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I popoli
alpini hanno tentato, in ogni modo, di opporsi all’omologazione culturale e
alla soppressione delle proprie tradizioni. In questa lunga lotta, le donne
hanno combattuto in prima fila: come guerriere armate ma anche come
intellettuali, e soprattutto come custodi della memoria. Non è un caso che le
antiche lande selvagge del pianeta scompaiano a mano a mano che viene meno la
comprensione della propria intima natura arcaica. Non è poi tanto difficile
capire come mai le foreste antiche e le signore anziane sono considerate
risorse di scarsa importanza nella nostra civiltà.
Non è mera
coincidenza se i lupi e gli orsi, le civette e le donne un po’ strane e
solitarie godono di una reputazione simile. Tutte queste figure si rifanno ad
archetipi connessi, e sono considerate prive di grazia e di gentilezza,
istintivamente pericolose e rapaci. Ma l’archetipo della Donna Selvaggia si può
esprimerlo anche in termini completamente diversi. Si può chiamare natura istintiva,
psiche naturale, comprensione intuitiva e immediata della situazione. È
qualcosa di tacito, presciente e viscerale. Talvolta viene chiamata ‘la donna
che vive alla fine del tempo’, oppure ‘quella che vive ai confini del mondo’.
E questa creatura è sempre un creatura-strega, o una dea della morte, o una vergine in caduta, o mille altre personificazioni. È amica e madre di quelli che hanno perso la strada, di chi ha bisogno di sapere, ha un enigma da risolvere, di chi vaga e cerca nella foresta (o nel deserto). La Donna Selvaggia in quanto archetipo, e tutto quanto sta dietro di lei, è la patrona dei pittori, degli scrittori, degli scultori, di coloro che compongono preghiere, che ricercano, che trovano. È la forza Vita/Morte/Vita. È colei che tuona contro l’ingiustizia. È idee, sentimenti, impulsi e memoria: è quella che, incarnata in milioni di donne generazione dopo generazione, ci ha permesso di non perdere il ricordo.
Cominciamo
il nostro racconto dalle radici della cultura che, attualmente, ancora domina
il pensiero occidentale: il modello greco e latino, razionalistico e misogino.
E cominciamo dalla Madre mitica, ispiratrice di ogni femmina ribelle. Per
Aristotele non esistono parole, né immagini, né categorie per esprimere la
materia indifferenziata, perché la forma è la condizione dell’accesso logico
alla realtà. C’è solo un vocabolo che il filosofo non può evitare parlando dell’indicibile:
hyle.
È il primo
a dargli il senso filosofico di materia.
Tuttavia in origine hyle non significava materia, ma Foresta. Il suo derivato, in latino, è silva: in latino arcaico, sylva, foneticamente vicino a hyle. Ma lo stesso vocabolo ‘materia’ non si allontanava molto da foresta: materia vuol dire legno, il legno utilizzabile dell’albero, in opposizione alla scorza, ai frutti, alle foglie. E ‘materia’ ha la stessa radice di mater: la madre. Questa parentela prelinguistica riesce a esprimersi nel mito, si manifesta in Ovidio nelle storie di uomini trasformati in animali, in fiori, in alberi, in altri fenomeni della foresta.
Le tappe
della metamorfosi mettono in scena la natura fondamentalmente superficiale delle
forme della creazione, evidenziando i legami che uniscono tutte le cose in
virtù della genesi comune. La divinità che presiede alle selve, per i greci è
Artemide, per i romani Diana: cacciatrice e protettrice degli animali
selvatici, ma anche delle partorienti. È la grande matrice del mondo al di là
delle zone abitate dagli uomini (civili): nutre i cuccioli col latte delle
proprie mammelle, è la guardiana di misteri crudeli. È l’iniziatrice alla
conoscenza della natura non umana. Non la si può né vedere né avvicinare.
È la matrice,
la materia e la madre insieme.
È lo spirito del bosco che fa nascere un’immensità di specie (di forme), che sorveglia la vicinanza originale con la rete di corrispondenze materiali che animano la selva. Negli spazi selvaggi, non esistono differenze irriducibili. Il suo ricordo rimarrà a lungo nella memoria popolare, e molti processi alle streghe, prima che del Demonio, parlano proprio di Lei.
È l’archetipo
della Donna Selvaggia che prende il nome di una dea, e che serve per preservare
un’intera civiltà: la cultura della foresta. E
mentre nelle città romane prima e cristiane poi trionfa una religione che serve
le classi dominanti e che in seguito modella essa stessa chi avrà il privilegio
di governare, sotto l’ombra materna degli alberi millenari si continua ad
adorare la Grande Dea.
Per tutto
il Medioevo immense foreste meravigliose ricoprono il continente nell’indifferenza
dei tempi. Qua e là piccoli insediamenti umani sparsi sopravvivevano con la
caccia e la raccolta di quanto il bosco poteva offrire. Per il nuovo ordine
sociale che si riorganizzava lentamente sulla base delle istituzioni feudali e
religiose le foreste erano, per l’appunto, foris, all’esterno. Là vivevano i
proscritti, i folli, gli amanti, i briganti, i fuggitivi, i disadattati, gli
eremiti, i santi, i lebbrosi, i rivoluzionari, gli eretici, i perseguitati, le
streghe, le donne perdute, gli uomini selvaggi.
Ma non solo: in periodi di grande instabilità, di invasioni e di scorrerie violente da parte di popoli stranieri, sull’arco alpino (ma non solo) molte città spariscono completamente, e gli abitanti superstiti si ritirano a vivere nelle grotte, al di fuori dei sentieri battuti dalle orde di barbari, protetti dalle fronde di boschi impenetrabili. Il fenomeno del vagabondaggio fuorilegge, del resto, rispecchiava l’estrema mobilità di una parte della società medievale, la popolazione flottante: mercanti, sensali, venditori ambulanti e girovaghi, artigiani, diffusissimi sull’intero arco alpino fino a pochi decenni fa (ogni valle si specializzava in un mestiere); carbonai, altri personaggi tipicamente alpini; monaci questuanti, o vaganti in fuga dal convento, frati perdona tori e venditori di reliquie, chierici senza patria, poeti cortigiani e cantastorie, trovatori, studenti itineranti che chiedevano la carità muniti della lettera col sigillo universitario, corrieri e cursori, indovini e chiromanti, negromanti ed eretici, settari e predicatori di ogni ordine e disordine, medicastri e guaritori, istrioni, bari e giocolieri, pellegrini autentici e non, visionari, ‘Uomini di Dio’, ebrei erranti e maledetti. mendicanti veri e falsi, soldati e mercenari, scampati dai pirati o dagli infedeli, servi fuggiaschi, maestri e apprendisti.
A partire dal tardo Medioevo si aggiungono gli zingari, arrivati dall’India attraverso una migrazione secolare. E ogni gruppo con il proprio linguaggio ‘corporativo’ o gergo segreto (la lingua occulta), coi suoi santi, le sue cantilene e salmodie, le sue pentole, i suoi sogni. Le schiere di sbandati spinti alla ribalderia dalle guerre, dalle imposte, dalla fame, dovevano essere davvero tante: la società medievale getta sulle strade, e nel bosco, le sue frange più deboli. Il numero degli esclusi aumenta vertiginosamente, e questa gente raggiunge - e vi si unisce fino a confondervisi - il preesistente popolo della foresta e delle montagne.
E dove
sarebbero potuti andare?
Scappare
dalla legge e dalla società degli uomini civili era ritrovarsi automaticamente ‘al
monte’. La Chiesa cristiana, che nel frattempo cercava di unificare l’Europa sotto
il segno della croce, era fondamentalmente ostile alle montagne, queste
barriere impassibili di natura incolta. I principi di identità e di non
contraddizione, fondamenti della logica che presiede al pensiero dell’uomo
civile, svaniscono nella foresta. Il profano si trasforma in sacro. I
fuorilegge diventano i difensori di una giustizia superiore: vedi il mito di
Robin Hood, diffuso sotto varie forme su tutto il continente europeo. Che la
legge sia religiosa, politica, psicologica, o anche solo logica, la foresta la
destabilizza. Le foreste sono al di là della legge: o meglio, fuori dalla
legge. La bestialità, la caduta, il nomadismo, la perdizione: queste le
immagini che la mitologia cristiana associa alla foresta e alla montagna. Dal
punto di vista teologico, i boschi rappresentano l’anarchia della ‘materia’.
Essendo l’esatto contrario del mondo creato a immagine di Dio, erano
considerati come gli ultimi bastioni del culto pagano.
Nelle tenebrose foreste celtiche regnavano i druidi; in Germania esistevano i boschi sacri; di notte, appena fuori dalle città, assediate da vicino dalla selva sterminata, le streghe celebravano i loro riti. Antichi demoni, fate e spiriti della natura si aggiravano fra gli alberi, e la popolazione manteneva e coltivava i legami tradizionali col passato pagano. Distruggere i boschi non significava soltanto. ridurre in cenere innumerevoli secoli di crescita naturale: significava soprattutto annullare i fondamenti della memoria culturale della gente che li abitava. Infatti, disboscamento e sradicamento di alberi sacri furono attività a cui le gerarchie ecclesiastiche si applicarono devotamente e con profitto.
Comunque,
ci volle di sicuro molto tempo per conquistare le campagne e per convertire
quei pagani che erano i contadini. Nelle foreste si stabilirono i monaci e le
purificarono dissodandole: dove prima si trovavano dei boschi sacri venivano
fondati dei monasteri. Ma gli esseri un tempo divini nel Medioevo vivevano
ancora al riparo delle fronde. La Chiesa non era riuscita a esorcizzarli tutti.
Alcuni li aveva convertiti e, in certi casi, erano perfino diventati santi.
Altri li aveva coperti con una ‘patina cristiana’ che li aveva resi
irriconoscibili, anche se ne restavano ancora.
Erano troppo numerosi; e molti facevano parte della categoria degli irriducibili. Nelle selve si correva il rischio di incontrarli all’improvviso: e non solo perché, scacciati dai cristiani, si erano rifugiati fra gli alberi, ma anche e soprattutto perché erano creature silvestri per natura. Il terrore suscitato dalla loro apparizione, o anche da un rumore sospetto, da una luce insolita che ne annunciava la presenza, altro non era che quel panico ben conosciuto dagli antichi. La parola è greca, e indicava l’incontrollabile spavento che si impadroniva di chi, in un luogo isolato, incontrava Pan, dio cornuto della foresta e della sessualità sfrenata e contagiosa. Ancora una volta, pan significa tutto, come hyle, sylva e ‘materia’: impersona l’energia genetica che anima l’universo e che è il Tutto della vita, la sua stessa origine: il timore che può Ispirare è più che giustificato.
Lo stesso
panico che colpì le legioni romane mentre attraversavano le Alpi e la Selva
Ercinia in Germania si credette che avesse di nuovo turbato le armate
napoleoniche in un bosco nei pressi di Mosca durante l’invasione della Russia. Testimonianze
di culti estatici e sciamanici che legano donne, foreste e montagne sono
antichissime; e prima dei romani che raccontano dei celti, ne parlano gli
storici greci riferendosi al culto di Dionisio, preesistente rispetto agli dei
dell’Olimpo e celebrato ancora nelle icone più isolate e meno civili della
Grecia ellenistica.
Era un fatto reale che comunità (tìasi) di donne si appartassero in luoghi montani per celebrare le feste di Dioniso. Questo rito, la corsa sui monti (oreihusìa) si svolgeva ad anni alterni. Il culto di Dioniso è molto speciale, e precorre in qualche modo la religione delle streghe di montagna ‘scoperta’ dagli inquisitori. Come le credenze delle maghe nostrane, la celebrazione dei riti dionisiaci è basata su un mondo ‘altro’ rispetto a quello faticosamente costruito all’interno della città, di un’alterità che ti nello stesso tempo psicologica e sociale: un mondo che si proclama più semplice e felice.
Stringere i
legami fra sé e gli altri, scavalcare le barriere degli anni che dividono i
giovani e i vecchi, superare le differenze sociali, ritornare alla natura: ecco
il richiamo del rito. Questo ruolo è storicamente attestato presso gli strati
più poveri e infimi della popolazione, ed è la sopravvivenza di forme di
religiosità che si perdono nella notte dei tempi. La menade, colei che celebra
i fasti di Dioniso, sembra proprio l’antenata della strega: regredisce, perde i
connotati della cultura umana e riassume uno stato di naturalità.
…Fugge dai luoghi frequentati dall’uomo per
rifugiarsi sui monti: non semplicemente al di fuori delle mura cittadine, ma in
luoghi che sono di per sé l’ambiente delle fiere.
E diviene lei stessa una bestia, mascherandosi da animale (si copre con una pelle di cerbiatto) e assumendone i comportamenti: dimentica la famiglia, abbandona marito e figli, fa da madre ai selvatici, maneggia serpenti (i rettili sono da sempre associati alle streghe e al diavolo). Diventa cacciatrice, assale i maschi a mani nude, uccide. Si esprime attraverso suoni inarticolati e urla. Cade in trance, balla fino a cadere esausta e senza fiato. È investita di poteri soprannaturali tramite il tirso, bacchetta magica fatta da una canna con in cima una pigna e avvolta in rami di edera, che la porta all’identificazione col regno vegetale.
Questi riti
arcaici, che celebrano la fecondità della terra e dei campi attraverso feste
orgiastiche, favoriscono la trance, l’estasi e la profezia, tramandano una
conoscenza esoterica e iniziatica che è privilegio delle donne. Riti che, sotto
altri nomi, erano diffusi sull’intero continente europeo, nelle regioni al di
fuori dell’influenza della civiltà urbana etrusca, greca e romana. E si
mantengono per tutto il Medioevo, malgrado i tentativi di evangelizzazione e di
omologazione culturale che venivano dalle città.
Nei boschi e sulle montagne, sulle Alpi e sui Pirenei, sopravvivevano gli adepti delle divinità arcaiche, i loro sacerdoti: le antichissime scuole druidiche non avevano retto all’urto cristiano, che aveva interrotto i collegamenti fra i collegi druidici; ma restavano i ministri del ‘culto del popolo’: le streghe e le fate. È opinione diffusa che ‘la stregoneria si stabilisca in maniera invincibile in alcune ‘sventurate vallate delle Alpi’.
Nel cuore
dei boschi, nei luoghi selvaggi, presso alcune fontane, all’ombra di vecchi
alberi, un tempo si potevano intravedere donne alte, vestite di bianco o di
verde, con uno strano copricapo, dotate di bellezza sovrumana e luminose.
Spesso le si scorgeva ballare. In Bretagna si mostravano preferibilmente nei
dintorni dei dolmen, dove sembrava che si fossero rifugiate. Sulle Alpi si
trovano vicino alle incisioni rupestri, oppure nei pressi dei monumenti
preistorici chiamati, appunto, ‘cerchi magici’. Non è un caso che nei luoghi di
culto di origine arcaica, ricchi di pietre incise, la popolazione mantenne per lungo
tempo l’antica religione; e l’Inquisizione fu particolarmente feroce: vedi la
Valcamonica, o la Valtellina, dove si bruciarono le ultime fattucchiere.
Per combattere questi riti ancestrali, il cattolicesimo oltre a condannare la saxorum veneratio cercò di adattarsi, appropriandosi di queste speciali forme di venerazione, e fece incidere croci a più non posso sui graffiti pagani. La presenza delle fate nella memoria popolare, in ogni modo, è documentata in maniera sicura fino al Concilio di Trento. Pare che le loro apparizioni siano state relativamente frequenti, almeno fino all’inizio del XIX secolo, se si tiene conto del fatto che i testimoni che osavano parlarne erano molto rari.
Fate e
streghe spesso si confondono. In molti casi, probabilmente, le streghe erano le
fate invecchiate. Oppure, ricoprivano i gradi inferiori della gerarchia
sacerdotale celtica e appartenevano alle caste basse delle tribù; mentre le
fate erano druidesse che avevano studiato, donne ricche, colte e belle (le
scuole druidiche duravano più di vent’anni: come vere università di musica,
teologia, politica e medicina). In genere, le fate avevano con gli umani
rapporti di buon vicinato. All’occorrenza rendevano loro un qualche servizio,
facendo ritrovare gli oggetti smarriti, mettendo a loro disposizione la propria
conoscenza sui segreti dei ‘semplici’. Però erano suscettibili, e si
vendicavano quando qualcuno disubbidiva o le insultava. Ma se si dimostrava la
deferenza a cui avevano diritto, erano pronte ad aiutare chi aveva bisogno. Ciò
non toglie che, a volte, venivano accusate di rapire i bambini, o di cercare di
unirsi a uomini per averne.
I Bretoni dicevano che il loro scopo era quello di rigenerare la loro razza maledetta: per raggiungerlo, violavano tutte le leggi del pudore, ‘come le sacerdotesse dei Galli’. E, in effetti, le leggende alpine ed europee hanno tramandato la libertà sessuale di cui potevano godere questi esseri strani e misteriosi, senza obblighi familiari e morali che potessero imprigionare la loro facoltà di scelta. A partire dal XVIII secolo, le fate cominciano a scomparire. Non era solo il progresso dei ‘lumi’ a cacciarle via, ma soprattutto lo sviluppo della rete stradale che riduceva i luoghi appartati e selvaggi in mi potevano trovare un rifugio sicuro.
Perché le
fate, che il più delle volte sono di origine mitica, sembrano però, in alcuni
casi, esseri reali che vivono isolati, in posti segreti, e non si fanno vedere
quasi mai perché hanno tutto l’interesse di farsi dimenticare per poter
continuare a vivere e non cadere nelle grinfie degli inquisitori. Alcuni elementi
presenti nei rapporti raccolti dai folcloristi dall’Ottocento in poi rendono
abbastanza verosimile che molte fate, se non tutte, fossero tardive discendenti
delle antiche sacerdotesse dei celti che avevano preferito la solitudine alla
conversione.
In tutte le Alpi abbondano i luoghi considerati ‘le ultime dimore dei pagani’: buchi, grotte, rovine di castelli e di fortificazioni, addirittura chiese. Concordano anche le descrizioni che riguardano l’abitazione, i gusti, il modo di fare e i rimpianti suscitati dall’estinzione delle ‘buone signore’. Ecco come la tradizione ricorda la fine di una di queste donne:
‘In un tempo molto antico, una regina
protestante, saracina, o che altro mai fosse, non volendo piegarsi alla nuova
fede, che da ogni parte incalzava, si rifugiò in Val Brembilla. Dapprima andò a
mettersi sull’altura verdeggiante su cui sorge la chiesa di Sant’Antonio
abbandonato, ma poi, non sentendosi lì abbastanza sicura, si ritirò più addentro
nella valle e più in alto; nel luogo che ora prende il nome da lei, il Castello
della Regina. Ma i credenti non le dettero tregua, e la strinsero in modo da
non poter più resistere. Allora lei si ficcò in una botticella e si fece
precipitare giù per i dirupi del lato orientale. A questo modo si sfracellò.
Quanto alle sue genti, si arresero ai nemici ed ebbero in parte salva la vita’.
Il poco che sappiamo delle druidesse è che vestivano di bianco, detenevano segreti terapeutici vegetali, praticavano diverse forme di mantica, proferivano maledizioni magiche contro i nemici e – stando alla testimonianza di Strabone, che nel I secolo parla di una comunità di donne stabilita su di un’isoletta alle foci della Loira - si abbandonavano a volte a un comportamento simile a quello delle menadi. Benché perseguitate dai romani, queste profetesse celtiche sembra godessero, ai loro occhi, di un certo prestigio, in epoca imperiale anche abbastanza tarda, fino alla fine del III secolo.
Essendo
pochissime, isolate e, tutto sommato, inoffensive, le ultime sacerdotesse non
furono perseguitate apertamente dal clero, almeno fino alla caccia alle
streghe. Ma loro lo temevano profondamente (e chi potrebbe dare loro torto!),
tanto da non sopportare il suono delle campane, e gli serbavano rancore perché
le aveva confuse con ‘gli spiriti delle tenebre’. I preti si limitavano a
esorcizzarle da lontano e intervenivano in maniera pesante soltanto se
costretti, almeno fino al Rinascimento, che segna la recrudescenza nella
repressione delle antiche vestigia dei culti pagani.
I giudici accusarono Giovanna d’Arco di avere ubbidito alle fate, e non ai santi. All’inizio del XVII secolo, Le Nobletz, ‘missionario in Bretagna’, trovò nell’isola di Sein tre druidesse che diffondevano il culto del sole: venivano consultate dagli uomini prima di mettersi in mare. Il sacerdote cristiano racconta che riuscì a convertirle e a farle stabilire sulla terraferma, dove conclusero la vita in un convento. Probabilmente non fu un caso unico molte ‘buone signore’, stanche della vita selvaggia che dovevano condurre, finirono i propri giorni con il soggolo delle suore.
E se le
druidesse, assimilabili agli alti prelati e alle badesse cristiane, ricche,
colte, capaci di esprimersi e probabilmente anche di dissimulare una fede
diversa dalla loro per sopravvivere, abituate alla disciplina e alla vita di
comunità, alla fine si confusero con le suore, le povere streghe non potevano
certo essere accettate in un convento; né loro avevano la minima intenzione di
entrarci. Anche perché, per secoli, nessuno le degnò di una qualche
considerazione, e poterono continuare a officiare i propri riti indisturbate, o
quasi.
Si hanno buone ragioni per credere che, in alcune zone isolate, ma neanche tanto, queste donne abbiano costruito e siano riuscite a mantenere una qualche forma di organizzazione sociale specifica, matriarcale, fondata sulla sapienza esoterica, riconosciuta se non dai governi centrali (che preferivano ignorare le popolazioni di montagna, accontentandosi di sfruttarle e facendo finta di non vedere per evitare disordini, almeno fino a quando la Chiesa lo permise) almeno dagli intellettuali di punta dell’epoca, che spesso si sono confrontati con queste signore.
In Italia,
più che le fate, sono conosciute, documentate e rappresentate da diversi
artisti le Sibille. Quella che segue è la descrizione tardiva di una di queste
profetesse in Lombardia, quando già incutevano paura:
Il suo corpo magro e spigoloso era coperto da una
lunga veste nera, e le sue chiome grigie svolazzavano liberamente al soffio
dell’aria mattutina. La vecchia aveva una figura spettrale, una folta lanugine
grigia copriva le sue labbra sottili e paonazze, sotto le palpebre crespe e
giallastre due pupille grigie e sfavillanti rivelavano uno spirito ancor pieno
di energia e forse di violenza. [...] “I miei piedi non possono calpestare le
soglie consacrate.[...] Se mi avvicino agli uomini lo faccio perché ascoltino
la parola del comando, ma non per soddisfare i loro iniqui desideri. Chi sono
io? Sono la Sibilla, sì la Sibilla, la creatura maledetta, colei che fugge ed è
fuggita, colei che è odiata e che odia, la creatura che trova chiuse tutte le
porte come tutti i cuori, quella che fa gridare di spavento il lattante e fa
inacidire il latte nel seno della nutrice, quella il cui sguardo fatale fa
tacere la gioia, il dolore, l’amore, perché il terrore è più forte di tutto e
tutto fa dimenticare” ’.
Teofilo Folengo racconta, se pure in maniera ironica, della pratica di andare a ‘consultare le streghe di Valcamonica’ nel 1526.
Ma il il luogo
in cui la memoria storica dell’antica società è rimasto più a lungo sono le
Marche, regione fuori dalle grandi strade commerciali e militari, coperta di
montagne e di boschi un tempo quasi impenetrabili. Là queste antiche
sacerdotesse, depositarie della conoscenza magica ma anche del potere sulle
proprie comunità, hanno lasciato il nome al territorio che per millenni le ha
ospitate: i
Monti Sibillini. L’organizzazione sociale e politica ‘sibillina’,
ancora dopo l’Unità d’Italia, si reggeva sulle comunanze: praticamente, la
proprietà privata non esisteva; non solo il bosco e il pascolo erano di uso
collettivo, ma anche il seminativo veniva coltivato a turno dalle famiglie che
facevano parte della comunità.
La civiltà
delle Sibille è stata, per secoli, un punto di riferimento e di attrazione per
gli intellettuali che contestavano l’assetto teocratico-militare dello Stato.
Cecco d’Ascoli fu mandato al rogo per aver avuto rapporti con i negromanti e le
Sibille dei Monti Sibillini. Molti pensatori fra i più noti, dal Trecento al
Seicento, dal cavaliere de La Salle ad Agrippa von Nettesheim, da Benvenuto
Cellini ad Andrea Silvio Piccolomini, andarono a visitare la Sibilla, passando per
Norcia, in Umbria, o per Montemonaco, nelle Marche.
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