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Il banchetto dei Cesari (73)
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Ave a Te Giulio Cesare (75)
Degno
d’eterna memoria, invero, fu il detto di quel savio quando disse la virtù esser
ferma possessione dell’huomo, la quale ben che tal’hora ella venghi sbattuta e
sfrondata dall’impetuose tempeste della Discortesia, alla fine si scopre un
chiaro sole, il quale la ristaura, ritornandola nella sua pristina fecondità.
Chiaro e lucido sole adunque posso dir’ io con verità che sia la lor nobilissima
ACCADEMIA (oh CAVALIERI DEGNI ED ILLUSTRI) meritatamente detta de gli ARDENTI,
poscia che con gli ardenti raggi della loro magnanimità hanno posto gratissimo
ristoro alla sterilissima possessione del mio basso e debole intelletto, ed
inaffiandola con la rugiada della splendidezza loro, hanno dato occasione alla
povera Musa mia di cantar per sempre le degne lodi loro. Ed obbligo
grandissimo, certo, e render sempre devo gratie al cielo prima, e poi al
Reverendo. Signor Don Girolamo Giacobi, musico eccellentissimo e precettor loro
nella scienza musicale, essendo stato mezzano, per sua bontà e cortesia, ad
introdurmi a prendeer servitù di così illustre e nobil comitiva, la quale,
esercitandosi nell’eccelse virtudi, sotto la disciplina del molto Reverendo Signor
Giovanni Domenico Lappi, a questa etade per dottrina e per bontà di vita huomo chiarissimo,
non può se non riuscire chiara e famosa in ogni sorte di scienza, e parimente
ornata d’honestissimi costumi. Per le cause suddette dunque son forzato
mostrarle un picciol segno di gratitudine, quale sarà questo mio “Mondo alla
roversa”, nel quale con chiari esempi si dimostra quanto siano poco prezzate le
virtù al dì d’hoggi da tale e quale, non dissuadendole però, ma esortandole a
seguir quale, come strade, le quali conducono l'huomo a perfetto fine, e riverentemente
inchinandomi, le bacio l’honorate mani.
A GL’ISTESSI
SIGNORI ACCADEMICI
ARDENTI
Voi, i cui bei pensier, le voglie ardenti
A le sante virtù fisse tenete,
E che spesso v'andate a trar la sete
Del bel Castalio a i rivi alti e lucenti,
E sollevando al ciel le vostre menti
Al tempio de la gloria il piè volgete,
Onde non sia che i nomi vostri in Lete
Dal cieco oblìo mai sian sommersi o spenti,
Per quel caldo desìo che 'l cor v'accende
E a le scienze vi sprona, ornate e belle,
Ch'ergon gl'huomin da terra e gli fan Divi,
Il foglio ch'io vi porgo, in cui si stende
Il viver rio di questo mondo imbelle
Non sia chi d'accettar si sdegni o
schivi.
IL MONDO ALLA
ROVERSA
Ogn'un mi dice, tu sei sì barbuto,
Pallido in faccia, magro e scolorito,
E sempre vai d'un habito vestito,
Pensoso, solo, sconsolato e muto.
Un'Heraclito hormai sei divenuto,
Nel duolo immerso; hor chi ti tien supito
In tal miseria? Che pur sei gradito
In ogni parte ove sei conosciuto?
Io rispondo a ciascun che la stagione
Empia dove noi siamo a ciò mi tira,
E mi da di doler ampia cagione,
Però se 'l miser cor s'ange e sospira,
Vien che corrotte son l'usanze buone,
E ogn'un a l'util suo risguarda e mira
E ciascheduno aspira
Al guadagno, per dritta o torta strada,
E sol' attende a quel che più gli aggrada,
E più nissun non bada
A la virtù, ma ogn'un gli fa contrasto,
Che tutto il mondo è rovinato e guasto.
L'asin cavalca il basto,
Il rio villan ne la città si serra,
E 'l pover cittadin zappa la terra,
La pace da la guerra
E' stata uccisa, e da la crudeltade,
L'amicitia, l'amor e la pietade;
E da la falsitade
La fedeltà vien morta, e da l'inganno
E l'allegrezza estinta da l'affanno,
L'insolenza fa danno
A la modestia, e la discortesia
Scaccia la civiltà per ogni via.
E da la villania
La gentilezza è offesa, e la creanza
E la virtù sta sotto l'ignoranza.
La perfida arroganza
Conculca l'humiltade, e l'avaritia
Accieca e cava gli occhi a la giustitia,
La fraude e la malitia
Spent'hanno la bontà, l'odio e lo sdegno
A la benignitade han tolto il regno.
E con ira e disdegno
Vien morto e lacerato il beneficio
Da l'empia ingratitudine e dal vitio,
Giace estinto il giudicio,
Da l'importunitade e dal furore,
E la vergogna supera l'honore,
Da la viltà il valore
Vien' oscurato e l'obbedienza fugge,
Perché il poco timor le scaccia e strugge.
La riverenza rugge
Vedendosi insidiata dal dispregio,
E l'infamia a la gloria usurpa il pregio.
E 'l suo honorato fregio
Perso ha la pudicitia honesta e pia,
Che spenta vien da la ruffianeria,
Morta da la bugia
Giace la verità tutta stratiata,
E da l'adulation pesta e calcata.
La gioventù sfrenata
L'honestà sprezza, e segue l'adulterio,
La carne, il senso, il mondo e 'l vituperio.
Il biasmo e l'improperio
Supera la patienza e la confonde,
E la ragion dal torto si nasconde,
E più per queste sponde
La liberalità non fa dimora,
Perché l'empia ingordigia la divora;
La pigritia s'honora;
La gola, il sonno e l'otiose piume
Hanno bandito ogni gentil costume.
Il senno il suo bel lume
Ha perso, e la prudenza può più poco,
Che la pazzia gli ha tolto il primo loco.
La vanitade e 'l gioco
L'inertia, vile, e la mormoratione
Spent'hanno affatto la compassione,
E la discretione
Più non si trova in alcun luogo al mondo,
Perché la crudeltà l'ha posta al fondo.
A tal, che 'l mondo immondo
E' tutto guasto, rotto e fracassato,
Per esser malamente governato.
Voltatevi in che lato
Volete, per la dritta o la traversa,
Ogni cosa si regge a la roversa.
La buona usanza è persa,
Com'ho già detto, e vedo il servitore
Voler' esser da più del suo signore,
La serva fa romore
Con la madonna, e spesso sta affettata,
Mentre ch'essa patrona fa bucata;
E ogn'hor fra la brigata
S'ode quel che sa peggio ragionare
Non voler mai finir di cicalare,
E 'l zoppo camminare
Vuol più del dritto, e se gli mostra acerbo,
E più del ricco il povero è superbo.
Ancor non mi riserbo
Di dir ch'assai più brava uno stroppiato
Che non fa un valoroso e buon soldato,
E molto più trincato
E' un fanciul di quattr'anni, e assai più astuto
Che non è un huom d'età vecchio e canuto.
E par vi sia un statuto,
Che tutti quanti quei c'han bel tacere,
D'infamar sempre altrui han gran piacere.
Ancor certe mogliere
Vi son, di s'insatiabile appetito
Ch'esser voglion da più del lor marito,
E s'ei non è assentito,
E che a la prima si lasci squadrare,
Voglion portar le brache e governare;
E gli fanno lavare
Fin' a i piatti, i catini e le scodelle,
E fregar le caldaie e le padelle,
E ancor, se pare a quelle
Che faccino bucata, essi la fanno,
Ed esse a pancia tesa se ne stanno.
E molte, che gli danno
Di buone busse, e i poveri castroni
Stan lì, come bagnati cornacchioni.
E non san che i bastoni
Son la miglior ricetta che s'accatti
Per frenar questi humor bestiali e matti.
Ancor forz'è ch'io gratti
La pancia a la cicala, e andar scoprendo
I vitij, ch'ogni dì vedo e comprendo.
E dir com'io l'intendo,
Per dimostrar con ordine e misura
Quant'hoggi sia corrotta la natura.
Che più semplice e pura
E' una donna di tempo maritata
Che non è una fanciulla scapestrata,
E a una troia foiata
Son fatti mille inchini e sberrettate,
E le donne da ben non son stimate.
Ed hoggi più apprezzate
Son le lingue maligne e vitiose
Che non son le fideli e virtuose.
E tutte queste cose
Procedono che 'l nostro naturale
Ha l'habito d'ogn'un piegato al male,
Né più v'è un huom reale,
Ma ogn'un attende a l'utile e al guadagno,
E beato chi può farla al compagno.
La mosca piglia il ragno,
La lepre il cane, e la formica il tordo,
E tal la carca altrui, che par balordo.
Il nostro senso ingordo
Mai non si satia, e la ricchezza ria
Vorrebbe ogn'hor veder la carestia.
E tal va per la via
Che par Messer Schivoso nella ciera,
Qual poi ha in sen le carte da primiera,
E sta aspettar la sera
Per andar' a giocar a le baccane,
A le bettole, a i chiassi, a le puttane.
Quante persone vane,
Che si fanno conscienza d'un quattrino
E poi rubano la notte un magazzino?
Quanti fan l'indovino
E predicendo van l'altrui venture,
Che conoscer non san le lor sciagure,
Né lor disavventure?
E quanti vanno attorno pitoccando
Che sempre han cento scudi al lor comando?
E quanti passeggiando
Fanno il grande con habiti pomposi,
Che son scritti fra i pover vergognosi?
Quanti fan gli amorosi,
I belli e i profumati con le dame,
Che poi la sera crepan de la fame?
Quante vecchiette infame
A torto collo vanno, e a testa china,
Che poi portano i polli a la vicina?
Quanti sono in rovina
Andati, che non han speso un marchetto,
Per far un beneficio a un poveretto?
E tal fuori dal suo tetto
Fa il bell'humor, e tiene ogn'uno in spasso,
Che in casa sua poi sembra un Satanasso?
Quanti fanno il gradasso
E bravano a credenza tutto il giorno,
Che a l'occasion si caccerìan 'n un forno?
Quanti han bei panni intorno,
Danari e servi, e buon cavalli in stalla,
Che gli starebbe meglio un sacco in spalla?
E s'un di questi falla,
Non v'è chi lo riprenda di niente,
Che la roba fa l'huom parer prudente.
Quanti per accidente
Da la fortuna son fatti felici,
Che ingrossano la vista a i loro amici?
Quanti a quaglie e pernici
Sguazzano a mensa e s'empiono il budello,
Che non credon la fame al poverello?
Quanti sopra il cappello
Portan pennacchi e voglion parteggiare,
Che farìan meglio andare a lavorare?
Quanti vanno a comprare
Da i loro amici, per haver vantaggio,
Che spendon più, ed han più scarso saggio?
Quanti vanno in viaggio,
Pensando che si sguazzi in gli altrui lati,
Che a casa tornan frusti e consumati?
Quanti si fan soldati
Per viver su lo scoppio e su la spada,
Che lassan le reliquie per la strada?
E quanti dicon: “Vada
Il resto”, e san di tutti allegramente,
Che poi si van sbattendo fra la gente?
Quanti cortesemente
Prestano i lor denari a tali e quali,
Che gli son poi nemici capitali?
Quanti huomini bestiali
Senza giuditio alcun, senza ragione
Battono le mogli honeste e buone?
Quanti fan professione
Di rovinar' i figli di famiglia,
Col fargli far de i stocchi e tutta briglia?
E tale altrui consiglia,
Che se fosse suo conto, o fatto espresso,
Non lo farìa, per quanto val se stesso.
Quanti fanno un processo
De' fatti altrui, e sopra li banconi
Menan le gambe, e dan delle canzoni,
Che mentre su i cantoni
Tassano questo e quel di stolto e pazzo,
Ne le lor case altri si dà sollazzo?
Chi 'l taglia catenazzo
Fa con longhi mostacchi e faccia oscura,
Pensando che nel pel stia la bravura,
E mentre si procura
Far treccie, ricci, e transformarsi il viso,
Move per tal pazzie le genti a riso?
Quanti fanno il narciso
Che son pieni di cauteri e fontanelle,
E ammorban di pedane e san d'ascelle?
Quanti portan la pelle
D'agnello, e quando vengon maneggiati
Si scopron tanti lupi arrabbiati?
Quanti sono ingannati
Da certe dolci e belle paroline,
Sotto cui stan nascoste opre volpine?
Quanti aspettano al fine
A soccorrere un povero ammalato,
E quand'ei non ha più spirto né fiato?
Quanti, che mai errato
Non han, vengon puniti? Quanti ladri
Sguazzan giocondamente a gli altrui quadri?
Quanti poveri padri
Prodotto hanno di figli una canaglia,
Che da lor mai non han quant'è una maglia?
Quanti vedon la paglia
Nell'occhio altrui, e gli par duro e grave,
Che ne' lor propri non vedon' il trave?
Quanti sotto la chiave
Tengon, né voglion dare il loro argento,
Se non ne cavan venti e più per cento?
Quanti per testamento
Lassan la roba a certi squaquaroni
Che poi tiran coreggie da poltroni
Privando spesso i buoni?
Onde i figli, i nipoti e le sorelle
Van poi tapini in queste parti e in quelle?
Quante fan le donzelle,
Le savie, le modeste, e le schivose,
Che pria chiamate son madri che spose?
E quante stomacose
Si scortican con lisci e con belletti,
C'han due spanne di cricca su i garretti?
Quanti caca zibetti
Fan l'amor di secreto, ch'in palese
Gli mangia poi il naso il mal francese?
Ed altri fa il cortese,
E il liberale con la roba altrui,
Che nol farìa, s'appartenesse a lui.
V'è ancor tal huomo a cui
Meglio fiorisce in bocca una bugia
Che mai parola dir che vera sia.
Quanti per mala via
Van, con le vesti lor fruste e stracciate,
Che son falliti per le sicurtate?
Quante mal maritate
S'odon rammaricar, quanti mariti
D'haver mai preso moglie son pentiti?
Quanti fan de' partiti
A questo e quello, e danno moglie a tale
Che sarìa meglio trarle in un canale?
Perché con tale e quale
Credon far parentado ed amicitia,
E fanno una perpetua inimicitia.
Quanti per avaritia
Portan più tosto i panni rotti indosso,
Che cavarsi di borsa un mezzo grosso?
E l'han tanto nell'osso,
Che quel ch'a i servi lor dovrìan donare,
Fin che pezzo ve n'è voglion portare,
E si fan rappezzare
Cento volte i giupponi e le calzette,
Roversar li cappelli e le berrette.
E se qualch'un le smette,
Che non sian troppo fruste o troppo rotte,
Ne cavano pantofole per la notte.
Queste non son carotte,
Ch'io vedo tal berretta, alcuna fiata,
Che dieci volte è stata rivoltata.
Oh, roba mal' usata,
Quante genti per te vanno in disperso,
Per seguirti pe'l dritto e pe'l traverso?
Il gallo fa un bel verso
Mentre fra le galline sta cantando,
Ma col pie' sempre indietro va raspando,
Così lo va imitando
L'amico finto, che bugie ti vende
Largo promette, e poi nulla t'attende.
Oh, quanti fan faccende
Con il cervello e con la fantasia,
Ch'in fatti poi non san trovar la via?
Quanti fan mercantia
Delle lor mogli e delle lor figliuole,
Lasciandone la cura a chi la vuole?
Quanti ti dan parole
E mentre tu gli attendi e che gli credi
Ti levano la borsa e non t'avvedi?
E quanti ganimedi,
Con que' suo bei collar' fatti a cannoni
Con l'amito, la falda e bei cresponi
Van facendo i pavoni
Portando il collo intiero a più non posso,
Che Dio sa poi s'hanno camicia indosso?
Quanti fanno all'ingrosso
Sguazzar le lor sgualdrine e le ruffiane,
Ed alle mogli mai non portan pane?
Quanti fan feste al cane,
Per amor del padrone, e dan covelle,
Che senza quel gli leverìan la pelle?
E quante artigianelle
Han quattro soldi in dote ed una cotta
Non crederiano alla regina Isotta?
E tal ti dà una botta
In testa, e tosto nasconde il coltello,
Che ti fa de l'amico e del fratello;
Chi ti fa bello bello,
E ride in bocca e par che t'accarezzi,
Che vorrebbe vederti in mille pezzi?
Altri par che ti prezzi
E ti lodi in presenza della gente,
Che poi dopo di te dice altrimente.
Altri ti fa il parente,
S'hai della roba, ma se sei mendico
Non ti conosce e non t'ha per amico.
Ma perché m'affatico
A voler dimostrar quel che si vede
S'ancora n'è di più che non si crede?
Basta ch'io facci fede
Che 'l mondo è guasto, e ch'ogn'un vuol' oprare
Al contrario di quel ch'ei dovrìa fare.
Però, s'io sto a penare
E s'ho d'ogni piacer perso la scrima,
Vien che 'l mondo non è com'era prima.
Perché più non si stima
Virtù, ma sol (ahi, che di duol' io scoppio)
Chi simula, chi finge e chi và doppio.
IL FINE