre prega Dio, la sala ampia e ricca del fasto della sua ricchezza, della guerra, del commercio cui il nuovo Millennio è padrone della moneta. Ugual metallo pregiato quanto l’armatura ben esposta alla vista, accompagnata dall’arma commissionata al fuoco della fucina, affilata quanto la spada che uccide ogni parola nemica, io servo e custode per conto di Dio. “Se di nuovo resusciti, complice la Storia, la mia anima assopita e custodita nella sacra dimora, Chiesa maestosamente nel Gotico scolpita, come fosse ‘pietra morta’ dalla quali trassi la voce della dottrina, non trascurare di narrare che io fui sempre servitore di Dio, non trascurare di dire che io sempre fui servo della sua parola, perché ora la mia Anima risvegli incatenata ad una strano destino non conforme con la Parola pregata del tuo Primo Dio. Ti scruto ed osservo ora in questa nuova vita, un albero orna la via, fermo immobile, per quanto in tanti pregano le mie spoglie ben custodite, per quanto in tanti guardano la pietra ove è custodito il mio nome, con tanti ‘primi e ‘secondi’ araldi della nobile casata, perché il sangue puro abbiamo in dono da quel Cristo. Forse fu una pretesa figlia dei suoi tempi, ed ora, per punizione del tuo blasfemo Dio, dono immobile linfa alla bestia del mio banchetto antico. Sono in attesa, nel cerchio della mia ora scritta e scolpita nel tronco del secolare destino, di restituire ugual sangue e respiro, nell’errore così ben concepito, di cui facemmo ricco il nostro secolar destino. Spero di narrare per il vero, dopo i tanti secoli trascorsi ed accompagnare il tuo canto, di trapassare a miglior vita. Zitto non ricordare! Ma se vuoi cerca di alleviare questo male antico, vorrei passare dall’immobilità di questa stagione a nuova vita così da poter narrare la vera via, ma se nomini i miei trascorsi forse potrei divenire selvaggina, ed ad un fuoco appendere e condire l’altrui vita. E poi… dopo l’inferno, comprendere la paura, dopo il fuoco ben digerito, comprendere le rime o le parole inquisite… Zitto Jonathan, non narrare o cantare del mio dolore antico, tacita la lingua arguta, miriamo il libro quale foglia antica opera preziosa, miriamo la raffinata arte, mi pento della tortura arrecata, mi pento del dolore in quel nome custodito, e per il nome restituito, ora so che fu l’errore ad indicarmi il passo, ora so che fu l’intolleranza a dissetare la volontà di ricchezza. La croce solo una scusa, il tuo Cristo, una miniatura ben dipinta ad ornare la mia sete di ricchezza. Non compresi mai la sua Parola, anche se ben custodita e incaricata. Zitto Jonathan, sto di nuovo leggendo il libro, capo chino al castello antico, con la tua venuta saprò una nuova vita alla mia ‘ora’, certo contemplerò e conserverò l’opera della stessa ora, ma ugual libro Eretico ed inquisito riscriverò al calvario delle vite uccise e perseguitate, ugual arte adopererò nella volontà nei secoli compresa, al crocevia del ramo di questo Tempo invisibile al terreno cammino….








Zitto Jonathan, una foglia cade come una lacrima da quella antica ‘ora’ nell’inverno di quella strofa ben dipinta, ed ora la ‘primavera’ la resuscita alla verità di una nuova venuta, e nella ‘pace’ scrivere la vera Natura…. Giammai guerra arrecherò alla Vita, ma prego ogni sua opera, quale voce del tuo e mio Destino, ogni Vita è sacra a Dio… E se io orno il tuo libro quale pregiata miniatura del cammino, volo eterno nel terreno cammino scritto, riscriverò per ‘loro’ e ‘mia’ anima al girone della vita, perché una Rima, come da quel Dante così ben concepita, possa restituire giammai volgare lingua, ma grammatica di vita…. all’esule fuggito dalla sua patria tradita…. E risalire la vita al purgatorio della parola cui non mi fu concesso neppure un ‘verso’ di secolare memoria, accetta il mio pentimento qui chino ed assiso nel luogo smarrito, concedimi almeno il ‘verso’ tacitato al respiro per tanto tempo donato alla punizione del tuo Dio…. Concedimi di volare e giammai compiere il completo girone della vita, ora che sto ‘strisciando’ ed implorando clemenza antica…”)








La verità che affrontiamo non è pertanto solamente quella dell’assimilazione ma è anche quella del ruolo dei miniatori nei meccanismi di circolazione dei manoscritti o dei modelli e gli effetti di tale circolazione.
‘Sono dunque gli scambi, gli spostamenti, ciò che (ci) (proprio su quel ‘ci’ mi soffermo, come un ramo fiorito, perché il mio intento non è svilire la ‘Natura’ di quell’arte ma far sì di restituire l’invisibile moneta che l’arte ha sottratto alla dignità di ciascuno, e di essere da tutti indistintamente vissuta, così come è la vera Parola da Dio sacrificata al teschio della tua venuta, nobile che destini il tuo racconto, su cui prenderò giusto appunto, perché in verità a te dico, che quell’arte è ugualmente e per sempre Divina. L’importante è saper cogliere e coltivare il vero frutto, è saper interpretare la giusta Parola, perché ugual commercio in questa stessa ‘ora’ una strana miniatura illumina la falsa parola con le eterne ragioni e stagioni di uno stesso scambio e commercio. Allora poso ben dire: che la tua opera sia contemplata, che la tua arte sia gustata come ebbe a dire quel famoso critico: ‘possedere un libro  miniato è come scrutare l’universo antico, tutto quanto entro un piccolo libro’. Ma ora il miniato e comune camino accendono un diverso libro con tanti geroglifici e parole piccole al palmare della vita, tutto il mondo ugualmente possedere senza essere neppur capito. Tutto veloce e ben curato come una ‘miniatura’ antica, ma ugual terreno cammino circolerà quale linfa dell’eterno umano martirio, e la vita di nuovo tradita. La Natura di nuovo uccisa alla croce di questa verità antica per essere dalla materia capita…)








…. I miniatori stranieri, provenienti dall’Italia o dalla Catalogna, o formatisi in un momento precedente in ateliers italiani o catalani, sono portatori di un trasferimento la cui analisi ci permetterà di meglio valutare quale è stato il ruolo svolto dalla miniatura italiana o catalana del contesto della ‘decorazione’ libraria nel Midi della Francia fra il XIII ed il XIV secolo. Una prolifica ‘bottega’ da cui prendiamo spunto ed appunto per la comune Memoria è quella del ‘Liber Visionis Ezechielis’ dalla prima opera individuata: il ‘Liber Visionis Ezechielis de Rotis’ del francescano Enrico del Carretto (1270-1323), opera conservata in due copie manoscritte, fra loro contemporanee, oggi custodite alla Bibliothèque nazionale di Parigi. In quest’ultimo esempio, ora impoverito di una buona parte del suo apparato illustrativo, Francois Avril ha individuato, nell’esecuzione di due iniziali miniate l’intervento del famoso miniatore italiano conosciuto come Maestro del Codice di San Giorgio.
Anche nell’apparato ornamentale delle ‘Decretali’ senesi, foglie d’acanto dalla fisionomia a mezza palmetta, dipinte di rosso arancio, blu e rosa, profilate in biacca, di matrice italianizzante, si avvicendano ad elementi peculiari della Francia meridionale al confine con la Spagna…, come il repertorio di figure grottesche dai volti lunari e dall’espressione ilare, posate su lunghi colli filiformi dall’andamento arricciato a guisa di molla…, ed accompagnano (…ornano con la parola il nostro comune cammino…. al girone della terrena vita cui è legato il ciclo della Divina Rima compiuta. Commedia recitata ma giammai capita al confino di una nuova via: ora cammina e vola quale verso di una nuova rinascita, per contemplare ed ornare la mia Eterna Venuta: Benvenuta Parola al sentiero del libro della vita. Anche se feroce o dolce come il ruscello ove disseto il nobile pensiero compi il ciclo della Natura, orni il disegno nell’evoluzione di ciò che fu e sarà la parola da qui evoluta. Ucciderai la Rima e la strofa, flora e fauna della vita così ben miniata e dipinta, guardala è un quadro di grande bellezza! Prega, perché questa la tua vera ricchezza! Ma con il tuo nobile ingegno, parola da lì cresciuta, la Poesia sarà così compiuta e sacrificata al teschio della terrena venuta… Parola evoluta…).








I protagonisti che si affacciano, a questo punto dell’opera miniata (giammai da noi minata…) sono, con i loro ‘volti’ altrettanto stralunati che ci scrutano per questo sentiero, i padroni o custodi della ‘pagina’ così ben ornata sentiero di vita, personaggi che per la loro ‘simpatia’ e ‘droleries’ dell’Ecosistema osservato, di rara bellezza compostezza riservatezza, e talvolta, feroce consistenza. Si sporgono da una pagina da un rigo, ornano il passo invisibile non visto nel loro secolare invito…








In Primavera la livrea candida dell’ermellino (Mustela erminea) che comincia a riprendere il suo calore fulvo come segnale della fine dell’inverno. Nel fitto dei boschi risuona il canto d’amore del gallo cedrone (Tetrao urogallus). Il bianco capovaccaio (Neophron percuopterus), l’avvoltoio degli Egizi, torna dai quartieri d’inverno africani. Nelle radure e nei canaloni più esposti, fiorisce il giallo giglio dei Pirenei (Lilium pyrenaicum). La remondia (Ramonda pyrenaica), testimonianza di lontani climi tropicali, apre i suoi fiori violetti negli angoli più umidi.
In estate il ritorno delle greggi sui pascoli estivi vuol dire anche più disponibilità di cibo per i grandi rapaci mangiatori di carogne. Il gipeto o avvoltoio degli agnelli (Gypaetus barbatus) perlustra ghiaioni e praterie per scoprire la carcassa di qualche animale morto accidentalmente. Questo grande uccello riesce a consumarne anche la pelle e le ossa. La giovane aquila (Aquila chrysaetos), riconoscibile per le macchie bianche sulle ali e sulla coda, impara a cacciare accompagnata da uno dei genitori. Per il camoscio (Rupicapra pyrenaica) inizia la stagione degli amori, ed i maschi sono impegnati a conquistare un territorio ove attirare le femmine. La marmotta (Marmotta marmotta) imbottisce d’erba secca la tana dove passerà l’inverno. Anche l’orso bruno (Ursus arctos) si prepara al letargo facendo scorpacciate di mirtilli… 

(Airone.... & I libri miniati...; nelle parentesi commenti del curatore del blog...)














                                     


mercoledì 8 aprile 2015

I FARI DI JONATHAN (8)






































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I fari di Jonathan (7)

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L'esilio di Jonathan (9)














Anche Bérteulé era a La Jument nell’inverno del 1989, ma non a Natale come Théodore Malgorn. Ora sono tutti e due a Kéréon, il faro più elegante della costa bretone, arredato con legni pregiati e con mobili di lusso per volontà della nobile signora Jules Le Baudy, che offrì il 2 gennaio 1910, la bella somma di 585.000 franchi ‘per costruire un faro sullo scoglio ‘Men Tensel’ e intendendo così onorare la memoria del mio pro-prozio, Charles-Marie Le Dall de Kéréon’.
Da Brest a Portsall fino alla punta di Brignogan, dipartimento di Finisterre, Bretagna, su meno di duecento chilometri di costa sono distribuiti 23 grandi fari, 63 segnali luminosi fissi, 14 stazioni di radionavigazione e 258 boe. Illuminano la rotta più trafficata del mondo, percorsa ogni anno da oltre 50.000 imbarcazioni, dai cabinati dei turisti alle superpetroliere, che malgrado tutti i controlli hanno troppe volte lasciato la loro scia di veleni sulla costa bretone: 24 gennaio 1976, ‘Olympic bravery’, 250.000 tonnellate di petrolio in mare a nord di Ouessant; 16 marzo 78, ‘Amoco Cadiz’, 220.000 tonnellate davanti a Portsall; 24 agosto 79, ‘Gino’, 41.000 tonnellate al largo di Ouessant; 7 marzo 80, ‘Tanio’, 27.000 tonnellate, al largo di Portsall; 31 gennaio 88, ‘Amazzone’, 3.000 tonnellate al largo di Ouessant…..




(Che cosa vede, alto Jonathan, nei limpidi cieli azzurri mentre vola, incurante del male riflesso in questo grande mare: non certo una Rima potrà dare sollievo a tanto petrolio incatenato alla superficie della vita; non certo ‘Intelletto’ per i traffici della loro eterna guerra, che nel traffico quale solo e unico motto antico, anche gli uomini fuggono dal loro Dio; e così assieme al petrolio concime del nostro comune futuro, anche uomini donne e bambini che in ugual mare fuggono e sperano di trovare sollievo al loro mal di vivere in una terra contaminata dall’odio, per quella eterna illusione al capezzale della comprensione. Ma troveranno solo l’incertezza di una falsa Poesia mista a compassione antica, ed il mal di vivere, da profugo in questa vita, diverrà nuova fuga per una diversa vita (li abbiamo visti al telefono del loro corrotto mare, anche il rifugiato porta il giusto affare). E l’inganno accompagnerà la loro via, perché il grande politico di turno con occhi tristi ed affranti, mentre presenzia un nuovo ‘disastro’ del mare e non, annuncia che il problema del Tribunale, là dove il guardiano occupato ad altro traffico, rimane nell’arma incauta di chi sparò il colpo improvviso, nel facile tiro cui ogni cittadino può ambire all’arma del suo riscatto antico. Certo, quale guardiano di questo faro in questo mare e porto, posso dirti caro ‘politico’ che il problema non risiede nell’arma di cui in Italia, le statistiche, cacciatori a parte, sono nella totale normalità nell’evoluzione della pietra dell’orango incattivito; ma nel tuo traffico antico dal quale trai nutrimento antico e saporito accompagnato dal voto dell’araldo altrettanto antico, veleno del nostro passo tradito. Le guerre, caro politico del Reame, come i disastri delle petroliere, pur apparentemente distanti nella logica, ma intimamente collegati quali eventi della ricchezza, si prevengono non burlandosi del popolo da cui trai dolce diletto, ma dalle cifre che vogliono il tuo bel Paese terzo o quarto esportatore di armi e 




tecnologie belliche. Tutte quelle ‘schifezze’ e ‘merde’ che fanno ricca e rigogliosa la tua economia. Allora, a detta del guardiano di codesto umil faro, in quanto il portiere è concime di codesta corrotta economia da albergo, non ciarlare ugual al villano, perché la tua parola è truffa a quest’ora, il tuo concime, è come quel petrolio che ogni tanto esce dalla sua rotta, e va ad inquinare l’azzurro mare. Quello ove regna la vita, giammai l’antica tua disciplina, lo sterco del diavolo nella banca ben custodito, annuncia una nuova ‘bugia’ al faro del Primo Dio, mentre il Secondo vede un mare tribolato da governare a detta del suo Dio, all’ombra di un commercio saporito accompagnato dalla fuga di un pianto antico. La guerra un ottimo affare per il fiorentino, ricordiamo i suoi denari in ugual mondo antico! Certo quelle violente tempeste indice di un uragano vanno a nutrire ancor di più la tua gloria, perché nella favella di una lingua arguta, si cela il grande e vero oltraggio alla nobile Natura, in quanto la tua astuta arma si è da lì evoluta, ed ogni tanto nella sua rotta incrocia chi convive con l’eterna sventura, affogata nel petrolio concime della tua eterna tortura! E’ l’Intelletto che saluta la tua venuta, l’Istinto lo lascio al guardiano della tua nobile statura, ma qui dall’alto del mio volo sei come un piccolo verme che striscia la sua terrena avventura, per diventar uomo dovrai imparare il volo, per diventare politico dovrai ricordare la Rima, di chi dalla tua terra fuggito…!        

(Airone, Dicembre 1992)   















                     

lunedì 6 aprile 2015

I SENTIERI DI JONATHAN: Riempite la Terra, soggiogatela... (6)








































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I sentieri di Jonathan (5)

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I fari di Jonathan (7)













Ma che cos’è la sua fratellanza universale se non il meraviglioso equilibrio che oggi chiamiamo biosfera, come non tradurre la sua convivialità cosmica nei termini della tanto invocata ‘nuova alleanza’ tra l’uomo e la Natura?
Francesco fu portatore di valori alternativi ad un progresso basato sull’accumulazione e sullo sfruttamento delle cose e dell’uomo (nel condominio, nell’appartamento di questo Albergo nell’Eterno passaggio ciclico di codesta misera vita…) da parte (appunto…) dell’uomo stesso. Di fronte ai mercanti ed agli usurai del Duecento (il Tempo è un inutile dettaglio….) predicò l’essere e non avere, il rispetto e non il dominio, la qualità e non la quantità.
Il suo era il mondo nuovo in cui alle campane si affiancava l’orologio della torre cittadina, in cui il ‘Tempo della Chiesa’ fatto di ore seste e none faceva posto al ‘tempo del mercante’ che era ed è denaro e produce denaro. Il nostro è il mondo ormai consunto in cui la scelta di allora mostra tutte le sue pecche, ma in cui si riscopre il valore della qualità della vita, in cui si rivendica un diritto dimenticato: quello dell’Ambiente, al godimento di una Natura troppo a lungo usata e abusata senza limiti e principi.
Il nostro è il tempo in cui si rimettono in discussione i concetti di sviluppo e di progresso basati unicamente sul reddito e sulla capacità di fare reddito, in cui si discute sui limiti del nostro dominio sul mondo (il condominio di codesta misera Vita, cella dell’anima perseguita…), in cui si riscopre san Francesco.




Fratello sole, sorella luna (ed ad un fratello, anche lui lupo, giammai umiliato, perché il destino lo fece signore figlio di mercanti ben educati del branco erranti, …di questa parabola forse per sempre perseguitata e taciuta…, un altro lupo narrò la sua Prima vita quando ad un rogo fu consumata la sua Eresia, in quanto predicava ugual Parola al Teschio di ugual Memoria…) così il ‘Cantico delle creature’ assume oggi per noi il senso di un codice ecologico di comportamento e di scelta, non esempio poetico di misticismo naturalistico ma indicazione precisa per una riconciliazione doverosa tra uomo e natura, dichiarazione d’amore ma anche profonda consapevolezza di quei legami imprescindibili che ci uniscono all’ambiente.
‘Francesco’, ha scritto un altro studioso francescano, Orlando Todisco, della Pontificia facoltà teologica, ‘non vive semplicemente nel mondo. Egli con-vive’. Certo il suo sguardo è quello del cittadino del Duecento per il quale lo spazio al di là delle mura non è più ‘il deserto’ pieno di demoni in cui si arrischiavano solo gli eremiti, ma luogo di commerci, di viaggi, di conquiste e di nuovi mercati. La Natura fino ad allora rimasta nell’ombra e oggetto di disprezzo, paura o semplice possesso (quando, dominata dall’uomo, diveniva terra da arare), esplode nella sua bellezza, diventa gioia di vivere, il linguaggio muto con cui parla Dio stesso.
‘La via di Francesco’, scrive ancora Todisco, ‘è la via della comunione contro quella dell’oppressione, della fraternizzazione cosmica contro quella dello sfruttamento. E’ il punto di riferimento, l’asse centrale dell’impianto sociale che egli vuole mutare, o anche la direzione, il senso del nostro essere nel mondo. Più che rifiutare le conquiste della società si tratta di disporne diversamente, mutarne il valore egemone’ (aggiungo, quel ‘mutatis-mutandis’ di cui tanto necessitiamo nella simmetria di questo ‘monarchico principio’ nel Regicidio della vera vita verità e via…).




Quanto tutto questo sia diventato progetto attuale religioso, cattolico e non, lo dicono sia la ‘Carta di Gubbio’ del 1982 sia il documento del 1987 ‘Verso il terzo millennio’ scaturito dall’ultimo seminario ‘Terra mater’. Vi si parla il linguaggio che fu di san Francesco, vi si trova la rivendicazione di un diritto all’ambiente che è di tutti e di ciascuno, e che attraversa le generazioni e pone limiti alla crescita economica e all’uso delle risorse.
‘Gli stessi nostri Ministri generali’, sottolinea ancora padre Bernardo, ‘ci hanno esortato alla collaborazione fattiva che le organizzazioni ecologiste, e la richiesta contenuta nella ‘Carta di Gubbio’ della creazione di particolari organismi per l’ecologia sta per trovare una realizzazione proprio qui a Roma, dove verrà costituito un Centro francescano per gli studi ambientali’. Il nostro mondo ha dunque ritrovato Francesco, giovane scapestrato, uomo semplice, uno come noi eppure tanto diverso da noi, trovatosi otto secoli dopo la morte proprio, a uno dei più difficili crocevia che l’uomo ha dovuto attraversare, là dove si intersecano le strade del futuro, là dove la gioiosa speranza nell’uomo e nel mondo si scontra con i nostri pessimismi scenari di allarmi ecologici.
E l’abbiamo trovato lontano dalla ‘grande cattedrale della Natura’, non in mistica contemplazione del Creato ma nelle aule universitarie, nelle assemblee, nei convegni, nelle marce per la pace, tra uomini di tutte le religioni, tra ecologisti e frati; nelle città e nelle campagne sempre più inquinate, ad indicarci la via non facile per riscrivere il nostro concetto di sviluppo, di benessere, di qualità della vita.
Lo abbiamo ritrovato forse perché venuto ‘il tempo dell’ambiente’, perché sta per scadere l’ottavo giorno della Creazione, quello che nel libro della Genesi fu affidato all’uomo, a ognuno di noi, con il compito di vivere e con-vivere con ‘sora nostra matre terra’.

(Sull’argomento ‘Chiesa e Natura’ segnalo la enciclica ‘Sollicitudo rei socialis’ di Giovanni Paolo II nel ventesimo anniversario della enciclica ‘Populorum Progressio’; ed inoltre il documento ‘Programma ambientale’, presentato da papa Karol Wojtyla alla Divisione Ambiente delle Nazioni Unite a Nairobi, Kenia, il 18 agosto 1985)

(Airone, ottobre 1988)
















sabato 4 aprile 2015

I SENTIERI DI JONATHAN:'Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la Terra; soggiogatela e dominatela sui...' (4)

















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I sentieri di Jonathan (3)

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I sentieri di Jonathan (5)













la montagna con i polmoni e i muscoli di un vecchio montanaro’.
Un testimone racconta una storia diversa…
Edgardo Camosi, 86 anni, (alla data dell’articolo di Ardito…), scia ancora. Vive in uno chalet di legno che si è costruito da solo tra i faggi. E’ stato guida alpina (‘ma qui l’alpinismo non interessava a nessuno’), poi il maestro di sci più famoso nei ruggenti anni Cinquanta. L’elenco dei suoi allievi include Gina Lollobrigida e Sylva Koscina, Vittorio Gassman e i rampolli (bulli di oggi…) della nobiltà romana (a questo punto mi par logico parafrase la celebre frase di Totò, non certo il Totò di Lombrosiana memoria: ‘…ed io - cari voi - lo nacqui…’) come i Chigi, i Pignatelli, i Massimo. Negli anni Trenta Camosi era il solo ad insegnare.
‘Mussolini non sciava. Al massimo camminava un po’ sugli sci, con la scorta che teneva lontani i curiosi. Poi si faceva fotografare a torso nudo, e si ritirava nel suo appartamento al Roma. Sciavano, e bene, le sorelle Myriam e Claretta Petacci, l’amica del Duce. Nonostante la retorica del regime, nessun gerarca ha mai messo gli sci ai piedi’.




La guerra e la caduta del fascismo (oddio, caduta mi par fuori luogo, è mai caduto il fascismo?) lasciano il Terminillo tranquillo. Solo un aereo alleato, nel 1943, scambia per una postazione militare il rifugio Umberto I sulla cima del Terminiletto e lo danneggia con una bomba (ancor oggi, parafrasando Totò, avvengono di questi ‘errori…’). Nel 1945 arriva sulla montagna un altro protagonista importante. Si chiama Willy Acherer, è nato a Merano, come molti giovani del Sud Tirolo, italianizzato a forza dopo il 1918, si è arruolato nella Wehrmacht tedesca. Prigioniero in un campo di Terni, viene arruolato a forza per insegnare – Camosi si è appena rotto una gamba – lo sci ai piloti della Raf britannica di stanza negli aeroporti del Lazio.
La pace torna, e Acherer rimane al Terminillo.
 Apre un noleggio di sci, poi un piccolissimo negozio, infine una fornita boutique. Appena ha un momento, scappa verso la montagna. ‘In quegli anni’, racconta, ‘molti dei frequentatori più famosi, come Farouk d’Egitto, Anita Ekberg e vari politici italiani, non pensavano neppure di sciare, tanto è vero che molti maestri di sci si trasformeranno in plyboy’. Invece Willy Acherer scia e come. L’uno dopo l’altro, percorre i canaloni più ripidi, i pendii più difficili.  ‘Noi dell’Alto Adige, a quel tempo, conoscevamo solo lo sci-alpinismo: su a piedi e giù in sci. Per vent’anni mi hanno dato del pazzo, quando qualcuno vedeva una traccia sul ripido diceva: ecco la firma di Willy!’.




‘Io ci ho messo un po’ a capire il Terminillo, poi mi sono innamorato. Sulle Alpi non esistono bufere violente come quelle di qui. Nessuna neve alpina è piacevole come quella delle montagne mediterranee a primavera’, confida Acherer. ‘Ogni anno a maggio invito degli amici, li faccio sciare sulle ultime nevi del Terminillo e del Gran Sasso. Tornano a casa entusiasti’. L’Aria di queste montagne ha fatto bene anche a lui. A 73 anni, cammina, arrampica e scia come un ragazzo. Oggi i canaloni che Acherer ha esplorato per primo sono tra i più frequentati dell’Appenino. Dai 1.820 metri del rifugio Sebastiani basta un’ora per salire ai 2.216 della cima. In discesa, le nevi del Canalone centrale, del Vallone della Mèta, della Valle Scura sono ripide e invitanti. Dalle creste il panorama spazia verso il Gran Sasso, i Sibillini, la Laga, ma anche verso i monti della Tolfa, il Tevere, il mar Tirreno.
E non c’è soltanto lo sci…




Per migliaia di alpinisti del Lazio, incluso chi scrive, il Terminillo è la palestra ideale per usare piccozza e ramponi. In buone condizioni, in canaloni che guardano la Sella di Leonessa non pongono problemi. Tuttavia, con la sottile crosta di ghiaccio dell’inizio dell’inverno, salite come la via Chiaretti-Pietrostefani del Terminillo o la parete Nord del monte Elefante diventano impegnative. All’alpinista e allo sciatore in cerca di nevi intatte questo ‘Terminillo selvaggio’ consente una piacevole illusione. Quella di non vedere, o avvistare solo da lontano, seggiovie e palazzoni, brutture edilizie e strade inutili. Alla storia che abbiamo raccontato, infatti, mancano le pagine finali. Le peggiori. Dopo i torpedoni degli anni trenta e la mondanità degli anni che vanno dal ritorno della pace fino al 1960, politici e attori migrano verso Saint-Moritz e Cortina. Lo sci diventa di massa. Negli anni Sessanta e Settanta, la speculazione edilizia che ha sfigurato Roma e la costa raggiunge la montagna.




Nei sogni della borghesia romana (per dirla alla Moretti: ‘videoregistratore e pantofole’…), oltre alla villetta a Fregene, c’è l’appartamento al Terminillo. A pian de’ Valli, ridisegnato dai palazzinari romani, i 32 condomini e le oltre cento ville sorgono nel disordine più assoluto, con un acquedotto inadeguato e senza fogne. Nel 1980 la magistratura finalmente interviene: gli scheletri dei palazzi sequestrati appaiono ancora nel bosco. Poi le cose cambiano ancora. Automobili e strade migliori, prezzi più bassi, un’offerta di piste senza paragoni con l’Appenino spostano la settimana bianca dei romani verso l’Alto Adige o il Trentino. Altra concorrenza arriva dalle nuove stazioni abruzzesi come Campo Felice. Tra il 1975 e il 1986 i pernottamenti negli alberghi del Terminillo è a un bivio. Il ‘Piano di coordinamento’ varato nel 1974 dall’Ente provinciale per il turismo di Rieti, e mai ufficialmente smentito, prevede di quadruplicare gli impianti e di triplicare le piste. A Leonessa, il progetto di un tunnel verso Rieti è sostenuto da molti: a farne le spese sarebbero i faggi della Vallonina e le rocce del vallone di Lisciano.
‘Dove gli impianti già ci sono, i cannoni per la neve artificiale sembrano il rimedio giusto e universale. Ma a che servono, se non c’è acqua per alimentarli e se non gela?’, si chiede amaramente Alberto Bianchetti, alpinista e consigliere comunale a Rieti. L’alternativa è un Terminillo diverso, migliore. Una montagna con un versante agli impianti e allo sci, e un altro lasciato libero per le camminate nelle foreste del versante di Albaneto e Piedelpoggio, l’osservazione della fauna e della flora, le gite con ai piedi i ramponi o gli sci.




‘Questa montagna ha un passato straordinario che la monocultura dello sci ha cancellato. Sono state dimenticate la storia della transumanza delle greggi verso la campagna romana e quella dei venditori di neve di Antrodoco e Micigliano, che ancora all’inizio del secolo portavano a Rieti e a Roma la materia prima per gelati e sorbetti. Tradizioni, leggende, architettura sono altri filoni da valorizzare’, sottolinea l’alpinista Roberto Marinelli. Un progetto di parco naturale esteso su 24.000 ettari è stato messo a punto nel 1988 da Cai e Wwf reatini, e presentato alla Regione Lazio nelle due ultime legislature. La scelta di far convivere sci di pista e Natura è già passata sui massicci vicini: nel Parco del Gran Sasso-Laga e in quello dei Sibillini. Ma al Terminillo l’opposizione è maggiore. Troppo forte, per la gente di Rieti, di Cantalice, di Micigliano, di Leonessa è stata per decenni l’illusione che lo sci fosse la soluzione a tutti i mali.
In una giornata di dicembre di tre anni fa, nel bel mezzo di un’autentica bufera di neve, salii alla vetta del Terminillo con chi aveva elaborato il progetto – Giuliano Colantoni di Rieti, Luciano Santi di Leonessa, ed altri amici che sarebbe troppo lungo citare – e con un centinaio di soci di Mountain Wilderness e Cai. ‘Per il Parco dei monti reatini’, diceva lo striscione che aprimmo insieme sulla cima. Altre manifestazioni seguiranno, ma finora da parte delle istituzioni, nessun cenno. La Regione non si muove né per il parco né contro; gli scandali di Tangentopoli e dintorni hanno messo in disparte i progetti più faraonici e costosi. Oggi la ‘montagna di Roma’ è nel limbo.




Ne uscirà?
I promotori del parco lo sperano.
Le aquile della Valle Scura, i lupi che ancora percorrono i crinali e le foreste, le orchidee selvatiche e i 17.000 faggi minacciati dai tagli aspettano con fiducia.

(Airone montagna, Stefano Ardito, Inverno 1993; nelle parentesi riflessioni del curatore del blog)