Precedenti capitoli:
della 'Grande Svolta' (9)
Prosegue ancora
fra Dugin & Stalin (11)
L’annessione da parte di Vladimir Putin della
Crimea e le minacce rivolte all’Ucraina dimostrano che, nonostante il
successivo crollo dell’impero sovietico nell’Europa centrale nel 1989, il
dominio della regione da parte di un autocrate dell’ultima ora possa entrare
nuovamente in gioco come parte della geopolitica russa che risale a Pietro e
Caterina (non giustificandone la sua completa illegalità).
L’obiettivo comune a tutti questi movimenti
rivoluzionari è l’individuazione di un nemico di classe o di razza che ostacola
la prossima realizzazione del nirvana, un nemico che riassume in sé tutte le
qualità peggiori del mondo moderno. Egli diventa l’incarnazione di tutti i mali
dell’uomo, la cui distruzione purificherà il pianeta. Per i giacobini, era
rappresentato dalla borghesia e dagli aristocratici; per Stalin, erano i
kulaki, i cosiddetti contadini ricchi, mentre per Hitler erano gli ebrei.
La figura
di Stalin fu fraintesa per lungo tempo in Occidente a causa del ritratto
strumentale fattone da Trockij: un’oscura ‘macchia grigia’ che aveva preso il
potere attraverso il controllo dell’apparato del partito e aveva cacciato lo
stesso Trockij, erede di Lenin e sensibile e sincero socialdemocratico,
tradendo la rivoluzione con un governo da moderno Gengis Khan.
Tutto
questo era falso.
A
differenza dei molti predicatore da caffè con il pince-nez, libellisti bohémien
e studenti perdigiorno che attorniavano Lenin, Stalin proveniva realmente da un
ambiente contadino. In virtù delle sue origini georgiane – anch’egli, come
Alessandro Magno, Napoleone e più tardi Hitler, era un outsider, nato in una
regione di retroguardia e guardato un po’ dall’alto in basso –, nutriva forse del
risentimento nei confronti dei veri russi. Dalla sua educazione, ricevuta da un
padre manesco e ubriacone, gli derivò apparentemente un gusto duraturo per la
brutalità e la vendetta, da lui proiettate sul mondo dei privilegi di classe.
La sua
conoscenza del marxismo ricordava più un catechismo, come lo erano i suoi
discorsi, pronunciati con voce secca e sottile, in cui si rifletteva il periodo
trascorso in seminario, che aveva forse offerto uno sbocco anticipato al suo
fanatismo. Egli tuttavia credeva realmente nel comunismo come era stato creato
da Lenin e ne portò avanti alla lettera le genuine politiche – rapida
industrializzazione e collettivizzazione – al costo di decine di milioni di
vite.
In realtà,
Lenin lo aveva favorito molto presto, ammirato dalla sua spietatezza e dal
gusto per la violenza fisica. Era uno dei dirigenti del partito che
raccoglievano fondi per il bolscevismo rapinando banche. Lenin gli conferì
l’incarico di Segretario generale del Partito comunista non perché fosse un
ottimo burocrate, ma perché si fidava di lui. Lenin non aveva tempo per gli
intellettuali – ammesso che questo sia il termine corretto per un golpista
agitatore e assassino come Trockij –, a parte se stesso.
Anche se la
storiografia tradizionale e apologetica raffigura la straordinaria quantità di
lavoro da schiavi completato nel periodo del ‘comunismo di guerra’ del 1918-21
(orchestrato con entusiasmo da Trockij) come una risposta disperata e
temporanea alla minaccia della sconfitta del governo sovietico da parte dei
Bianchi – una situazione che distoglieva Lenin dal compito costruttivo di
realizzare un’economia moderna –, il comunismo di guerra, in verità, fu ciò che
Lenin aveva voluto per tutto il tempo. La cosiddetta Nuova Politica Economica
(NEP) degli anni venti, che rallentò temporaneamente la collettivizzazione e
permise un grado limitato di proprietà della terra e di piccole imprese, fu una
concessione per scongiurare la carestia totale, soprattutto per i membri del
partito – una politica destinata a essere accantonata prima possibile affinché
il bolscevismo potesse tornare alla missione della completa collettivizzazione.
In altre parole, il ‘comunismo di guerra’ era il comunismo.
Il trionfo
di Stalin su Trockij dopo la morte di Lenin e la sua ascesa al potere supremo
furono una manovra brillante, che lasciò nella polvere il vano e prolisso
Trockij, convinto che sbraitare per tre ore mettesse tutti d’accordo con lui.
Stalin protesse prima Bucharin e la NEP, in modo da sbaragliare Trockij come
esponente dell’opposizione di sinistra. Una volta spedito in esilio il suo
maggiore avversario, virò verso l’estrema sinistra e si sbarazzò di Bucharin e
dei riformisti come portavoce dell’opposizione di destra.
Seguirono
gli orrori della collettivizzazione, esattamente come Lenin aveva voluto, un
compito che Trockij, considerando il suo ruolo precedente nell’organizzare il
lavoro coatto e l’eliminazione in massa dei nemici di classe, avrebbe
effettuato senza problemi se gliene fosse stata data la possibilità. Tornando
alla visione utopica della rapida collettivizzazione voluta da Lenin, Stalin
aveva percepito esattamente l’orientamento psicologico del partito, in
particolare dei giovani, che volevano l’emozione e l’idealismo di ciò che Lenin
– l’uomo del miracolo – aveva immaginato e ambivano a diventare loro stessi
uomini del miracolo attraverso l’esercizio illimitato della forza di volontà
contro i nemici della rivoluzione.
L’NKVD,
divenuto in seguito KGB e composto dalle persone che Stalin preferiva (a
differenza degli intellettuali da caffè della vecchia guardia bolscevica che
invece disprezzava), diventò uno Stato nello Stato, da cui venne guidata la
missione genocida, con una presa di potere in seguito imitata dalle SS naziste.
Il terrore implacabile era giustificato dalla dottrina economica sovietica
dell’‘accumulazione socialista primitiva’. In altre parole, si doveva spremere
dal popolo ogni grammo di ricchezza per finanziare il più rapidamente possibile
la costruzione di fabbriche e un’enorme forza militare.
Dopotutto,
come ragionavano i bolscevichi, il capitalismo non aveva forse fatto lo stesso
nel corso dei secoli al fine di creare la moderna produttività industriale?
Marx
l’aveva chiamata estrazione di plusvalore da ciò che i lavoratori producevano,
pagando loro una parte irrisoria del suo effettivo valore e trattenendo il
resto per proprio profitto e costruire nuove fabbriche. Si trattava
semplicemente di accelerare il processo, ma questa volta la forza economica
sarebbe stata al servizio di un ideale disinteressato, non del lusso e
dell’avidità borghese. Si doveva edificare in men che non si dica un moderno
Stato industriale, calando le direttive dall’alto, nel bel mezzo di una cultura
completamente agraria. A nessuno però doveva essere permesso di trarne
profitto: l’intera forza lavoro sarebbe stata organizzata dallo Stato.
Era stata
questa la missione di Lenin, e Stalin era determinato a portarla a termine.
Come
diagnosticato in modo indimenticabile da Solženicyn, il sistema dei Gulag non
era solo un mezzo per procurare manodopera schiavizzata, ma anche il prototipo
del futuro mondo ideale del nuovo homo sovieticus, spogliato di ogni
attaccamento alla terra, alla fede, alla famiglia e alla proprietà privata,
fedele soltanto al monolito repressivo dello Stato stalinista. In fondo, per il
bolscevismo, questo processo di totale subordinazione dell’individuo al
collettivo era ancora più importante che costruire un’economia industriale.
Come Stalin stesso disse, egli era meno interessato a produrre più fabbriche
che a essere un ‘ingegnere di anime’.
La
carestia del Terrore del 1932-33 in Ucraina, deliberatamente innescata da
Stalin per estrarre ogni grammo di produzione agricola per l’esportazione, al
fine di finanziare nuove fabbriche mentre gli ucraini morivano di fame, fu,
come ha scritto Robert Conquest, una versione gigante del campo di
concentramento di Bergen-Belsen, in cui i genitori erano spinti a
cannibalizzare i propri figli o a venderne parti del corpo come cibo.
Il
Politbjuro aveva deciso che ‘i tempi sono maturi per porre specificamente la
questione dell’eliminazione dei kulaki’ – lo stesso tipo di linguaggio
burocratico successivamente usato da Heydrich e Eichmann per discutere la ‘questione’
dello sterminio degli ebrei.
Non ci
doveva essere alcuna esitazione, nessuno scrupolo morale borghese nel
distruggere la classe dei cosiddetti contadini ricchi. Come affermò Zinov’ev, ‘dobbiamo
portare con noi novanta dei cento milioni della popolazione sovietica. Quanto
agli altri, non abbiamo nulla da dire. Devono essere annientati’.
In realtà,
secondo Roy Medvedev, il numero di morti per esecuzioni, fame,
collettivizzazione e lavoro schiavizzato era più vicino a venti milioni, senza
contare gli altri venti milioni di morti della seconda guerra mondiale che,
come vedremo tra breve, furono da attribuirsi a Stalin (lo storico Norman
Davies calcola il numero di morti in cinquanta milioni, senza contare le
vittime di guerra).
Come
asseriva Stalin stesso, ‘è ridicolo e
sciocco dilungarsi oggi sull’espropriazione dei kulaki. Non ci si lamenta della
perdita di capelli di un uomo che è stato decapitato’.
I giovani
quadri del partito partivano per le campagne a supervisionare il genocidio e lo
facevano con entusiasmo e rigida dedizione. Come ammoniva un organizzatore di
partito, ‘si devono assumere i propri obblighi con il senso della più stretta
responsabilità verso il partito, senza piagnucolare, senza alcun liberalismo
corrotto’. Una giovane attivista ricordava: ‘Per poterli massacrare, era
necessario proclamare che i kulaki non erano esseri umani. Proprio come i
tedeschi dichiaravano che gli ebrei non erano esseri umani. Così, Lenin e
Stalin proclamarono che i kulaki non erano esseri umani’. Un altro funzionario
osservò: ‘Sappiamo che stanno morendo a milioni. È una sventura, ma il glorioso
futuro dell’Unione Sovietica la giustificherà’. In questi racconti, basterebbe
sostituire ‘kulak’ con ‘ebreo’ e potremmo citare i nazisti, le SS e Himmler.
A
differenza di Lenin, Stalin riteneva che in Russia il comunismo potesse
realizzarsi pienamente. Dopo, però, i suoi immensi benefici dovevano essere
diffusi nel mondo intero. In quanto rivoluzionario millenarista, era
necessariamente un imperialista. Dopo il patto di non aggressione con Hitler nel 1939 – l’unico uomo,
come osservò causticamente Solženicyn,
di cui Stalin si fidava veramente –, nessun altro, a parte il Führer stesso, fu più responsabile di
Stalin della seconda guerra mondiale e della morte, distruzione e sofferenza
che essa scatenò.
Il fatto è
che Hitler, senza quel patto, non avrebbe
mai potuto eliminare la Francia e (come sperava) la Gran Bretagna, per poi
rivolgersi all’Europa centrale e dare inizio alla Shoah.
Sì,
il popolo russo soffrì incredibilmente – una realtà ricordata immancabilmente
da allora dai leader russi e sovietici, incluso
Putin, come se quella passata sofferenza potesse giustificare in qualche
modo vago la sua odierna conquista di altri popoli. Quell’incredibile
sofferenza, inoltre, fu il risultato di azioni di Stalin, tra cui la sua
persistenza nell’ignorare i segni dell’imminente tradimento nazista e
dell’Operazione Barbarossa.
(Prosegue....)