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Prosegue con il...:
Scozia…..
Ogni moneta
autentica deve pesare la sesta parte di una libbra. Il metallo impuro non ha
mai lo stesso peso, perché contiene meno argento. Questa prova è una pura
formalità, ma Giuliano
l’ha richiesta espressamente e allora peso la moneta vera su un piatto della
mia bilancia di bronzo e quella falsa sull’altro, in modo da confrontarne il
peso.
E poi resto
a guardare.
La moneta
falsa scende.
La moneta
vera sale.
Accigliato, tolgo le monete e controllo i piatti della bilancia prima di sostituirli, prestando particolare attenzione a dove poso ciascun denarius.
La moneta
falsa scende.
La moneta
vera sale.
Ma come?
Come è
possibile?
Quella che
ho trovato sulla collina è sicuramente falsa, vista la discrepanza tra i suoi
lati, eppure…
Smonto la
bilancia e la rimonto.
Pongo ciascun denarius su uno dei due piatti.
La moneta
falsa scende.
La moneta
vera sale.
Le leggi
della natura si sono forse ribaltate, che ora si verifica tale fenomeno?
Come è
possibile che una rondine pesi più di un cavallo?
Come è
possibile che una moneta trovata nel
covo di un falsario pesi più di una coniata nella zecca, a meno che…
A meno che
la moneta autentica non sia meno pura di quella falsa.
Ma non è possibile.
Ho visto
mentre la coniavano.
L’ho
stretta in mano quando era ancora calda.
E’ pura
quanto tutte le altre monete di Roma.
A meno che.
A meno che
noi non riduciamo la purezza delle monete.
Il sangue mi brucia, mi ribolle nella guancia, mentre il pensiero accarezza questa eresia.
E’ assurdo,
va contro ogni ragione supporre che l’impero sia capace di contraffazioni
simili, al punto che un denarius falso ha più valore di uno imperiale.
Oh , se
così fosse, se tutta la ricchezza di Roma fosse solo una doratura che cela la
miseria, allora anche l’Urbe sarebbe una moneta falsa, un’impostura, un impero
già caduto, privo di qualsiasi baluardo che lo difende dalle orde dei barbari,
fatta eccezione per questa sua valuta inconsistente.
Questo
pensiero è mostruoso.
E’ un
incubus che strappa il respiro.
E’ un orrore senza fondo.
Ed è vero.
Questa
terribile certezza si schianta in me, mi stronca. Vorrei morire o, meglio
ancora, vorrei esser morto prima che questa gelida e opprimente verità venisse
a togliermi la vita, prima di scoprire la nostra miseria, di sapere che tutto è
rovina.
Le mie
guance ribollono ancora, ma i miei occhi traboccano di lacrime che bruciano
come l’aceto. Dietro di me, ora, la porta si apre. Sento lo strascichio di
molti piedi e capisco che sono gli uomini del villaggio, so che sono venuti a
uccidermi, ma non riesco a guardarli, tanta è la vergogna che provo all’idea
che mi vedano in questo stato. Che vedano Roma così ridotta.
Alla fine
alzo la testa.
Quegli enormi bruti sono sull’uscio e stringono bastoni nodosi nei pugni. Davanti a loro c’è l’uomo grigio con la pancia grassa e la treccia in testa.
Mi
guardano, inespressivi come la pietra, guardano il piccolo romano che
singhiozza accanto alla sua bilancia e se provano disgusto nel vedere questo
spettacolo, non è certo più di quanto ne provi io.
Si
scambiano uno sguardo furtivo e l’uomo grigiastro scrolla le spalle.
Stanno per
uccidermi.
Mi butto in
ginocchio sul pavimento, chiudo gli occhi e aspetto il colpo.
Cade un
ultimo silenzio.
Poi, il suono di molti passi che scendono per le scale, una valanga di legno e di cuoio. Porte che sbattono al piano di sotto. Riapro gli occhi.
Sono andati
via.
Me l’hanno
visto in faccia. Hanno visto che sono già morto, che non era necessario
uccidermi.
Roma è
morta.
Roma è
morta e ora dove andrò?
Non certo a
casa.
La mia casa è la scena di un teatro, tutta fatta di Libri, e già si scrostano e si sbiadiscono per opera di un sole di squallide piriti.
Non posso
tornare a casa e allora chi, chi altro mi vorrà?
Mi rannicchio a terra e resto a fissare le monete, una falsa, l’altra più falsa ancora, finché la luce non comincia a venir meno ed entrambe non diventano pallide confuse dal buio, indistinguibili, e l’ombra non cade su quella nobile fronte.
La stanza
si riempie di tenebra.
Non tollero
questo buio che toglie chiarezza a ogni linea, a ogni segno. Mi alzo in piedi
e, barcollando come chi cammina in sogno, scendo le scale ed esco in strada,
stordito. I festeggiamenti sono già in atto, le strade sono già pregne del
tanfo di questi farabutti.
Pisciano negli ingressi, si colpiscono l’un l’altro alla testa con il remo e ridono e si inginocchiano nel loro stesso vomito. Fornicano contro le pareti dei vicoli come fossero prigionieri.
Scoreggiano
e urlano e sono loro tutto ciò che esiste, tutto ciò che mai esisterà.
Strascicando in terra i piedi, lentamente vado mischiandomi a questa loro
offensiva traboccante oscenità e lasciva.
Qualcuno mi ficca in mano un boccale di birra. Con un sorriso cariato in volto, mi afferrano per il braccio, baciano la mia guancia rigata dalle lacrime e mi trascinano in mezzo a loro.
( A. Moore)
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