giuliano

giovedì 21 aprile 2022

FRA STALIN & DUGIN (10)




















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fra Dugin & Stalin (11)







L’annessione da parte di Vladimir Putin della Crimea e le minacce rivolte all’Ucraina dimostrano che, nonostante il successivo crollo dell’impero sovietico nell’Europa centrale nel 1989, il dominio della regione da parte di un autocrate dell’ultima ora possa entrare nuovamente in gioco come parte della geopolitica russa che risale a Pietro e Caterina (non giustificandone la sua completa illegalità).

 

L’obiettivo comune a tutti questi movimenti rivoluzionari è l’individuazione di un nemico di classe o di razza che ostacola la prossima realizzazione del nirvana, un nemico che riassume in sé tutte le qualità peggiori del mondo moderno. Egli diventa l’incarnazione di tutti i mali dell’uomo, la cui distruzione purificherà il pianeta. Per i giacobini, era rappresentato dalla borghesia e dagli aristocratici; per Stalin, erano i kulaki, i cosiddetti contadini ricchi, mentre per Hitler erano gli ebrei.



La figura di Stalin fu fraintesa per lungo tempo in Occidente a causa del ritratto strumentale fattone da Trockij: un’oscura ‘macchia grigia’ che aveva preso il potere attraverso il controllo dell’apparato del partito e aveva cacciato lo stesso Trockij, erede di Lenin e sensibile e sincero socialdemocratico, tradendo la rivoluzione con un governo da moderno Gengis Khan.

 

Tutto questo era falso.

 

A differenza dei molti predicatore da caffè con il pince-nez, libellisti bohémien e studenti perdigiorno che attorniavano Lenin, Stalin proveniva realmente da un ambiente contadino. In virtù delle sue origini georgiane – anch’egli, come Alessandro Magno, Napoleone e più tardi Hitler, era un outsider, nato in una regione di retroguardia e guardato un po’ dall’alto in basso –, nutriva forse del risentimento nei confronti dei veri russi. Dalla sua educazione, ricevuta da un padre manesco e ubriacone, gli derivò apparentemente un gusto duraturo per la brutalità e la vendetta, da lui proiettate sul mondo dei privilegi di classe.


 

La sua conoscenza del marxismo ricordava più un catechismo, come lo erano i suoi discorsi, pronunciati con voce secca e sottile, in cui si rifletteva il periodo trascorso in seminario, che aveva forse offerto uno sbocco anticipato al suo fanatismo. Egli tuttavia credeva realmente nel comunismo come era stato creato da Lenin e ne portò avanti alla lettera le genuine politiche – rapida industrializzazione e collettivizzazione – al costo di decine di milioni di vite.

 

In realtà, Lenin lo aveva favorito molto presto, ammirato dalla sua spietatezza e dal gusto per la violenza fisica. Era uno dei dirigenti del partito che raccoglievano fondi per il bolscevismo rapinando banche. Lenin gli conferì l’incarico di Segretario generale del Partito comunista non perché fosse un ottimo burocrate, ma perché si fidava di lui. Lenin non aveva tempo per gli intellettuali – ammesso che questo sia il termine corretto per un golpista agitatore e assassino come Trockij –, a parte se stesso.




Anche se la storiografia tradizionale e apologetica raffigura la straordinaria quantità di lavoro da schiavi completato nel periodo del ‘comunismo di guerra’ del 1918-21 (orchestrato con entusiasmo da Trockij) come una risposta disperata e temporanea alla minaccia della sconfitta del governo sovietico da parte dei Bianchi – una situazione che distoglieva Lenin dal compito costruttivo di realizzare un’economia moderna –, il comunismo di guerra, in verità, fu ciò che Lenin aveva voluto per tutto il tempo. La cosiddetta Nuova Politica Economica (NEP) degli anni venti, che rallentò temporaneamente la collettivizzazione e permise un grado limitato di proprietà della terra e di piccole imprese, fu una concessione per scongiurare la carestia totale, soprattutto per i membri del partito – una politica destinata a essere accantonata prima possibile affinché il bolscevismo potesse tornare alla missione della completa collettivizzazione. In altre parole, il ‘comunismo di guerra’ era il comunismo.




Il trionfo di Stalin su Trockij dopo la morte di Lenin e la sua ascesa al potere supremo furono una manovra brillante, che lasciò nella polvere il vano e prolisso Trockij, convinto che sbraitare per tre ore mettesse tutti d’accordo con lui. Stalin protesse prima Bucharin e la NEP, in modo da sbaragliare Trockij come esponente dell’opposizione di sinistra. Una volta spedito in esilio il suo maggiore avversario, virò verso l’estrema sinistra e si sbarazzò di Bucharin e dei riformisti come portavoce dell’opposizione di destra.

 

Seguirono gli orrori della collettivizzazione, esattamente come Lenin aveva voluto, un compito che Trockij, considerando il suo ruolo precedente nell’organizzare il lavoro coatto e l’eliminazione in massa dei nemici di classe, avrebbe effettuato senza problemi se gliene fosse stata data la possibilità. Tornando alla visione utopica della rapida collettivizzazione voluta da Lenin, Stalin aveva percepito esattamente l’orientamento psicologico del partito, in particolare dei giovani, che volevano l’emozione e l’idealismo di ciò che Lenin – l’uomo del miracolo – aveva immaginato e ambivano a diventare loro stessi uomini del miracolo attraverso l’esercizio illimitato della forza di volontà contro i nemici della rivoluzione.




L’NKVD, divenuto in seguito KGB e composto dalle persone che Stalin preferiva (a differenza degli intellettuali da caffè della vecchia guardia bolscevica che invece disprezzava), diventò uno Stato nello Stato, da cui venne guidata la missione genocida, con una presa di potere in seguito imitata dalle SS naziste. Il terrore implacabile era giustificato dalla dottrina economica sovietica dell’‘accumulazione socialista primitiva’. In altre parole, si doveva spremere dal popolo ogni grammo di ricchezza per finanziare il più rapidamente possibile la costruzione di fabbriche e un’enorme forza militare.

 

Dopotutto, come ragionavano i bolscevichi, il capitalismo non aveva forse fatto lo stesso nel corso dei secoli al fine di creare la moderna produttività industriale?

 

Marx l’aveva chiamata estrazione di plusvalore da ciò che i lavoratori producevano, pagando loro una parte irrisoria del suo effettivo valore e trattenendo il resto per proprio profitto e costruire nuove fabbriche. Si trattava semplicemente di accelerare il processo, ma questa volta la forza economica sarebbe stata al servizio di un ideale disinteressato, non del lusso e dell’avidità borghese. Si doveva edificare in men che non si dica un moderno Stato industriale, calando le direttive dall’alto, nel bel mezzo di una cultura completamente agraria. A nessuno però doveva essere permesso di trarne profitto: l’intera forza lavoro sarebbe stata organizzata dallo Stato.




Era stata questa la missione di Lenin, e Stalin era determinato a portarla a termine.

 

Come diagnosticato in modo indimenticabile da Solženicyn, il sistema dei Gulag non era solo un mezzo per procurare manodopera schiavizzata, ma anche il prototipo del futuro mondo ideale del nuovo homo sovieticus, spogliato di ogni attaccamento alla terra, alla fede, alla famiglia e alla proprietà privata, fedele soltanto al monolito repressivo dello Stato stalinista. In fondo, per il bolscevismo, questo processo di totale subordinazione dell’individuo al collettivo era ancora più importante che costruire un’economia industriale. Come Stalin stesso disse, egli era meno interessato a produrre più fabbriche che a essere un ‘ingegnere di anime’.

 

La carestia del Terrore del 1932-33 in Ucraina, deliberatamente innescata da Stalin per estrarre ogni grammo di produzione agricola per l’esportazione, al fine di finanziare nuove fabbriche mentre gli ucraini morivano di fame, fu, come ha scritto Robert Conquest, una versione gigante del campo di concentramento di Bergen-Belsen, in cui i genitori erano spinti a cannibalizzare i propri figli o a venderne parti del corpo come cibo.




Il Politbjuro aveva deciso che ‘i tempi sono maturi per porre specificamente la questione dell’eliminazione dei kulaki’ – lo stesso tipo di linguaggio burocratico successivamente usato da Heydrich e Eichmann per discutere la ‘questione’ dello sterminio degli ebrei.

 

Non ci doveva essere alcuna esitazione, nessuno scrupolo morale borghese nel distruggere la classe dei cosiddetti contadini ricchi. Come affermò Zinov’ev, ‘dobbiamo portare con noi novanta dei cento milioni della popolazione sovietica. Quanto agli altri, non abbiamo nulla da dire. Devono essere annientati’.

 

In realtà, secondo Roy Medvedev, il numero di morti per esecuzioni, fame, collettivizzazione e lavoro schiavizzato era più vicino a venti milioni, senza contare gli altri venti milioni di morti della seconda guerra mondiale che, come vedremo tra breve, furono da attribuirsi a Stalin (lo storico Norman Davies calcola il numero di morti in cinquanta milioni, senza contare le vittime di guerra).




Come asseriva Stalin stesso, ‘è ridicolo e sciocco dilungarsi oggi sull’espropriazione dei kulaki. Non ci si lamenta della perdita di capelli di un uomo che è stato decapitato’.

 

I giovani quadri del partito partivano per le campagne a supervisionare il genocidio e lo facevano con entusiasmo e rigida dedizione. Come ammoniva un organizzatore di partito, ‘si devono assumere i propri obblighi con il senso della più stretta responsabilità verso il partito, senza piagnucolare, senza alcun liberalismo corrotto’. Una giovane attivista ricordava: ‘Per poterli massacrare, era necessario proclamare che i kulaki non erano esseri umani. Proprio come i tedeschi dichiaravano che gli ebrei non erano esseri umani. Così, Lenin e Stalin proclamarono che i kulaki non erano esseri umani’. Un altro funzionario osservò: ‘Sappiamo che stanno morendo a milioni. È una sventura, ma il glorioso futuro dell’Unione Sovietica la giustificherà’. In questi racconti, basterebbe sostituire ‘kulak’ con ‘ebreo’ e potremmo citare i nazisti, le SS e Himmler.




A differenza di Lenin, Stalin riteneva che in Russia il comunismo potesse realizzarsi pienamente. Dopo, però, i suoi immensi benefici dovevano essere diffusi nel mondo intero. In quanto rivoluzionario millenarista, era necessariamente un imperialista. Dopo il patto di non aggressione con Hitler nel 1939 – l’unico uomo, come osservò causticamente Solženicyn, di cui Stalin si fidava veramente –, nessun altro, a parte il Führer stesso, fu più responsabile di Stalin della seconda guerra mondiale e della morte, distruzione e sofferenza che essa scatenò.

 

Il fatto è che Hitler, senza quel patto, non avrebbe mai potuto eliminare la Francia e (come sperava) la Gran Bretagna, per poi rivolgersi all’Europa centrale e dare inizio alla Shoah.

 

Sì, il popolo russo soffrì incredibilmente – una realtà ricordata immancabilmente da allora dai leader russi e sovietici, incluso Putin, come se quella passata sofferenza potesse giustificare in qualche modo vago la sua odierna conquista di altri popoli. Quell’incredibile sofferenza, inoltre, fu il risultato di azioni di Stalin, tra cui la sua persistenza nell’ignorare i segni dell’imminente tradimento nazista e dell’Operazione Barbarossa.


(Prosegue....)







 

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