giuliano

domenica 4 aprile 2021

STABILITA' (Seconda parte) (11)

 










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Il racconto completo (12)


& altri racconti della domenica: ovvero NEVER IN MY NAME 








Benton si alzò e raggiunse la porta. Come tutte le altre, anche quella si spalancò al suo tocco, e lui passò negli Uffici Controllo. Mentre la porta si chiudeva alle sue spalle, il Controllore urlò piuttosto rabbiosamente: — Non so cosa lei stia combinando, ma sa qual è la pena per chi altera la Stabilità!

 

— Temo che la Stabilità sia già alterata — rispose Benton, e proseguì.

 

Gli Uffici erano giganteschi. Guardò giù dalla passerella su cui si trovava: sotto di lui, mille uomini e donne si affaccendavano attorno a macchine sibilanti, efficienti. Inserivano nelle macchine risme di schede. Molti lavoravano alle scrivanie; battevano a macchina fogli di informazione, compilavano grafici, sistemavano schede, decodificavano messaggi. Sulle pareti, grafici stupendi venivano modificati in continuazione. L’aria stessa vibrava della vitalità del lavoro che veniva condotto lì, del ronzio delle macchine, del ticchettare delle macchine per scrivere, e il mormorio delle voci si fondeva in un suono tranquillo, soddisfatto. E quell’enorme macchina, il cui funzionamento quotidiano costava innumerevoli dollari, aveva una sola parola d’ordine:

 

Stabilità!




Lì, la cosa che teneva assieme il loro mondo viveva. Quella stanza, quelle persone che lavoravano sodo, gli uomini infaticabili che riordinavano le schede nel mucchio contrassegnato dall'etichetta ‘da esaminare’, funzionavano tutti assieme, come una grande orchestra sinfonica. Una sola persona stonata, una sola persona fuori tempo, e l’intera struttura avrebbe tremato. Ma nessuno incespicava. Nessuno si fermava o commetteva errori. Benton scese una rampa di scale, fino alla scrivania dell'addetto alle informazioni.

 

— Mi dia tutte le informazioni disponibili su un’invenzione brevettata da Luigis Robert Benton, 34500-D — disse. L’impiegato annuì e lasciò la scrivania. Tornò pochi minuti dopo con una scatola di metallo.

 

— Contiene i progetti e un modellino funzionante dell’invenzione — disse. Mise la scatola sulla scrivania e la aprì. Benton fissò il contenuto. Al centro c’era un piccolo macchinario molto complesso. Sotto, uno spesso mucchio di fogli di metallo sui quali erano incisi schemi.

 

— Posso prenderla? — chiese Benton.




 — Se lei è il proprietario — rispose l’impiegato. Benton gli mostrò la tessera d’identità. L’impiegato la studiò e la controllò coi dati riportati sull’invenzione. Alla fine annuì, in segno d’approvazione, e Benton chiuse la scatola, la raccolse, e lasciò in fretta l’edificio da un’uscita laterale.

 

Dall’uscita laterale sboccò in una delle vie sotterranee più ampie, un turbinio di luci e veicoli. Individuata la propria direzione, si mise a cercare un’auto pubblica che lo riportasse a casa. Ne arrivò una, e lui salì a bordo. Dopo qualche minuto di viaggio, cominciò a sollevare con cautela il coperchio della scatola, e guardò dentro. Guardò lo strano modellino.

 

— Cosa ha con sé, signore? — chiese l’autista robot.




— Mi piacerebbe saperlo — rispose Benton, meditabondo. Due volatori apparvero al suo fianco e gli fecero cenni di saluto. Danzarono nell’aria per un secondo, poi svanirono.

 

— Per tutti i voli — mormorò Benton. — Ho dimenticato le mie ali.

 

Era troppo tardi per tornare a prenderle. L’automobile aveva cominciato a rallentare davanti a casa sua. Pagato l’autista, Benton entrò e chiuse a chiave, cosa che faceva di rado. Il posto migliore per studiare il contenuto della scatola era la sua stanza ‘da riflessione’, dove trascorreva il tempo libero quando non volava. Lì, fra i suoi libri e le sue riviste, avrebbe potuto osservare con comodo l’invenzione.

 

La serie di schemi fu per lui un completo enigma, e il modellino ancora di più. Lo scrutò da ogni angolo, da sotto, da sopra. Tentò di interpretare i simboli tecnici degli schemi, ma inutilmente. Non gli restava che una via. Trovò l’interruttore di accensione e lo premette.




 Non accadde nulla per quasi un minuto. Poi la stanza attorno a lui cominciò a ondeggiare e scomparire. Per un attimo, tremolò come una gigantesca massa di gelatina. Tornò solida per un istante, poi svanì.

 

Stava cadendo nello spazio come se si fosse trovato in un tunnel sterminato. Prese a contorcersi freneticamente, agitando le mani nelle tenebre in cerca di qualcosa a cui aggrapparsi. Precipitò per un tempo interminabile, impotente, spaventato. Poi atterrò, completamente incolume. Nonostante ciò che era parso a lui, la caduta non poteva essere stata troppo lunga. I suoi abiti di metallo non avevano una sola piega fuori posto. Si tirò su e si guardò attorno.

 

Il luogo dove era arrivato gli era sconosciuto. Era un campo… Non credeva che ne esistessero ancora. Acri di grano ondeggiavano, smossi dal vento, a perdita d’occhio. Eppure, Benton era certo che in nessun luogo di Terra crescesse ancora grano naturale. Sì, ne era sicurissimo. Si schermò gli occhi e guardò il sole, che però aveva lo stesso aspetto di sempre. Si incamminò.




Dopo un’ora, i campi di grano terminarono, ma al loro posto subentrò un’ampia foresta. Dai suoi studi, Benton sapeva che su Terra non esistevano più foreste. Erano morte anni prima. Dove si trovava, allora?

 

Riprese a camminare, questa volta più in fretta. Poi si mise a correre. Davanti a lui si alzava una piccola collina. Vi arrivò in cima. Guardò giù sul lato opposto e rimase esterrefatto. Non c’era nulla, soltanto una grande desolazione. Il terreno era completamente pianeggiante e spoglio. Non c'erano alberi o altri segni di vita sino a dove arrivava il suo sguardo; solo quella terra di morte, inaridita.

 

Si avviò sul fianco della collina, verso la pianura. Il terreno era secco e caldo sotto i suoi piedi, ma continuò ad avanzare lo stesso. Gradualmente, il terreno cominciò a dargli fastidio ai piedi, perché non era abituato alle lunghe camminate, e si stancò. Ma era deciso a continuare. Un sussurro esile nella mente lo costringeva a mantenere il passo senza rallentare.




— Non raccoglierlo — disse una voce.

 

— Invece lo raccoglierò — mormorò Benton, come fra sé e sé, e si chinò. Una voce! Da dove giungeva? Si guardò attorno, ma non c’era niente da vedere. Eppure la voce già aveva parlato, e per un attimo lui aveva avuto l’impressione che le voci uscite dal nulla fossero una cosa perfettamente naturale. Esaminò l’oggetto che stava per raccogliere. Era un globo di vetro, grande all’incirca quanto il suo pugno.

 

— Distruggerai la tua preziosa Stabilità — disse la voce.

 

— Niente può distruggere la Stabilità — rispose automaticamente lui. Il globo di vetro era fresco e gradevole nella palma della mano. Conteneva qualcosa, ma il calore emanato dall’astro in cielo traeva riflessi danzanti dal globo, e Benton non era in grado di capire esattamente cosa ci fosse all’interno.

 

— Stai lasciando che la tua mente venga controllata da cose malvage — gli disse la voce. — Rimetti giù il globo e vattene.




— Cose malvage? — chiese lui, sorpreso. Faceva caldo, e cominciava ad avere sete. Fece per infilare il globo in una tasca della giacca.

 

— Non farlo — ordinò la voce. — È proprio questo che vuole da te.


Appoggiato contro il suo petto, il globo gli dava una sensazione gradevole. Gli trasmetteva un senso di frescura che lo proteggeva dal calore assillante del sole. Cosa stava dicendo la voce?

 

— Sei stato richiamato nel tempo da quella cosa — spiegò la voce. — Adesso le obbedisci senza porti domande. Io sono il suo guardiano. La custodisco da quando è stato creato questo tempo-mondo. Vattene, e lascia il globo come lo hai trovato.

 

Sì, nella pianura faceva davvero troppo caldo. Benton avrebbe voluto andarsene. Adesso, il globo lo stava sollecitando a ripartire, ricordandogli il caldo che scendeva dall’alto, l’aridità della bocca, il formicolio alla testa. Si incamminò, stringendo a sé il globo, e udì il gemito di disperazione e furia della voce fantasma...


(Il racconto completo)

 






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