giuliano

lunedì 25 aprile 2022

LA FORZA DI UN FIORE

 









[il capitolo completo]


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in attesa del 25


& un Dialogo 


fra una bicicletta e un carrarmato 


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La pianta della saggezza  






 

 

La forza di un Fiore non risiede solo nella sua improvvisa e inaspettata bellezza, che colma e ispira lo Spirito dopo un lungo Inverno, ma nella saggia comprensione e intuizione dell’Universo creato e all’improvviso scorto in un campo fiorito nutrire l’Anima gravitata alla luce della sua bellezza.

 

Passeggia, se e quando puoi, in un campo fiorito, contemplane la bellezza appena sbocciata da un raggio di Sole nata, mutare il gelo in un nuovo Universo. L’incanto inonda la Terra dalla scomposta nebbia del Primo Mattino, è Dio che crea l’Universo della Vita da una fredda simmetria, ed ogni Fiore una galassia una spirale, una stella, una scomposta nebulosa gravita in un composto disegno attraverso la forza d’ogni singolo petalo e segreto profumo.

 

Osserva l’Universo, se puoi, con il telescopio del tuo grande occhio, che tutto vede e prevede ma nulla del nulla apparente comprende. Annulla il tuo istinto, tacita l’occhio, e inizia a scorgere ciò che mai ha compreso e visto.




Osserva l’Universo, se puoi, e scopri la micro bellezza dell’Infinito Suo disegno dipingere l’occhio smarrito e perso per questa Terra appena nata dalla folgore d’un diverso Dio.

 

Così pensavo e penso ancora, hora che sono sceso da quella croce, da quel cimitero su una collina a forma di Teschio.

 

La folgore s’ode da lontano, ma seppur forte e incomprensibile il suo rumore, la potenza che la genera, debole come il cratere dell’anima persa precipitata anche lei nell’abisso di questa terra. Lo alimenta, e il fuoco scomposto della creazione nulla ha creato o potuto dal comune Elemento generato. Anch’esso evoluto da ugual medesimo Universo senza alcun Dio né il Suo Infinito Principio.

 

Guarda la forza di questo Fiore ove fino a ieri dimorava simmetrico gelo dell’Infinito, dal calore di ugual fuoco d’un Pensiero è nato l’intero Universo fiorito.




Perditi nella sua grande scomposta e ricomposta infinita bellezza, per ogni Fiore regna e dimora l’Universo incompreso della Vita. Gravita e precipita quando odi l’eco di quella pazzia ingombrare il difficile cammino così come fece Dio, scoprirai un dèmone antico per essere narrato avverso all’immacolata bellezza che si cela nella forza di un Fiore pensiero dell’intero Creato attraversato all’Alba della stessa mattina.

 

Viaggia, se e quando puoi, in questo petalo di colori, ricorderai l’Universo donde proviene il Suo disegno ben inciso su ogni moneta coniata nel beneficio della Vita, una Spirale che cresce come il Suo incompreso Pensiero uguale e simmetrico dimorare in Cielo sino ad una conchiglia. Un fossile antico poggiato su un altare per pregarne la forma.




Si odono non lontano fragili rumori provenire dal fuoco d’un invisibile abisso, anche quel dèmone scava la sua moneta a forma di teschio, non dimora né forza né destino in quel grande disegno, solo fragile precoce materia senza pensiero e idea straripare scomposta lava come un fiume di fuoco, bocca di un dèmone senza terra e monte a ricordarne la memoria per ugual creazione passo d’una croce che alta troneggia in Cima al teschio.

 

Non si vede e distingue né Terra né Stagione in questo Abisso, solo il fuoco avverso d’un diverso dio.

 

Corri nel campo fiorito l’Universo attende la nostra umile preghiera, e se un dèmone antico come il Diavolo ne uccide e offende l’idea Infinita, stringi fra le mani il suo Universo in segno di forza. Se il sangue inonda ugual Terra come un fiume in piena, non darti pena la tua forza rinascerà nella giustizia di Dio, sarai il suo eterno disegno come un fiore accanto ad un letto di fiume, poi il suo frutto preferito, poi la bellezza mutilata fra la nebbia del suo Primo Pensiero. Infinita la Terra e il sacrificio ne inonderà la bellezza per ogni primavera persa di questo Universo.  




Quello cercavano mentre la Vita lenta moriva, doveva nascere la Terra ed ogni pianeta, Dio si perdeva in quella Prima bellezza mentre camminava su un campo fiorito in Cielo come in Terra. Qualcuno turbò quel Sogno divenuto improvviso delirio, poi solo preghiera. Un male a Lui avverso ed incompreso voleva la sua Poesia tutta nella materia per rubarne ogni rima e segreto frammenti nati nella bellezza... d’un Sogno incompreso…       

 

La forza di un Fiore di certo mai comprendono, mentre lento lo Spirito combatteva pietra su pietra un diverso principio. Al risveglio il Pensiero divenne uomo, camminava su un prato fiorito, non scorgeva né percepiva il profumo, cieco procedeva fra la nebbia, non vedeva i colori dell’Universo, cercava come una animale la sua preda…




Io che in quest’hora alla stessa crosta lo osservo sono un Fiore con più forza, l’animale che scorgo nominato uomo lento attraversa il mio Universo, medito il Sogno e l’Idea divenuta un dèmone avverso, fors’anche uno sbaglio con cui riscrivere la vita, e meglio interpretarla per ciò da cui nato questo abisso troppo profondo ove sprofondato l’intero desiderio di un Dio morto all’Alba tramonto d’una strana mattina in cui precipitata ugual via…       

[Prosegue con il capitolo 'quasi' completo]







   

sabato 23 aprile 2022

IL DIALOGO (fra passato e presente) (14)

 










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Circa l'avvenire del lavoratore (13)


& altre miniature... 


Prosegue il 25







La cosa importante, per risolvere - o tentare - l’odierno scenario bellico di centenaria conformazione genetica e naturale, al pari della scienza climatica applicata ad un albero reciso ove leggerne e dedurne la Natura e il suoi alterni climi, i quali hanno e quotidianamente influiscono (soprattutto in questi ultimi tempi da cui un insano apporto umano) nel contesto ‘evolutivo’ dell’intero ecosistema abitato; sia e debba essere la presunta superiore condizione del Dialogo, quale principio necessario e sufficiente per risolvere le diverse prospettive date non più dal corso millenario della Natura, bensì dell’uomo in essa dedotto o interpretato.

 

E da cui il presunto Dialogo che ci differenzia o dovrebbe dalla Natura da cui tratto!

 

Quindi, anche quei soggetti i quali vivendo in un determinato ‘Ecosistema sociale’ derivato dalla propria Storia così come la Natura e la sua ‘interpretazione’ maturano delle Idee circa l’altrettanto derivata natura dell’uomo; le quali anche se non condivise, così come in qualsiasi prospettiva di confronto, vanno ‘riflesse’ nell’ampio dibattito in cui maturate dagli opposti ‘poli geografici’ specchio della propria ed altrui Teoria economica dalla Natura derivata; e non più Ideologia, confermare la necessaria interpretazione storica, quindi, il loro corretto o scorretto inserimento sociale nonché geopolitico, per meglio valorizzarle ed inserirle nelle ‘mutazioni’ di cui si fanno carico circa il loro ‘immutato’ Pensiero.

 

Una ‘mutazione genetica’ è data da una necessità o difesa della Natura in Ragione della Specie, tutto il concetto ‘evolutivo’ gravita su questa sintesi di cui leggere ed interpretare la Natura compresa l’umana.  

 

Il ‘raro’ Dialogo anche con colui che al prevenuto occhio interpretativo possono ‘sanzionare’ o ‘limitare’ una o più derivate ‘specie’ di Idee ugualmente condivise in quegli stessi ambienti criticati e/o avversati, circa la loro ‘genetica’, le quali si riconoscono radicali e molto più estremiste (con talune mimetiche varianti) di codesto apostrofato quindi classificato 'filosofo', simile ed altrettanti scrittori e affermati colleghi in America come in Europa con più fortunato destino.

 

Quindi per onestà filosofica ci apprestiamo al Dialogo!

 

Il Dialogo, e non certo l’isolamento ideologico possono far innescare e maturare il confronto mancato per il miglior bene della comune specie ancora in vita ma in via di precoce estinzione; del quale, a mio modesto avviso, avrebbe prevenuto il vasto scenario bellico per quanto preteso reclamato e quindi motivato, là ove cessato il necessario dovuto antico platonico ‘Dialogo’, con la prospettiva di varie soluzioni, e il confronto necessario per ovviare ad un altro tipo di involuto Linguaggio composto da diversi accenti e congiunzioni affini alla morte.

 

Quindi il vero Ideologo o Filosofo, il quale non tradisce e viene meno al Principio della propria ‘scienza’, attento alla corretta applicazione della ‘prospettiva’ circa la Verità reclamata riproposta - e riflessa - nel conseguente ‘panorama’ dell’ambiente occupato, o da occupare con dovuta o indebita Ragione, implica innanzitutto il rispetto dello stesso Principio da cui nasce ogni motivo circa il Fine da cui ogni critica e con essa l’ispirato dovuto disquisito Dialogo che lo motiva, almeno che non si lavori ed operi per un consorzio bellico alla corte di un Impero tirannico.


Ma noi siamo contro il vizio della tirannia!

 

Dacché il pensiero ne risulterebbe corrotto nonché infestato dal morbo della circolarità data da una ‘casa chiusa’ e la sua clientela, ove accordi e prestazioni dei vari frequentatori la promuovono per un acclamato esclusivo bordello accreditato a corte così come esportato, frequentato da ricchi oligarchi accompagnati da altrettanti nobili governanti, e non più da proletari con l’amore per la filosofia, così come si ricorderà circa la ben amata nonché celebrata Caterina circa il proprio Impero divenuto un vero ‘casino’ a cielo aperto.

 

Le sue Idee ma non solo sue, più o meno giuste, più o meno confacenti con il Secolo vissuto, circa le (errate) prospettive capitalistiche e interpretative nel motivo di una determinata ‘dottrina’, sia questa sociale che politica nonché economica, anche nei tempi di un nuovo avvento industrializzato in forza ed in nome del costante Progresso e le sue Rivoluzioni, sono e rispecchiano il frutto di una determinata inalterata natura genetica, la quale, da quel poco che leggo, non certamente nuova nei suoi reclamati ed incarnati aspetti posti nella immobile ciclicità di ugual medesima Storia.

 

Da cui come ben ricorderà ogni Casino e Bordello!

 

L’amletico dilemma diviso e condiviso fra la mano sinistra e la destra, che scrive o dovrebbe ciò che pensa e mai rinnega, almeno che non regni il morbo della dislessia, lo riscontriamo ciclicamente nei futuri drammi della Guerra.

 

Se questo un merito o un difetto, il frutto più o meno maturo seminato da questa ‘equazione storica’ lo raccogliamo nell’insana deleteria sconnessa forma dell’odio peggiore di una o più guerre, dato che il sentimento non più si pone quale fondamento di una antica scienza o arte filosofica, bensì una precisa scienza genetica nonché evolutiva, andando a ‘mutare’ ogni tipo di aspettativa sociale dell’intero ‘ecosistema’ occupato, circa la dismessa socialità e le varie interpretazioni in cui la stessa costruita, e quindi, ad innestare quel ‘mutamento genetico’ di cui riscontriamo l’‘adattabilità’ non più dedotta dalla necessaria corrisposta realtà della Natura occupata ed in cui dedotta secondo il termine coniato e posto nel vasto dibattito ‘evolutivo’ di cui l’uomo il (presunto…) frutto maturo; ma semmai  artificialmente acquisita attraverso gli stessi strumenti cui qual ‘tradizionalista’ ne interpreta combatte e contesta i termini; per poi essere applicati indistintamente tanto dalla mano sinistra quanto la destra che non più scrive e medita, ma azzanna ulula e incarna l’antica ferocia mai addomesticata del lupo e dell’orso divenuti zampa e bocca d’un antica natura al servizio della guerra, per l’irreversibile mutazione o collettiva estinzione di massa.     

 

La Natura ci guarda e giudica!

 

Ed anche se vorremmo essere ‘dèi’ in questa martoriata Terra, l’unico giudizio posto tanto dalla Filosofia quanto dalla successiva Scienza (‘democrito’) genetica sarà un inappellabile processo dato dalla Natura posta e riflessa in ugual condizione evolutiva, non del ‘più forte’ (come quotidianamente assistiamo), ma semmai del più Saggio, come ugual Scienza Filosofica si predispone o dovrebbe, nata dal vasto dibattito evolutivo circa la Natura occupata compreso ovviamente il ‘giuridico’, il quale dispensa anche leggi e giudizi oltre che sul Diritto anche sulla Natura (compresa l’umana) indistintamente tutelata (anche ed aggiungo, dalla sua stessa mano sia questa destra o sinistra: l’asimmetria chirale con cui riconoscere la Vita e non certo la morte in vita la deduciamo anche da codesta piccola condizione alle ferree leggi di Natura), quindi ‘migliorata’ con gli stessi argomenti elevati e adottati dal Filosofo, andando a rimuovere circa la corretta interpretazione ‘filosofico-evolutiva’ per il bene dell’Intero pianeta, tutti quei fattori insani che ne minacciano ogni specie in Vita.

 

Il vasto concetto interpretativo circa la sacralità della Vita taluni lo leggono e deducano proprio da quell’Oriente sottomesso alle stesse ugual false ragioni di un insano Progresso con cui il Filosofo associato,  dacché ne deriva non solo confusione ma una insana prospettiva storico interpretativa dalla Dottrina da cui nata una certa Filosofia e posta alla vasta corte d’una bassa macelleria.     

 

"Il pensiero duginiano appare incoerente o addirittura confuso, se non si tiene conto delle correnti filosofiche che lo attraversano e ispirano, e le cui contraddizioni interagiscono in maniera dialettica. Si può dire che le quattro coordinate qui prese in esame (tradizionalismo, fascismo, Rivoluzione Conservatrice, eurasiatismo) siano state presenti fin dal principio dell’elaborazione duginiana e permangano tuttora come principali coordinate del suo pensiero. Tuttavia, nel corso degli anni c’è stato un approfondimento sia analitico che dialettico di queste linee filosofico-politiche, culminato nell’elaborazione della Quarta Teoria Politica, tale che, anche se non avesse determinato un autentico distacco, quantomeno ha posto le basi epistemologiche per una rottura con la Terza Posizione, da cui egli proviene. D’altra parte, non è possibile discutere gli sviluppi più recenti, senza esaminare prima le basi di partenza".

 

(Giuliano)   










giovedì 21 aprile 2022

L'AVVENIRE DEL LAVORATORE (12)

 









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Fra Stalin & Dugin (11) 


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l'Avvenire del lavoratore (13)






 

Benito Mussolini era nato nell’83 a Dovia, una frazione di Predappio in quel di Forlì. Suo padre Alessandro veniva da una famiglia di piccoli coltivatori diretti che, andati in rovina, avevano dovuto vendere il podere, e gestiva un’officina di fabbro, ma ci si dedicava poco, tutto preso com'era dalla politica. Militava nel partito socialista, che allora si chiamava ‘internazionalista’ e che ancora non si era liberato dalla sua matrice anarchica. Di questa matrice portava egli stesso ben visibili le stigmate nel suo acceso massimalismo, che gli valse prima l’ammonizione, e poi la prigione per sei mesi.

 

Molti storici dicono che Alessandro (il padre) contò molto per la formazione di Benito. Ma questo ci sembra che valga solo per il carattere, i cui segni ereditari sono evidenti. Lo stesso nome gli fu dato in omaggio a Benito Juarez, il rivoluzionario messicano che pochi anni prima aveva fatto fucilare l’imperatore Massimiliano, così come suo fratello ebbe quello di Arnaldo in omaggio ad Arnaldo da Brescia. Ma sul piano ideologico non si vede che cosa Alessandro potesse insegnare al figlio perché nella sua testa c’era soltanto una gran confusione, come risulta dai pochi scritti in cui si cimentò, e nei quali si leggono pensieri di questo genere:

 

‘Il socialismo è la scienza e l’excelsior che illumina il mondo. E una sublime armonia di concetti, di pensiero e d’azione che precede al gran carro dell’umano progresso nella sua marcia trionfale verso alla gran méta del bello, del giusto e del vero’.




Come profitto scolastico il giovane Benito se la cavava abbastanza bene, ma senza molto applicarsi. Fin da allora rivelava una straordinaria facilità a impadronirsi subito d’un argomento riducendolo all’essenziale: il che gli evitava lo sforzo di approfondirlo. Ma sui libri di testo ci stava poco. Preferiva i romanzi, soprattutto quelli ‘sociali’ di scuola francese, da Hugo a Zola; e per leggerli in pace si ritirava nella t o r re campanaria. Ma seguiva anche i giornali, quando riusciva a procurarsene.

 

Sui sedici anni prese contatto con la locale sezione socialista, ma non risulta che vi abbia militato attivamente. Infatti non ostentò mai il distintivo d’obbligo dei socialisti romagnoli: la cravatta rossa, rimase sempre fedele a quella nera, ch’era il distintivo, altrettanto d’obbligo, dei repubblicani. Anche come letture, alla politica non dedicava molto tempo, forse svogliato dai cattivi compendi di marxismo che suo padre gli aveva propinato da bambino, e oltre i quali sarebbe andato poco anche da grande. Il suo socialismo era quello dei ‘miserabili’, nonché degli opuscoli e degli articoli di Costa, di Cafiero, di Cipriani e degli altri ‘internazionalisti’ che allora andavano per la maggiore. Forse l’unico classico del socialismo che gli entrò nel sangue come il più congeniale fu Babeuf, di cui lesse quasi tutto e su cui compose anche delle cattive poesie di stampo carducciano. Come non ebbe amici, così non ebbe amori.

 

La sua scuola di galanteria fu il bordello, di cui conservò sempre lo stile grossolano e spicciativo. Orgoglioso della propria virilità, la trovava incompatibile con l’abbandono e la tenerezza. Delle molte donne della sua vita, non si concesse a nessuna, tranne forse l’ultima, Claretta. Le prendeva come il gallo prende la gallina.




Il diploma di maestro con cui tornò a casa nel ’901 non gli servì a trovare un posto. Cercò di rendersi utile dando una mano al padre nell’officina, ma con poco costrutto perché entrambi detestavano il lavoro; e intanto prendeva lezioni di violino da un maestro locale, un certo Montanelli, che bene o male gl’insegnò a strimpellarlo, e sebbene seguitasse a proclamarsi socialista, attività politica non ne svolse.

 

Le sue ambizioni sembravano più che altro letterarie perché la maggior parte del tempo lo passava a buttar giù abbozzi di romanzi che poi lasciava regolarmente a mezzo. Finalmente il comune socialista di Gualtieri gli offrì una supplenza, che gli servì solo a capire di essere poco vocato alla pedagogia. Alla fine dell’anno scolastico egli scrisse all’unico compagno di scuola con cui era rimasto in corrispondenza, Bedeschi, che lasciava il posto perché non lo pagavano abbastanza. Ma mentiva. Non gli rinnovavano l’incarico perché, appena arrivato, aveva sedotto una giovane sposa che, cacciata di casa dal marito, era andata a vivere con lui: cosa che aveva scandalizzato anche i socialisti, propugnatori del libero amore, purché praticato lontano dalle loro mogli.

 

Fu allora che decise di emigrare in Svizzera.




Vi giunse nell’estate del ’902, e ci rimase quasi due anni e mezzo, salvo un breve rimpatrio per una malattia di sua madre. Fu, per la sua formazione, un periodo importante, ma non per l’esperienza proletaria vissuta e sofferta deliberatamente, come dicono alcuni suoi apologeti. Mussolini fece anche il manovale, il magazziniere e altri umili mestieri perché le circostanze qualche volta ve lo costrinsero. Ma in realtà sin dapprincipio egli cercò di mettere a frutto la propria superiorità d’intelletto e di cultura sugli altri emigrati - povera gente analfabeta o semianalfabeta - dandosi ad attività organizzative e propagandistiche.

 

Che la politica seguitasse a interessarlo relativamente, lo dimostra il fatto ch’egli non cercò contatti con l’ambiente internazionale dei rivoluzionari europei, che allora avevano in Svizzera una delle loro più fiorenti centrali. Fra gli altri c’era anche Lenin, con cui pare che una volta si sia incontrato ma senza sapere chi fosse perché portava un altro nome.

 

Mussolini non era attratto dai loro problemi dottrinari voleva soltanto risolvere quello suo personale con qualche attività che lo esentasse dal lavoro manuale e perciò prese contatto col sindacato italiano dei muratori da cui ebbe un sussidio, e col giornale L’avvenire del lavoratore, di cui ottenne la collaborazione. Furono questi i primi effettivi rapporti ch’egli strinse col partito socialista, e lo fece per sbarcare il lunario. I proventi che ne ricavava erano scarsi. Ma ebbe modo di rivelarsi anche a se stesso, come un efficace comiziante e un polemista incisivo. Sebbene poveri di contenuto e ancora pieni di smagliature, sul livello medio della pubblicistica socialista di allora, i suoi articoli facevano spicco per concretezza e polposità.




In aprile fu di nuovo espulso dalla Svizzera perché, essendogli scaduto il passaporto e non potendo rinnovarlo per la sua condizione di disertore, ne aveva falsificato la data. Stavolta dovevano consegnarlo alla polizia italiana, che lo avrebbe avviato alla prigione. Ma appunto per questo i ‘compagni’, sia italiani che svizzeri, organizzarono tali manifestazioni di protesta anche sulla stampa e in Parlamento che la misura fu revocata, e il reprobo, dopo un breve soggiorno in Ticino e in Savoia, poté tornarsene a Losanna.

 

Fu quella - dirà più tardi nel breve saggio autobiografico scritto nel carcere di Forlì – ‘un’estate di forte occupazione intellettuale’. Mantenendosi alla meglio col solito lavoro propagandistico e integrandone gli scarsi proventi con saltuari impieghi, s’iscrisse all’Università per seguire i corsi di Vilfredo Pareto, il grande economista e sociologo italiano che sottoponeva a una critica demolitrice la democrazia e le ideologie che le fanno da supporto. Non è vero ch’egli ebbe rapporti diretti col Maestro, come dicono alcuni suoi biografi. Lo smentisce lo stesso Pareto in una lettera a Placci:

 

‘Mussolini venne ai miei corsi, ma io non lo conobbi personalmente’.




È vero però che il giovanotto rimase fortemente impressionato dalle sue lezioni: non tanto forse per la profondità del pensiero ch’egli non era in grado di penetrare, quanto perché esse fornivano un puntello dottrinario alle sue intuizioni. Il disprezzo per le teorie umanitarie, la giustificazione della violenza come forza motrice della Storia e il concetto che questa avesse a protagoniste le minoranze e non le masse, egli già li aveva nel sangue, ereditati dal padre. Ma Pareto glieli mise in bella copia, debitamente autenticati sul piano culturale.

 

Ora non frequentava più soltanto i poveri manovali, ma aveva allacciato rapporti con persone destinate a contare sul seguito della sua avventura politica una di queste era Giacinto Menotti Serrati, un socialista di Oneglia di poca scuola e di scarse e abborracciate letture, ma reduce da avventure alla Jack London. A vent’anni era già delegato al primo congresso del partito, quello di Genova che aveva proclamato la scissione dagli anarchici, dei quali egli fu poi sempre il bersaglio. Lo consideravano un traditore e non smisero mai di denunziarlo come agente provocatore e delatore al servizio della polizia: un’infame calunnia.




Tutta la sua vita era stata un andirivieni fra tribunale e prigione, intramezzato da espatrii e rimpatrii clandestini. Aveva fatto il mozzo, lo scaricatore di porto a Marsiglia, il terrazziere nel Madagascar, il giornalista a New York, e finalmente era approdato in Svizzera in qualità di propagandista e organizzatore degli emigrati italiani. La sua amicizia con Mussolini - destinata a sfociare dieci anni più tardi nella più accanita e irriducibile inimicizia - nacque soprattutto da una certa affinità di temperamento. Anche Serrati era un autodidatta e un massimalista, senza originalità di pensiero e istintivamente avverso ai Turati, ai Treves e agli altri ‘intellettuali’ del partito. Ma, a differenza di Mussolini, sapeva anche ridere, almeno fin quando non s’impermaliva perché era suscettibilissimo e incapace di controllare i propri furori. Un personaggio insomma di mediocre levatura, ma rispettabile sul piano umano: coraggioso, generoso, onesto, sincero. Lo dimostrò con Mussolini aiutandolo fraternamente a scalare nel partito posizioni sempre più alte, senza mai ingelosirsene, cosa rara fra i politici.

 

Romperà con lui unicamente per ragioni ideologiche, e da allora gli sarà nemico nella stessa misura in cui gli era stato amico.


(Prosegue....)








FRA STALIN & DUGIN (10)




















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della 'Grande Svolta' (9) 


Prosegue ancora 


fra Dugin & Stalin (11)







L’annessione da parte di Vladimir Putin della Crimea e le minacce rivolte all’Ucraina dimostrano che, nonostante il successivo crollo dell’impero sovietico nell’Europa centrale nel 1989, il dominio della regione da parte di un autocrate dell’ultima ora possa entrare nuovamente in gioco come parte della geopolitica russa che risale a Pietro e Caterina (non giustificandone la sua completa illegalità).

 

L’obiettivo comune a tutti questi movimenti rivoluzionari è l’individuazione di un nemico di classe o di razza che ostacola la prossima realizzazione del nirvana, un nemico che riassume in sé tutte le qualità peggiori del mondo moderno. Egli diventa l’incarnazione di tutti i mali dell’uomo, la cui distruzione purificherà il pianeta. Per i giacobini, era rappresentato dalla borghesia e dagli aristocratici; per Stalin, erano i kulaki, i cosiddetti contadini ricchi, mentre per Hitler erano gli ebrei.



La figura di Stalin fu fraintesa per lungo tempo in Occidente a causa del ritratto strumentale fattone da Trockij: un’oscura ‘macchia grigia’ che aveva preso il potere attraverso il controllo dell’apparato del partito e aveva cacciato lo stesso Trockij, erede di Lenin e sensibile e sincero socialdemocratico, tradendo la rivoluzione con un governo da moderno Gengis Khan.

 

Tutto questo era falso.

 

A differenza dei molti predicatore da caffè con il pince-nez, libellisti bohémien e studenti perdigiorno che attorniavano Lenin, Stalin proveniva realmente da un ambiente contadino. In virtù delle sue origini georgiane – anch’egli, come Alessandro Magno, Napoleone e più tardi Hitler, era un outsider, nato in una regione di retroguardia e guardato un po’ dall’alto in basso –, nutriva forse del risentimento nei confronti dei veri russi. Dalla sua educazione, ricevuta da un padre manesco e ubriacone, gli derivò apparentemente un gusto duraturo per la brutalità e la vendetta, da lui proiettate sul mondo dei privilegi di classe.


 

La sua conoscenza del marxismo ricordava più un catechismo, come lo erano i suoi discorsi, pronunciati con voce secca e sottile, in cui si rifletteva il periodo trascorso in seminario, che aveva forse offerto uno sbocco anticipato al suo fanatismo. Egli tuttavia credeva realmente nel comunismo come era stato creato da Lenin e ne portò avanti alla lettera le genuine politiche – rapida industrializzazione e collettivizzazione – al costo di decine di milioni di vite.

 

In realtà, Lenin lo aveva favorito molto presto, ammirato dalla sua spietatezza e dal gusto per la violenza fisica. Era uno dei dirigenti del partito che raccoglievano fondi per il bolscevismo rapinando banche. Lenin gli conferì l’incarico di Segretario generale del Partito comunista non perché fosse un ottimo burocrate, ma perché si fidava di lui. Lenin non aveva tempo per gli intellettuali – ammesso che questo sia il termine corretto per un golpista agitatore e assassino come Trockij –, a parte se stesso.




Anche se la storiografia tradizionale e apologetica raffigura la straordinaria quantità di lavoro da schiavi completato nel periodo del ‘comunismo di guerra’ del 1918-21 (orchestrato con entusiasmo da Trockij) come una risposta disperata e temporanea alla minaccia della sconfitta del governo sovietico da parte dei Bianchi – una situazione che distoglieva Lenin dal compito costruttivo di realizzare un’economia moderna –, il comunismo di guerra, in verità, fu ciò che Lenin aveva voluto per tutto il tempo. La cosiddetta Nuova Politica Economica (NEP) degli anni venti, che rallentò temporaneamente la collettivizzazione e permise un grado limitato di proprietà della terra e di piccole imprese, fu una concessione per scongiurare la carestia totale, soprattutto per i membri del partito – una politica destinata a essere accantonata prima possibile affinché il bolscevismo potesse tornare alla missione della completa collettivizzazione. In altre parole, il ‘comunismo di guerra’ era il comunismo.




Il trionfo di Stalin su Trockij dopo la morte di Lenin e la sua ascesa al potere supremo furono una manovra brillante, che lasciò nella polvere il vano e prolisso Trockij, convinto che sbraitare per tre ore mettesse tutti d’accordo con lui. Stalin protesse prima Bucharin e la NEP, in modo da sbaragliare Trockij come esponente dell’opposizione di sinistra. Una volta spedito in esilio il suo maggiore avversario, virò verso l’estrema sinistra e si sbarazzò di Bucharin e dei riformisti come portavoce dell’opposizione di destra.

 

Seguirono gli orrori della collettivizzazione, esattamente come Lenin aveva voluto, un compito che Trockij, considerando il suo ruolo precedente nell’organizzare il lavoro coatto e l’eliminazione in massa dei nemici di classe, avrebbe effettuato senza problemi se gliene fosse stata data la possibilità. Tornando alla visione utopica della rapida collettivizzazione voluta da Lenin, Stalin aveva percepito esattamente l’orientamento psicologico del partito, in particolare dei giovani, che volevano l’emozione e l’idealismo di ciò che Lenin – l’uomo del miracolo – aveva immaginato e ambivano a diventare loro stessi uomini del miracolo attraverso l’esercizio illimitato della forza di volontà contro i nemici della rivoluzione.




L’NKVD, divenuto in seguito KGB e composto dalle persone che Stalin preferiva (a differenza degli intellettuali da caffè della vecchia guardia bolscevica che invece disprezzava), diventò uno Stato nello Stato, da cui venne guidata la missione genocida, con una presa di potere in seguito imitata dalle SS naziste. Il terrore implacabile era giustificato dalla dottrina economica sovietica dell’‘accumulazione socialista primitiva’. In altre parole, si doveva spremere dal popolo ogni grammo di ricchezza per finanziare il più rapidamente possibile la costruzione di fabbriche e un’enorme forza militare.

 

Dopotutto, come ragionavano i bolscevichi, il capitalismo non aveva forse fatto lo stesso nel corso dei secoli al fine di creare la moderna produttività industriale?

 

Marx l’aveva chiamata estrazione di plusvalore da ciò che i lavoratori producevano, pagando loro una parte irrisoria del suo effettivo valore e trattenendo il resto per proprio profitto e costruire nuove fabbriche. Si trattava semplicemente di accelerare il processo, ma questa volta la forza economica sarebbe stata al servizio di un ideale disinteressato, non del lusso e dell’avidità borghese. Si doveva edificare in men che non si dica un moderno Stato industriale, calando le direttive dall’alto, nel bel mezzo di una cultura completamente agraria. A nessuno però doveva essere permesso di trarne profitto: l’intera forza lavoro sarebbe stata organizzata dallo Stato.




Era stata questa la missione di Lenin, e Stalin era determinato a portarla a termine.

 

Come diagnosticato in modo indimenticabile da Solženicyn, il sistema dei Gulag non era solo un mezzo per procurare manodopera schiavizzata, ma anche il prototipo del futuro mondo ideale del nuovo homo sovieticus, spogliato di ogni attaccamento alla terra, alla fede, alla famiglia e alla proprietà privata, fedele soltanto al monolito repressivo dello Stato stalinista. In fondo, per il bolscevismo, questo processo di totale subordinazione dell’individuo al collettivo era ancora più importante che costruire un’economia industriale. Come Stalin stesso disse, egli era meno interessato a produrre più fabbriche che a essere un ‘ingegnere di anime’.

 

La carestia del Terrore del 1932-33 in Ucraina, deliberatamente innescata da Stalin per estrarre ogni grammo di produzione agricola per l’esportazione, al fine di finanziare nuove fabbriche mentre gli ucraini morivano di fame, fu, come ha scritto Robert Conquest, una versione gigante del campo di concentramento di Bergen-Belsen, in cui i genitori erano spinti a cannibalizzare i propri figli o a venderne parti del corpo come cibo.




Il Politbjuro aveva deciso che ‘i tempi sono maturi per porre specificamente la questione dell’eliminazione dei kulaki’ – lo stesso tipo di linguaggio burocratico successivamente usato da Heydrich e Eichmann per discutere la ‘questione’ dello sterminio degli ebrei.

 

Non ci doveva essere alcuna esitazione, nessuno scrupolo morale borghese nel distruggere la classe dei cosiddetti contadini ricchi. Come affermò Zinov’ev, ‘dobbiamo portare con noi novanta dei cento milioni della popolazione sovietica. Quanto agli altri, non abbiamo nulla da dire. Devono essere annientati’.

 

In realtà, secondo Roy Medvedev, il numero di morti per esecuzioni, fame, collettivizzazione e lavoro schiavizzato era più vicino a venti milioni, senza contare gli altri venti milioni di morti della seconda guerra mondiale che, come vedremo tra breve, furono da attribuirsi a Stalin (lo storico Norman Davies calcola il numero di morti in cinquanta milioni, senza contare le vittime di guerra).




Come asseriva Stalin stesso, ‘è ridicolo e sciocco dilungarsi oggi sull’espropriazione dei kulaki. Non ci si lamenta della perdita di capelli di un uomo che è stato decapitato’.

 

I giovani quadri del partito partivano per le campagne a supervisionare il genocidio e lo facevano con entusiasmo e rigida dedizione. Come ammoniva un organizzatore di partito, ‘si devono assumere i propri obblighi con il senso della più stretta responsabilità verso il partito, senza piagnucolare, senza alcun liberalismo corrotto’. Una giovane attivista ricordava: ‘Per poterli massacrare, era necessario proclamare che i kulaki non erano esseri umani. Proprio come i tedeschi dichiaravano che gli ebrei non erano esseri umani. Così, Lenin e Stalin proclamarono che i kulaki non erano esseri umani’. Un altro funzionario osservò: ‘Sappiamo che stanno morendo a milioni. È una sventura, ma il glorioso futuro dell’Unione Sovietica la giustificherà’. In questi racconti, basterebbe sostituire ‘kulak’ con ‘ebreo’ e potremmo citare i nazisti, le SS e Himmler.




A differenza di Lenin, Stalin riteneva che in Russia il comunismo potesse realizzarsi pienamente. Dopo, però, i suoi immensi benefici dovevano essere diffusi nel mondo intero. In quanto rivoluzionario millenarista, era necessariamente un imperialista. Dopo il patto di non aggressione con Hitler nel 1939 – l’unico uomo, come osservò causticamente Solženicyn, di cui Stalin si fidava veramente –, nessun altro, a parte il Führer stesso, fu più responsabile di Stalin della seconda guerra mondiale e della morte, distruzione e sofferenza che essa scatenò.

 

Il fatto è che Hitler, senza quel patto, non avrebbe mai potuto eliminare la Francia e (come sperava) la Gran Bretagna, per poi rivolgersi all’Europa centrale e dare inizio alla Shoah.

 

Sì, il popolo russo soffrì incredibilmente – una realtà ricordata immancabilmente da allora dai leader russi e sovietici, incluso Putin, come se quella passata sofferenza potesse giustificare in qualche modo vago la sua odierna conquista di altri popoli. Quell’incredibile sofferenza, inoltre, fu il risultato di azioni di Stalin, tra cui la sua persistenza nell’ignorare i segni dell’imminente tradimento nazista e dell’Operazione Barbarossa.


(Prosegue....)