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Per tortura
giudiziaria (quaestio rigorosa) si intendono quei mezzi di coercizione fisica
impiegati per ottenere da un imputato la confessione di un crimine (prova
regina del processo inquisitorio) e da persone sospette o testimoni reticenti
informazioni particolari inerenti a un fatto criminoso o ai complici.
Il
tormento, che ovviamente aveva precedenti nell’antichità e nell’alto medioevo,
ricomparve e si diffuse come pratica nei tribunali europei con la rinascita del
diritto romano nel secolo XIII. La ragione del suo impiego si impose nel
contesto storico della lotta che la società cristiana condusse contro l’eresia
medievale.
Gli
studiosi del diritto sono arrivati alla conclusione che la tortura va intesa
come un ‘incidente’ (Peters 1985) inevitabile nel nuovo tipo di sistema giudiziario
che si stava affermando: infatti era impossibile usare la procedura
romano-canonica senza praticare la tortura, in quanto solo questa avrebbe fatto
emergere la ‘regina probarum’, la confessione.
La
confessione del colpevole era superiore a qualunque tipo di testimonianza,
difficile peraltro da ottenere in quello che oggi definiremmo un delitto di
opinione mascherato. La Chiesa cattolica, che ormai stava optando
definitivamente per il sistema inquisitorio, ratificò allora l’impiego del
supplizio giudiziario nel 1252, con la bolla ‘Ad extirpanda’ di Innocenzo IV,
che autorizzò gli inquisitori a servirsene nella lotta contro gli eretici per
estorcere da loro la confessione di pratiche devianti nascoste, difficili da
scoprire con altri metodi.
Vennero in
tal modo poste le premesse per una sua applicazione nei processi di
stregoneria, crimine occulto per eccellenza, e la trasformazione della
stregoneria in reato
di apostasia era allo scopo giunta opportuna.
La
consapevolezza che la pratica del tormento per la ricerca della verità si
rivelava fallace, inducendo a confessioni non veritiere, portò dunque alla
formulazione di una serie di norme mirate a disciplinarne l’uso. In primo luogo
il supplizio giudiziario (che nei crimini ‘non enormi’ si intendeva limitato
alle persone di vile condizione) non poteva essere inflitto arbitrariamente, ma
sulla base di indizi solidi che facevano dubitare della sincerità dell’accusato
o del teste, se incorrevano in frequenti contraddizioni.
Arrivati al
tormento, norma cruciale era che esso non doveva causare la morte della persona
inquisita, e pertanto andava applicato a parti del corpo non vitali con
strumenti adeguati (torchi, pinze) con cui si potesse graduare il dolore, e nel
caso della ruota aumentandone il carico destinato a tendere gli arti del
torturato. Altre norme importanti disciplinavano la ripetizione della tortura e
la sua durata. Non erano soggette al supplizio le donne gravide, i vecchi e i
bambini.
Agli storpi
veniva di solito evitata la fune, il mezzo di tortura più comunemente adottato
dalle Inquisizioni moderne, che consisteva nel sollevare la vittima con le mani
legate, alzarlo e poi farlo cadere di colpo (ma gli squassi, con il tempo, non
furono più consentiti dal Sant’Uffizio, che fece cadere in disuso anche il
ricorso alle stanghette, al fuoco, alla ruota e alla veglia coatta).
La durata
del tormento non doveva eccedere lo spazio di un’ora, il numero delle alzate e
la ripetizione variavano da sede a sede. Norme precise per la tortura compaiono
già nel manuale del frate domenicano Nicolau Eymerich, il ‘Directorium inquisitorum’,
stilato alla fine del XIV secolo, ma furono perfezionate dalla criminalistica
del XVI secolo.
Nei
processi di stregoneria del tardo medioevo e della prima età moderna si
verificò la violazione maggiore di queste regole, e ciò avvenne soprattutto in
corti periferiche presiedute da giudici privi di adeguata preparazione
giuridica. Nella ‘Constitutio Criminalis’ Carolina (1530/1532), fatta emanare
dall’imperatore Carlo V, il ricorso al supplizio giudiziario avrebbe trovato
una sistemazione precisa: se ne proibiva l’applicazione in riferimento a
crimini commessi da altre persone.
La norma
venne disattesa, specie nelle persecuzioni delle terre tedesche, dove il ‘crimen
exceptum’ fu fronteggiato con le modalità di un ‘processus extraordinarius’.
L’impiego esteso del tormento e
l’accettazione del principio della ‘chiamata di correo’ produssero sinergie
letali che costarono un tributo di vittime pari al 50% del dato complessivo
europeo: venticinquemila roghi circa, secondo le più recenti stime, esito
dell’accettazione come valida delle denunce estorte con la tortura dei complici
del presunto complotto stregonesco.
Originando
un effetto ‘domino’, le accuse, con reazioni a catena, colpirono intere
comunità senza distinzione di stato sociale e sesso. Del resto, si può dire che
in tutti i paesi europei si ricorse all’impiego della tortura nei casi di
stregoneria. Nelle isole britanniche la Scozia tenne una via di mezzo tra l’Europa
continentale e la vicina Inghilterra, dove non si poteva torturare perché
vigeva la Common Law ma si ricorse ampiamente al ‘tormentum insomniae’, specie
nella grande caccia degli anni 1645-1647 pilotata da John Stearne e Matthew
Hopkins. I due cacciatori di streghe nelle loro missioni fecero ricorso a
specifici watcher e walker deputati a tenere sveglie le accusate sorvegliandole
e facendole camminare.
Le
Inquisizioni mediterranee, come strutture centralizzate, si preoccuparono di
regolamentare l’impiego del supplizio nei processi per eresia. Già con le
istruzioni di Granada (1526) l’Inquisizione spagnola, attraverso l’autorità
della Suprema, cercò di limitare gli abusi che si erano verificati e che si
verificavano nelle sue sedi periferiche. L’Inquisizione romana, nei processi
per stregoneria, non fece l’uso moderato della tortura di cui si è parlato negli
studi più recenti, pur regolandola dal centro.
Questo lo
si può arguire dai processi tenuti nelle sedi inquisitoriali di Siena e di
Modena. Un probabile spartiacque nella politica giudiziaria romana si ebbe
comunque grazie al ruolo moderatore svolto nel Sant’Uffizio dal cardinale
segretario Giulio Antonio Santoro, arcivescovo di Santa Severina. Una lettera
da Roma all’inquisitore senese ne riassume l’atteggiamento:
‘reverendo padre, si è visto il processo contra
Giovanni Domenico Fei da Montepulciano, già cominciato dal vicario episcopale
et proseguito da vostra reverentia. Et questi miei illustrissimi et
reverendissimi signori cardinali colleghi hanno risoluto che ella gli dia la
corda sopra gli inditii che sono contra di lui in processo moderatamente, et in
maniera che non rimanga debilitato et storpiato nella sua persona. Et in evento
che non se gli possa dare la corda, come ella avvisò con lettera de’ XXIIII di
luglio, gli faccia fare una grave territione, con farlo legare anco ne’
tormenti. E non sopravenendo altro contra di lui dalla tortura o territione che
lo aggravi, lo faccia rilasciare, con prohibirgli che per l’avvenire non dia
rimedii per guarire alcuno, et gli imponga l’essilio dalla città di
Montepulciano et suo distretto per cinque anni’ (Roma, 25 settembre 1599, cit.
in Di Simplicio 2005: 52-53).
La tortura
aveva un suo rituale e nella stanza era sempre presente un certo numero di
persone: l’inquisitore, il rappresentante del vescovo e lo scriba. La
compresenza tra i due poteri ecclesiastici (l’ordinario e il delegato),
nell’atto di torturare così come nel momento di proferire sentenza, era stata
resa obbligatoria sin dal Concilio di Vienne (1311-1312) con la lettera
pontificia ‘Multorum querela’ tesa a limitare lo strapotere degli inquisitori
nei riguardi dei vescovi (CŒD: 380).
Così il 13
agosto del 1593 il vescovo di Novara denunciò al cardinale di Santa Severina
alcuni seri contrasti con l’inquisitore del luogo che in un processo di
stregoneria rifiutava la presenza del suo vicario nella stanza della tortura (Deutscher
1991). La tortura era materialmente praticata da un laico, il boia stesso di
solito, che eseguiva anche le sentenze capitali, valendo nel diritto canonico
il principio ‘Ecclesia abhorret sanguinem’. Pertanto del supplizio non si
criticò mai l’esistenza nel corso della storia del Sant’Uffizio, ma si
insistette sulla correttezza della sua applicazione a tutela degli inquisiti.
Gli
inquisitori locali senesi, per esempio, almeno in una fase iniziale non furono parsimoniosi
nell’uso del supplizio. Su un totale di 79 processi di stregoneria dal 1580 al
1666, 31 furono istruiti nel quindicennio dal 1580 alla fine del 1594 e 50 nei
settantuno anni successivi. Le accusate che comparvero in giudizio furono 113,
cui va aggiunto un uomo.
Lo strazio
fu applicato in 10 processi nel primo periodo (1580-1594) e in 21 nel secondo
(1595-1666). Nella prima fase, quando ancora le disposizioni romane non erano
pervenute, su 22 accusate ne furono torturate 15; nella fase successiva, su 57
inquisiti, ne furono torturati 31 (un uomo e 30 donne), ma soltanto 19 su
disposizione del Sacro Tribunale, 4 in un processo vescovile e 8 in tre processi
laici.
Le cifre
senesi suggeriscono dunque che siamo in presenza di una disapplicazione
progressiva del ‘rigoroso esame’ da parte dell’Inquisizione. Nel Seicento,
inoltre, le norme stabilite a moderazione della tortura confluirono nei manuali
per inquisitori: un esempio è il Sacro Arsenale di Eliseo Masini. Vi si continuò
anche a dibattere se la resistenza del sospettato alla tortura comportasse il
riconoscimento della sua innocenza; se l’imputato potesse appellarsi contro la
decisione di ricorrere alla tortura; se e in quali casi chiedere il consulto di
un medico; e si suggerì di attendere le scelte della Congregazione del
Sant’Uffizio prima di ripetere i tormenti, e di controllare l’eventuale uso di
bollettini magici da parte degli inquisiti che così speravano di resistere al dolore
(la demonologia raccontava che la strega poteva usare per sé e per altri il ‘maleficium
taciturnitatis’, arma escogitata dal diavolo per impedire l’efficace corso
della giustizia umana).
Su di un
piano europeo, nel corso dei secoli XVII e XVIII l’applicazione della tortura
nei processi di stregoneria venne sottoposta a critiche sempre più pressanti.
Di enorme importanza risultarono le argomentazioni esposte nell’opera ‘Cautio
criminalis seu de processibus contra sagas liber’ (1631) di Friedrich Spee,
gesuita e professore di Teologia morale all’Università di Paderborn che cercò dall’interno
della Chiesa di combattere i meccanismi dei processi di stregoneria
ristabilendo le regole del ‘processus ordinarius’.
Adam Tanner e Paul Laymann, anch’essi gesuiti, pubblicarono trattati di teologia morale nei quali trattando delle procedure penali criticavano l’impiego della tortura. All’inizio del Settecento decisivi sarebbero risultati gli attacchi del pietista Christian Thomasius che, usando Spee, demolì l’affidabilità del supplizio proprio sul piano giudiziario, perché le vittime, non reggendo al cimento, finivano per denunciare degli innocenti. Ormai erano maturi i tempi per l’abolizione. Le prime decisioni ordinamentali arrivarono con Federico II di Prussia, nel 1740. In Italia grande influenza ebbero le riflessioni di Pietro Verri, le cui Osservazioni sulla tortura vennero pubblicate postume nel 1804.
(Dizionario Storico dell’Inquisizione)