giuliano

domenica 18 agosto 2013

TERZA GIORNATA (quarta novella) (48)





































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Frate Puccio, tutto contento, disse:
- "Quel che mi hai detto non mi pare poi così pesante da farsi e nemmeno lungo.
Voglio cominciare domenica, nel giorno che prende nome da Nostro Signore
Domineddio".
Poi, domandò a Don Felice se poteva raccontare la cosa alla moglie e, ottenuto
il permesso, dopo averlo caldamente ringraziato, se ne tornò a casa, dove mise
a parte Isabetta del suo prossimo processo di beatificazione.
Lei comprese bene quali erano state le intenzioni del monaco quando aveva da-
to quelle istruzioni al marito. Aveva trovato il modo di non farlo muovere per
parecchie ore. Le sembrò un ottimo espediente e perciò disse a Puccio che tut-
to quel che lui faceva per il bene dell'anima sua non poteva che farle piacere.
Anzi, per aiutarlo, avrebbe digiunato anche lei. Il resto no, avrebbe dovuto far-
lo da solo, ché altrimenti temeva che non avrebbe avuto pieno valore.
Venuta dunque la domenica, frate Puccio cominciò la penitenza, mentre il mo-
naco, messosi d'accordo con sua moglie e facendo bene attenzione a non es-
sere visto da nessuno, cominciò a venire a cena a casa sua quasi tutte le sere.
Portava sempre ottimi vini e cibi prelibati, per cui lui e Isabetta mangiavano be-
ne e bevevano meglio.

 


Poi, godevano l'uno dell'altra fino alle tre del mattino.
A quell'ora, Don Felice se ne andava e il marito entrava sfinito nel suo letto.
Il posto scelto da frate Puccio per la sua penitenza era proprio a fianco della
camera della moglie, da cui era separato da un muro sottilissimo. Per cui capi-
tò una notte che i due amanti fecero un tale fracasso e si dimenarono a tal pun-
to che al penitente sembrò che venisse giù la casa.
Dato che cento paternostri li aveva già detti, pensò di poter fare una pausa.
Rimanendo sempre immobile, chiamò la moglie e le domandò che cosa stesse
facendo.
Isabetta, che aveva la risposta pronta, senza smettere di cavalcare per non per-
dere l'andatura, gli disse:
- Marito mio, io mi dimeno quanto posso.
Al che lui:




- Come sarebbe che ti dimeni? Che vuol dire questo dimenamento?
Lei, che era una donna di spirito, gli disse:
- Com'è che non sapete che significa? Ve l'ho sentito dire mille volte: chi la se-
ra non cena, tutta la notte si dimena.
Frate Puccio pensò che fosse il digiuno la causa di tutto quel suo movimento,
per cui, senza il minimo sospetto, le fece:
- Donna, ti avevo detto di non digiunare. Ma dal momento che lo hai voluto
fare, cerca di startene tranquilla e di riposarti. Dai dei colpi tali che fai tremare
tutto!
Lei fu pronta a replicare:
- Pensate a quel che state facendo voi, piuttosto, e non vi preoccupate per me.
So bene quel che sto facendo, ma non posso farne a meno.
frate Puccio si tranquillizzò e riprese con i suoi paternostri.
Da quella notte in poi, però, Isabetta e il monaco decisero di cambiare posto.
Fecero preparare un letto in un'altra parte della casa e presero ad andare a
sollazzarsi per il tempo che durava la penitenza di Puccio.




La cosa continuò senza altri intoppi.
A una certa ora, Don Felice se ne andava e Isabetta se ne tornava nel suo
letto, dov'era raggiunta poco dopo dal marito che, per quella sera, aveva con-
cluso le sue santificanti fatiche.
La donna, quand'era con il focoso monaco, a volte, scherzando, gli diceva:
- Tu fai fare la penitenza a frate Puccio, ma grazie ad essa siamo noi ad aver
guadagnato il Paradiso!
Si era talmente abituata al cibo che le veniva dato dopo tanta dieta e ne era
tanto soddisfatta che fece in modo di non smettere di mangiar bene anche
quando il marito avesse terminato il suo ciclo di espiazione.
Lei e Don Felice, si misero d'accordo per continuare a vedersi anche dopo,
con discrezione, ovviamente, ma sempre con grande piacere di entrambi.
Orbene, per riallacciarmi all'inizio del mio racconto, vedete bene che frate
Puccio, credendo con la sua penitenza di mettere se stesso in Paradiso, in
realtà ci mise il monaco, che gli aveva insegnato la via più rapida per andar-
ci, e la moglie, che con lui viveva in ristrettezze, bisognosa di quel che inve-
ce il sant'uomo, misericordioso come deve esserlo ogni buon cristiano, le
dava in abbondanza.....
(L. Corona Decameron di Boccaccio)
















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