giuliano

giovedì 30 gennaio 2025

MEMORIA DI SISTEMA OPERATIVO (3)









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Delle carrozze (4) 


& sistema operativo (5/9)







Per tortura giudiziaria (quaestio rigorosa) si intendono quei mezzi di coercizione fisica impiegati per ottenere da un imputato la confessione di un crimine (prova regina del processo inquisitorio) e da persone sospette o testimoni reticenti informazioni particolari inerenti a un fatto criminoso o ai complici.

 

Il tormento, che ovviamente aveva precedenti nell’antichità e nell’alto medioevo, ricomparve e si diffuse come pratica nei tribunali europei con la rinascita del diritto romano nel secolo XIII. La ragione del suo impiego si impose nel contesto storico della lotta che la società cristiana condusse contro l’eresia medievale.

 

Gli studiosi del diritto sono arrivati alla conclusione che la tortura va intesa come un ‘incidente’ (Peters 1985) inevitabile nel nuovo tipo di sistema giudiziario che si stava affermando: infatti era impossibile usare la procedura romano-canonica senza praticare la tortura, in quanto solo questa avrebbe fatto emergere la ‘regina probarum’, la confessione.

 

La confessione del colpevole era superiore a qualunque tipo di testimonianza, difficile peraltro da ottenere in quello che oggi definiremmo un delitto di opinione mascherato. La Chiesa cattolica, che ormai stava optando definitivamente per il sistema inquisitorio, ratificò allora l’impiego del supplizio giudiziario nel 1252, con la bolla ‘Ad extirpanda’ di Innocenzo IV, che autorizzò gli inquisitori a servirsene nella lotta contro gli eretici per estorcere da loro la confessione di pratiche devianti nascoste, difficili da scoprire con altri metodi.

 

Vennero in tal modo poste le premesse per una sua applicazione nei processi di stregoneria, crimine occulto per eccellenza, e la trasformazione della stregoneria in reato di apostasia era allo scopo giunta opportuna.

 

La consapevolezza che la pratica del tormento per la ricerca della verità si rivelava fallace, inducendo a confessioni non veritiere, portò dunque alla formulazione di una serie di norme mirate a disciplinarne l’uso. In primo luogo il supplizio giudiziario (che nei crimini ‘non enormi’ si intendeva limitato alle persone di vile condizione) non poteva essere inflitto arbitrariamente, ma sulla base di indizi solidi che facevano dubitare della sincerità dell’accusato o del teste, se incorrevano in frequenti contraddizioni.

 

Arrivati al tormento, norma cruciale era che esso non doveva causare la morte della persona inquisita, e pertanto andava applicato a parti del corpo non vitali con strumenti adeguati (torchi, pinze) con cui si potesse graduare il dolore, e nel caso della ruota aumentandone il carico destinato a tendere gli arti del torturato. Altre norme importanti disciplinavano la ripetizione della tortura e la sua durata. Non erano soggette al supplizio le donne gravide, i vecchi e i bambini.

 

Agli storpi veniva di solito evitata la fune, il mezzo di tortura più comunemente adottato dalle Inquisizioni moderne, che consisteva nel sollevare la vittima con le mani legate, alzarlo e poi farlo cadere di colpo (ma gli squassi, con il tempo, non furono più consentiti dal Sant’Uffizio, che fece cadere in disuso anche il ricorso alle stanghette, al fuoco, alla ruota e alla veglia coatta).

 

La durata del tormento non doveva eccedere lo spazio di un’ora, il numero delle alzate e la ripetizione variavano da sede a sede. Norme precise per la tortura compaiono già nel manuale del frate domenicano Nicolau Eymerich, il ‘Directorium inquisitorum’, stilato alla fine del XIV secolo, ma furono perfezionate dalla criminalistica del XVI secolo.

 

Nei processi di stregoneria del tardo medioevo e della prima età moderna si verificò la violazione maggiore di queste regole, e ciò avvenne soprattutto in corti periferiche presiedute da giudici privi di adeguata preparazione giuridica. Nella ‘Constitutio Criminalis’ Carolina (1530/1532), fatta emanare dall’imperatore Carlo V, il ricorso al supplizio giudiziario avrebbe trovato una sistemazione precisa: se ne proibiva l’applicazione in riferimento a crimini commessi da altre persone.

 

La norma venne disattesa, specie nelle persecuzioni delle terre tedesche, dove il ‘crimen exceptum’ fu fronteggiato con le modalità di un ‘processus extraordinarius’.

 

L’impiego esteso del tormento e l’accettazione del principio della ‘chiamata di correo’ produssero sinergie letali che costarono un tributo di vittime pari al 50% del dato complessivo europeo: venticinquemila roghi circa, secondo le più recenti stime, esito dell’accettazione come valida delle denunce estorte con la tortura dei complici del presunto complotto stregonesco.

 

Originando un effetto ‘domino’, le accuse, con reazioni a catena, colpirono intere comunità senza distinzione di stato sociale e sesso. Del resto, si può dire che in tutti i paesi europei si ricorse all’impiego della tortura nei casi di stregoneria. Nelle isole britanniche la Scozia tenne una via di mezzo tra l’Europa continentale e la vicina Inghilterra, dove non si poteva torturare perché vigeva la Common Law ma si ricorse ampiamente al ‘tormentum insomniae’, specie nella grande caccia degli anni 1645-1647 pilotata da John Stearne e Matthew Hopkins. I due cacciatori di streghe nelle loro missioni fecero ricorso a specifici watcher e walker deputati a tenere sveglie le accusate sorvegliandole e facendole camminare.

 

Le Inquisizioni mediterranee, come strutture centralizzate, si preoccuparono di regolamentare l’impiego del supplizio nei processi per eresia. Già con le istruzioni di Granada (1526) l’Inquisizione spagnola, attraverso l’autorità della Suprema, cercò di limitare gli abusi che si erano verificati e che si verificavano nelle sue sedi periferiche. L’Inquisizione romana, nei processi per stregoneria, non fece l’uso moderato della tortura di cui si è parlato negli studi più recenti, pur regolandola dal centro.

 

Questo lo si può arguire dai processi tenuti nelle sedi inquisitoriali di Siena e di Modena. Un probabile spartiacque nella politica giudiziaria romana si ebbe comunque grazie al ruolo moderatore svolto nel Sant’Uffizio dal cardinale segretario Giulio Antonio Santoro, arcivescovo di Santa Severina. Una lettera da Roma all’inquisitore senese ne riassume l’atteggiamento:

 

‘reverendo padre, si è visto il processo contra Giovanni Domenico Fei da Montepulciano, già cominciato dal vicario episcopale et proseguito da vostra reverentia. Et questi miei illustrissimi et reverendissimi signori cardinali colleghi hanno risoluto che ella gli dia la corda sopra gli inditii che sono contra di lui in processo moderatamente, et in maniera che non rimanga debilitato et storpiato nella sua persona. Et in evento che non se gli possa dare la corda, come ella avvisò con lettera de’ XXIIII di luglio, gli faccia fare una grave territione, con farlo legare anco ne’ tormenti. E non sopravenendo altro contra di lui dalla tortura o territione che lo aggravi, lo faccia rilasciare, con prohibirgli che per l’avvenire non dia rimedii per guarire alcuno, et gli imponga l’essilio dalla città di Montepulciano et suo distretto per cinque anni’ (Roma, 25 settembre 1599, cit. in Di Simplicio 2005: 52-53).

 

La tortura aveva un suo rituale e nella stanza era sempre presente un certo numero di persone: l’inquisitore, il rappresentante del vescovo e lo scriba. La compresenza tra i due poteri ecclesiastici (l’ordinario e il delegato), nell’atto di torturare così come nel momento di proferire sentenza, era stata resa obbligatoria sin dal Concilio di Vienne (1311-1312) con la lettera pontificia ‘Multorum querela’ tesa a limitare lo strapotere degli inquisitori nei riguardi dei vescovi (CŒD: 380).

 

Così il 13 agosto del 1593 il vescovo di Novara denunciò al cardinale di Santa Severina alcuni seri contrasti con l’inquisitore del luogo che in un processo di stregoneria rifiutava la presenza del suo vicario nella stanza della tortura (Deutscher 1991). La tortura era materialmente praticata da un laico, il boia stesso di solito, che eseguiva anche le sentenze capitali, valendo nel diritto canonico il principio ‘Ecclesia abhorret sanguinem’. Pertanto del supplizio non si criticò mai l’esistenza nel corso della storia del Sant’Uffizio, ma si insistette sulla correttezza della sua applicazione a tutela degli inquisiti.

 

Gli inquisitori locali senesi, per esempio, almeno in una fase iniziale non furono parsimoniosi nell’uso del supplizio. Su un totale di 79 processi di stregoneria dal 1580 al 1666, 31 furono istruiti nel quindicennio dal 1580 alla fine del 1594 e 50 nei settantuno anni successivi. Le accusate che comparvero in giudizio furono 113, cui va aggiunto un uomo.

 

Lo strazio fu applicato in 10 processi nel primo periodo (1580-1594) e in 21 nel secondo (1595-1666). Nella prima fase, quando ancora le disposizioni romane non erano pervenute, su 22 accusate ne furono torturate 15; nella fase successiva, su 57 inquisiti, ne furono torturati 31 (un uomo e 30 donne), ma soltanto 19 su disposizione del Sacro Tribunale, 4 in un processo vescovile e 8 in tre processi laici.

 

Le cifre senesi suggeriscono dunque che siamo in presenza di una disapplicazione progressiva del ‘rigoroso esame’ da parte dell’Inquisizione. Nel Seicento, inoltre, le norme stabilite a moderazione della tortura confluirono nei manuali per inquisitori: un esempio è il Sacro Arsenale di Eliseo Masini. Vi si continuò anche a dibattere se la resistenza del sospettato alla tortura comportasse il riconoscimento della sua innocenza; se l’imputato potesse appellarsi contro la decisione di ricorrere alla tortura; se e in quali casi chiedere il consulto di un medico; e si suggerì di attendere le scelte della Congregazione del Sant’Uffizio prima di ripetere i tormenti, e di controllare l’eventuale uso di bollettini magici da parte degli inquisiti che così speravano di resistere al dolore (la demonologia raccontava che la strega poteva usare per sé e per altri il ‘maleficium taciturnitatis’, arma escogitata dal diavolo per impedire l’efficace corso della giustizia umana).

 

Su di un piano europeo, nel corso dei secoli XVII e XVIII l’applicazione della tortura nei processi di stregoneria venne sottoposta a critiche sempre più pressanti. Di enorme importanza risultarono le argomentazioni esposte nell’opera ‘Cautio criminalis seu de processibus contra sagas liber’ (1631) di Friedrich Spee, gesuita e professore di Teologia morale all’Università di Paderborn che cercò dall’interno della Chiesa di combattere i meccanismi dei processi di stregoneria ristabilendo le regole del ‘processus ordinarius’.

 

Adam Tanner e Paul Laymann, anch’essi gesuiti, pubblicarono trattati di teologia morale nei quali trattando delle procedure penali criticavano l’impiego della tortura. All’inizio del Settecento decisivi sarebbero risultati gli attacchi del pietista Christian Thomasius che, usando Spee, demolì l’affidabilità del supplizio proprio sul piano giudiziario, perché le vittime, non reggendo al cimento, finivano per denunciare degli innocenti. Ormai erano maturi i tempi per l’abolizione. Le prime decisioni ordinamentali arrivarono con Federico II di Prussia, nel 1740. In Italia grande influenza ebbero le riflessioni di Pietro Verri, le cui Osservazioni sulla tortura vennero pubblicate postume nel 1804. 

(Dizionario Storico dell’Inquisizione)








 

venerdì 3 gennaio 2025

L'IMPRESSIONE DEL GENIO (10)

 















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Prosegue più o meno 


negli stessi anni (11)












Vi ho dimorato anche io per molto tempo (lì al Jeu de Paume).

I miei occhi affranti hanno accompagnato tutti quei visitatori curiosi,

ammirati, entusiasti.

Li ho scrutati per tanto tempo, convinti di studiare un dipinto,

non sanno di vedere l'infinito.

Convinti di analizzare il 'tratto', o di interpretare un 'cenno nascosto',

...o distratto, inosservato, che dia una chiave di lettura diversa,

...per ciò che fui nominato...pazzo....





Non sanno per il vero che li sto scrutando.

Non vedono l'occhio inorridito di chi dal mondo

è per sempre fuggito.

Guardano l'orecchio, dopo quando me lo fui tagliato,

non per un amore strano,

ma per l'arte di un 'pazzo' che Dio ha comandato.

Ritrovarsi su questa terra e fuggire per campi e vento,

a catturare i colori,

e mostrare il mondo così come Lui lo vede,

non è cosa da poco,

non è preghiera del prete o fedele,

lode al Signore,

inchino sull'altare.






E' tremare al freddo di un Dio

che al mondo non sa più pregare,

e la preghiera ora dipinge

su un campo di ortiche,

che fu la corona per tutte le sue fatiche.

Se poi furono girasoli, mulini, strane stanze,

contadini e altri panorami, libri e dottori stanchi,

è perché la vita volli di nuovo amare,

per poterla sempre incorniciare e mostrare a tutti,

ora che mi guardano.....

che la stessa fine ho ritratto

se pur 'parabola' non ho narrato.






Volli provare a mutar la 'parola' in tratto strano

perché ci furono quelli che per sempre l'hanno intesa

e dicono anche capita,

poi, invece, altri vi lessero un altra fine,

ed ancora ...coloro che interpretarono un diverso significato,

ed alla fine, se pur profeta nel bene arrecato,

colsi ortica su quel campo seminato.

Così volli provare a confessare il dolore immane

che si prova a navigare in codesto mare.






I tratti, son per questo così diversi,

non perché è la mia mente che vacilla....

...in mezzo a tutta questa gente ben nutrita,

ma bensì perché non navighiamo sullo stesso mare.

Forse vorrei sussurrarlo all'orecchio,

proprio di quello,

che ora mi guarda così ammirato,

sono io lo Straniero,

non te con il tuo accento,

l'occhio fiero, ed il fazzoletto a portata di mano






per asciugare il calvario di quel tratto che osservi

e una lacrima che scende ...piano;

una pennellata distratta mentre mi sudava la mano;

un occhio lucido che inganna la vista;

un freddo in quella stanza che illumina un'altra vita;

un tremore e un fremito improvviso;

tutto il vento che ho catturato

mentre gli altri per 'pazzo' mi coloravano.

Un brivido e un nulla come un'isola improvvisa,

se pur la sala è piena,

era la notte davanti alla mia preghiera,

che vista su il mondo ....era.






Molte volte mi sono ritratto,

per vedere tutti i volti come tanti girasoli,

mi girano attorno,

li scruto non visto,

come un segreto mai rivelato dalle tante vite

che in segreto....ho dipinto e raccontato,

mutando la parola detta e non detta,

che mai sapeva di peccato,

ma dal mondo fu trascinata fin dentro un cortile,

...che aspettava solo...la fine....






Piansi anch'io....davanti ad un quadro...

e fin dentro una stanza l'ho trascinato,

per taluni fu un inutile calvario,

ma ora in quell'occhio lucido

che inganna di nuovo la vista,

abbiamo scoperto il nostro eterno .......sudario....

(la vita è bella come quel quadro ...narrato...).

(Giuliano Lazzari per Vincent)








 (Arles, attorno al 7 febbraio 1889)

Mio caro Theo, dal momento che il mio equilibrio mentale era assolutamente sconvolto, sarebbe stato vano tentare di scriverti per rispondere alla tua bella lettera… Proprio oggi sono tornato temporaneamente a casa, speriamo bene…
Pare che la gente di qui abbia una leggenda che la induce a temere la pittura (ed amare la volgarità più inetta…), ed in città abbiamo parlato di tutto questo. So che è lo stesso anche in Arabia, eppure abbiamo una quantità di pittori in Africa, no? Il che prova che con un po’ di fermezza si possono modificare simili pregiudizi o quantomeno che uno può dipingere.
Per sfortuna, però, io sono molto portato a lasciarmi suggestionare, a far mie le credenze altrui e a non prendermi sempre gioco del fondo di verità che può esserci nell’assurdo. Anche Gauguin, del resto, è così, come avrai potuto constatare tu stesso, e anche lui era oppresso al pari di me, durante la sua permanenza, da non so quale inquietudine.
Io, ormai, avendo soggiornato qui per oltre un anno, avendo sentito pressoché tutto il male possibile sulla mia persona, di Gauguin, della pittura in genere, perché non dovrei lasciare le cose come stanno, aspettando qui quel che succederà?
Forse che potrei finire in qualche posto peggiore di quello in cui sono già stato due volte, in cella d’isolamento?
Il vantaggio che ho qui è che – come direbbe Rivet – qui ‘sono tutti malati’, sicché perlomeno non mi sentirò solo.  Poi, come ben sai, a me piace moltissimo Arles, per quanto Gauguin abbia assolutamente ragione di definirla la più sporca città di tutto il sud.
Tanti saluti a Gauguin, spero che mi scriva, gli scriverò anch’io…(*)




(*) Il 26 febbraio, Salles scrive un’altra volta a Theo:
‘…il vostro povero fratello è di nuovo ricoverato all’ospedale. Come avrete senz’altro saputo da lui stesso, era tornato a casa da qualche giorno. E nondimeno, tutto nel suo comportamento e nei suoi discorsi, faceva temere che il miglioramento costatato fosse soltanto apparente. Questo timore manifestato da tutti s’è fin troppo tradotto in realtà. Una petizione firmata da una trentina di vicini segnala ora al signor Sindaco il disagio che comporta lasciare quest’uomo completamente libero, e adduce fatti a sostegno. Il commissario centrale, al quale il foglio è stato trasmesso, ha subito fatto portare vostro fratello all’ospedale con esplicita raccomandazione di non lasciarlo uscire’. 
Quella miserevole petizione afferma in effetti che il suddetto Vincent… ha da tempo e ripetutamente dato prova di non essere in possesso delle proprie facoltà mentali; e di lasciarsi andare ad eccessi nel bere dopo i quali si ritrova in uno stato di sovreccitazione tale che non sa più quel che fa e quel che dice…
Appare chiaro che per iniziativa di pochi individui senza scrupoli (i coniugi Crevelin, bottegai similmente senza scrupoli, altri inquilini della casa gialla, e l’amministratore…), i vicini si sono fatti montare la testa. La petizione dà luogo ad una parodia d’inchiesta; alcune deposizioni (cinque, due delle quali si limitano a confermare le altre tre) inconsistenti ma velenose false e calunniose vengono oculatamente raccolte e il commissario di polizia, manifestatamente sfavorevole a Vincent, il 3 marzo può esprimere il parere: ‘è il caso di ricoverare quest’alienato in un ospedale speciale ed i suoi beni messi all’asta giudiziari così che i suoi calunniatori ne possano godere frutti e privilegi’.
Soltanto l’opposizione di menti più aperte – il reverendo Salles, il dottor Rey – consentirà di evitare un ricovero d’ufficio.
Dal 22 febbraio, Vincent non ha più scritto.




Dopo la ‘fuga’ di Gauguin, dopo l’annuncio del prossimo matrimonio di Theo, il ripudio da parte dell’intero vicinato nonché del borgo abitato, esaspera la sua solitudine. Soltanto il 19 marzo, ricevendo una lettera del fratello, Vincent riprende la penna: ‘Mio caro fratello, m’è parso di intravedere nella tua bella lettera tanta fraterna angoscia rattenuta che mi sembra mio dovere rompere il silenzio. Ti scrivo in pieno possesso delle mie facoltà mentali e non come un pazzo ma da quel fratello che conosci. Ecco la verità. Un certo numero di persone di qui hanno inviato al sindaco una petizione (c’erano più di 80 firme) indicandomi come un individuo indegno di vivere in libertà o qualcosa del genere. Il commissario di polizia o il commissario centrale ha allora dato ordine di ricoverarmi di nuovo. Mi hanno privato anche di alcune delle mie tele…
Sta di fatto che da giorni sono sotto chiave e chiavistelli e guardiani in isolamento, senza che la mia responsabilità sia provata o perlomeno provabile. Va da sé che nel mio intimo ho molto da ridire su tutto questo. Va da sé che non riesco ad arrabbiarmi e che in un caso simile, se chiedessi scusa, sarebbe come autoaccusarmi. Volevo solo avvertirti, riguardo alla mia liberazione, che in primo luogo io non te la chiedo, perché sono convinto che tutta l’accusa sarà ridotta a niente. Voglio solo dire che troveresti difficile liberarmi. Se non tenessi a bada la mia indignazione, sarei giudicato immediatamente pazzo furioso. Aspettiamo con pazienza; del resto, le emozioni forti possono soltanto far peggiorare il mio stato. Ecco perché ti invito con la presente a lasciar perdere, a non metterti in mezzo. Devi renderti conto che la ragione con questa gente non può nulla…
A maggior ragione perché capirai che io, pur essendo assolutamente calmo al momento, posso facilmente ricadere in stato di esaltazione in seguito a nuove emozioni morali. Ora pui ben capire quale colpo sia stato per me rendermi conto che c’erano qui delle persone tanto vili da mettersi in così gran numero contro un solo individuo e per di più malato…’.