giuliano

martedì 22 giugno 2021

(l'antropologo) & I DIVERSI (2)

 










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Circa la passeggiata dell'antropologo


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I buffoni di corte 








Quando Lynda Dematteo, antropologa francese che ha condotto una ricerca presso la sede bergamasca della Lega, in una discussione con il segretario locale dichiara con sincerità di non condividere le idee razziste del partito e ricorda che il richiamo ai celti evoca il mito ariano, il segretario le risponde:

 

E allora i bretoni sono nazisti? Gli irlandesi sono nazisti?

 

Ma gli italiani non sono celti. Bretoni e irlandesi hanno lingue celtiche,

 

…ribatte lei.

 

Ma come? Scusami, Bergamo è una città celtica!




Ecco un ottimo esempio delle connessioni evocate da Amselle, che sembra confermare quanto afferma Benedict Anderson, ossia che le comunità devono essere distinte non dalla loro falsità/genuinità, ma dallo stile in cui esse sono immaginate. Ciò che conta non è tanto la veridicità delle affermazioni e delle ricostruzioni storiche, quanto piuttosto la loro efficacia sul presente. Tale efficacia dipende dalla funzione che tali narrazioni possono svolgere nel presente e dall’influenza che riescono a esercitare sulla gente.

 

Occorre pertanto una certa dose di fantasia se non addirittura di menzogna, per convincere la gente di fare parte di uno stesso popolo ed edificare l’immagine di una nazione.

 

Qualsiasi nazione, soprattutto se ancora deve nascere, come la Padania.

 

Perciò nonostante la maggior parte delle affermazioni leghiste legate alla storia e all’identità non abbia alcun riscontro, la cosa ha poca, pochissima importanza, sarebbe sbagliato pensare che certe dichiarazioni siano vanificate una volta appurata la loro insensatezza. Esse diventano socialmente vere in quanto finiscono per alimentare un’identità in chi le ascolta e le prende per buone.




Non ci si può limitare a valutare la veridicità o meno di tali espressioni, ma la loro efficacia politica. In questo senso, per esempio, la Padania esiste solo nelle retoriche leghiste, corroborate da atti simbolici come il Giro ciclistico della Padania, l’elezione di Miss Padania. Si tratta di una scommessa, ma se questa scommessa viene vinta, la Padania esiste. Esiste perché è soprattutto un concetto culturale. Non importa se non se ne trovano tracce nel passato e nessuno in nessuna epoca mai si sia sentito padano, come dice Roberto Biorcio, attento studioso dei fenomeni leghisti:

 

la Padania esiste, perché esiste la Lega, non viceversa.

 

A differenza di quando accaduto in passato la costruzione della Padania, o meglio la sua invenzione, come dichiara con disarmante sincerità il titolo di un libro di Gilberto Oneto, uno dei primi ideologi della Lega, non è opera di élites intellettuali, impegnate seriamente nella ricerca di elementi che possano legittimare le aspirazioni di un ipotetico popolo padano. Si riscontra qui un primo elemento di diversità: rispetto ai nazionalismi classici, manca quasi del tutto l’apporto intellettuale. La retorica dominante è fatta di simboli abborracciati e di linguaggi volutamente, marcatamente e a volte forzosamente popolari, nel senso più basso, quasi triviali.




Se molti nazionalisti del passato volgevano lo sguardo alle civiltà classiche, è proprio contro la civiltà dell’antica Roma che le élites leghiste, assai più politiche che culturali, lanciano i loro peggiori strali. La loro fascinazione si esprime totalmente nei confronti dei popoli pre-romani, oppure, con una frattura storica ritenuta insignificante, dei Comuni medievali. La Lega sembra ricercare antenati mitici, senza però nemmeno sentire troppo il bisogno di definirli o individuarli.

 

Lasciata la discendenza culturale, si arriva all’eredità genetica, attribuendole la capacità di determinare i tratti culturali dei diversi popoli.

 

I padani sarebbero culturalmente diversi dagli italiani (sic), perché questi sono gli eredi degli etruschi, dei greci e delle popolazioni italiche che si erano stanziate nel Meridione, questa divisione è oggi puntualmente confermata dalle più moderne e attendibili indagini scientifiche che mostrano una penisola divisa in tre grandi aree dove dominano rispettivamente il residuo genetico dei liguri, degli etruschi e dei greci.




Premesso che non vengono mai citate le moderne e attendibili indagini scientifiche che sosterrebbero la teoria leghista, in tutta la retorica leghista c’è un forte richiamo al mondo contadino e in particolare a quello montanaro. Le valli alpine, in particolare quelle bergamasche, costituiscono lo zoccolo duro della fede leghista e uno dei più ampi e consolidati bacini elettorali. Inoltre, la montagna costituisce una sorta di marchio di genuinità: impadronendosi della retorica sui montanari forti e sinceri, semplici, fieri e generosi, rudi ma buoni, la Lega si costruisce un retroterra fatto di radici popolari, di costumi tradizionali dei bei tempi andati.

 

Non a caso in più di un articolo nei Quaderni Padani si sostiene la matrice alpina della Padania e dei suoi popoli e si esaltano i valori della gente di montagna. Il Po, in questo caso, risale i suoi affluenti, culturalmente parlando, per andare a ritrovare nelle purezze alpine popoli da pensare come antichi.




L’elaborazione identitaria della Lega è il risultato di un bricolage culturale iconoclasta e razzista, la costruzione del nemico si gioca quindi non sul terreno delle idee e della politica, ma sulla sua origine o sulla sua presunta cultura, pensata però in modo deterministico, come si pensa alla razza, vincolata al territorio d’origine e immutabile. Il primato va non al prodotto di un’elaborazione politico-culturale, ma all’autoctonia.

 

È nota la distinzione che gli antichi greci facevano tra civilizzati – coloro che parlavano correttamente il greco – e barbari (letteralmente balbuzienti), cioè gli stranieri che non conoscevano bene quella lingua. Queste due categorie non erano però ereditarie ed erano, invece, avocabili. Un barbaro che avesse imparato bene il greco non veniva più considerato tale; analogamente, il figlio di un barbaro, di quelli che adesso chiameremmo di seconda generazione, non si portava dietro il marchio del padre, purché sapesse parlare correttamente.

 

La distinzione tra greci e barbari si fondava sulla lingua, non sul colore della pelle o su altri tratti somatici. Si trattava di un fatto culturale, un gap colmabile e comunque non trasmissibile. Il legame fra terra e sangue rimanda, invece, a una concezione tribale e fissista: si nasce e non si diventa. L’individuo appare come condannato dalla nascita a essere ciò che la sua terra genera, come un prodotto naturale, d.o.c. Ecco allora che la metafora delle radici risulta quanto mai appropriata a questo tipo di discorso.




Siamo nel mondo della natura, di cui non si può e non si deve modificare il corso. La costruzione dell’altro si basa su un noi naturale, quando invece anche i noi sono costruiti: non sono dati in natura e nemmeno sono dati nella storia.

 

Invece, secondo Bossi,

 

i popoli sono il frutto naturale della famiglia naturale. E tutto ciò che è naturale è anche morale.

 

Ecco un altro sintomo di tribalismo.

 

Naturalizzando l’essenza umana, la cultura, e vincolandola alla terra, il noi diventa inevitabilmente un non-loro.

 

Trattiamo bene la terra su cui viviamo: essa non ci è stata donata dai nostri padri, ma ci è stata prestata dai nostri figli, recita un proverbio masai.




Al contrario, nella retorica leghista dell’autoctonia si evoca una terra lasciata dagli antenati e si sottintende un diritto di possesso inalienabile e di libero utilizzo. Questo può valere per la proprietà privata, ma una nazione non è fatta solamente di spazi privati, ma anche e soprattutto da beni pubblici e comuni.

 

L’ideologia leghista mescola elementi etnici a concezioni aziendali, care ai tanti piccoli imprenditori che costituiscono buona parte del suo elettorato. Nella piccola impresa i rapporti gerarchici sono ben chiari e definiti. Il padrone è il proprietario e gestisce la sua azienda senza intermediazioni. La presenza sindacale è scarsa, il rapporto datore di lavoro-dipendente è diretto, in molti casi fondato su relazioni di lunga conoscenza e di legami che vanno al di là del contratto aziendale.

 

Non ci sono la spersonalizzazione della grossa industria, né le istituzioni preposte a gestire i rapporti tra due funzioni come direzione e dipendenti. Questa concezione tribal-privatistica della terra e della cosa pubblica è perfettamente sintetizzata dallo slogan ‘padroni a casa nostra’, caro a molti leghisti, che ribadisce il diritto di possesso e di comando su una terra per il fatto di esserci nato e di discendere da generazioni nate e vissute lì. Un concetto che, corroborato da certe retoriche politiche, si traduce in un’insofferenza verso qualsiasi regola che limiti l’iniziativa locale.




Il paesaggio e l’ambiente sono beni comuni e la loro tutela pone dei vincoli, che spesso vengono mal sopportati dalle amministrazioni locali.

 

Qui emerge una contraddizione tra la retorica leghista e la pratica: da un lato si esalta il valore delle radici, della tradizione e del territorio; dall’altro possiamo vedere come, per esempio, i piccoli imprenditori del Nord-Nordest, protagonisti di un boom tardivo, non si siano fatti molti scrupoli a distruggere quel territorio tanto celebrato, facendosi forza dell’idea che a loro è dovuto.

 

Al lombardo e al veneto che lavorano dieci-dodici ore al giorno tutto deve essere concesso, nessun vincolo deve limitare chi lavora per arricchirsi. La concezione della Lega è infatti assolutamente antropocentrica: la natura esiste per essere asservita all’uomo, o meglio al profitto. Così accade che da una parte si devastino province intere con capannoni e magazzini, e dall’altra gli stessi protagonisti di tali interventi, finalizzati solo al guadagno, rimpiangano i bei tempi andati di una terra contadina dove si parlava in dialetto e non c’erano stranieri. Quegli stessi stranieri che in gran parte contribuiscono alla costruzione di tale ricchezza.

 

I masai guardano al futuro per difendere il presente; al contrario, da noi si guarda al passato per distruggere il futuro.

 

(M. Aime)






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