giuliano

domenica 6 marzo 2022

KULTURA & CIVILTA' (41)

 
























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D'una e più smarrite culture 


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kultura & civiltà (42) 


& Trionphus mortis (43)






 

Le espressioni, delle quali vogliamo trattare, sono le parole beschaving (civiltà, in olandese), Kultur e Zivilisation, insieme con alcune varianti tra le quali l’italiano “civiltà” occupa un posto particolare.

 

Qui si esaurisce quasi tutta la ricchezza linguistica per il moderno concetto di civiltà, quando si trascurino le lingue, che, come il finnico, a questo concetto hanno dato una nuova denominazione coi propri mezzi linguistici; è lecito però escludere queste lingue tanto più che nel formulare il concetto di civiltà esse si appoggiano alle denominazioni dell’Europa occidentale. Indicando la civiltà con la parola beschaving la lingua olandese appare del tutto isolata.

 

Come la maggior parte delle espressioni equivalenti nelle lingue che circondano il territorio linguistico olandese, anche questa parola è nata molto tardi. Etimologicamente essa si scosta da parole come Kultur e Zivilisation, perché non contiene né il concetto del coltivare o piantare, né quello dell’esser civile, ma può considerarsi piuttosto una traduzione della parola ‘eruditio’. Il legame, però, fra la parola beschaving e il concetto del raschiare o lucidare (in olandese: schaven) è andato perduto da gran tempo per gli stessi olandesi. Usando la parola beschaving quel legame non è più sentito. Se si può fare affidamento sul ‘Woordenboek der Neederlandsche Taal’ (Dizionario della lingua olandese), il verbo beschaven aveva in origine il significato di ‘raffinare’ o ‘nobilitare’.




[…] Nella storia di questa parola si arriva a una nuova fase quando è usata nel senso di un fenomeno storico che si presenta spesso insieme col progresso, così Jacob Geel parla di Grieksche beschaving (civiltà greca) e Groen van Prinsterer dice a un certo punto che la rozzezza del germanesimo si vide costretta ad arretrare di fronte alla Romeinsche beschaving (civiltà romana).

 

Col sottotitolo ‘Studies over de Noordnederlandsche beschaving in de Zeventiende Euuw’ (studi sulla civiltà dell’Olanda settentrionale nel secolo XVII) che Coenraad Busken Huet scelse per il suo Het land van Rembrandt ci siamo avvicinati a grandi passi all’uso odierno e all’odierno significato della parola olandese beschaving per ‘civiltà’.

 

Varrebbe la pena di stabilire quando questa parola abbia raggiunto nella lingua d’uso un tale grado di oggettivazione da poter essere usata, come oggi avviene, anche al plurale. Assai meno semplice che la storia della parola bechaving, la quale permise alla lingua olandese di far a meno dell’espressione civilisatie e impedì che questa diventasse di uso comune, è la storia del francese civilisation, dell’inglese civilization e del tedesco zivilisation.

 

Dal punto di vista puramente linguistico civilisation è una formazione infelice, per non dire mostruosa. Come avvenne per la parola beschaving, anche qui l’uso del verbo (civiliser) precedette nel tempo l’uso del sostantivo da esso derivato. Ma non si può dire che i verbi francesi terminanti in – ‘iser’, come per esempio ‘indemniser’, ‘cotiser’, ‘fraterniser’, siano formazioni felici. Essi non risalgono oltre il secolo XVI e sono dunque di origine relativamente recente; sono dovuti a una forma verbale greca terminante in – ‘ixein’ e di fatto rara.




[…] Ci fu un tempo in cui la lingua tedesca era più che in seguito disposta ad accettare parole francesi e perciò si usò per molto tempo anche in tedesco il vocabolo zivilisation. Da un pezzo ormai questo è sopraffatto e per così dire squalificato da un’altra parola, cioè dalla parola Kultur. Cultuur nella forma olandese ha sostituito, dall’inizio del secolo XX, il più anziano vocabolo beschaving in misura preoccupante.

 

…La lingua è una parte dello spirito e questo non ammette ordinanze o costrizioni, già il fatto che da cultuur si può derivare un aggettivo culturel (come avviene nel tedesco, nel francese, nell’inglese, nell’italiano, mentre beschaving non può essere che sostantivo) rende indispensabile anche in olandese il nome cultuur, perciò ho abbandonato il tentativo purista di usare per “civiltà” esclusivamente la parola beschaving e uso cultuur e beschaving a piacimento come sinonimi. Il vocabolo Kultur si è sviluppato specialmente nel tedesco e vi ha una notevole importanza.

 

La parola cultura era usata figuratamente già nell’antichità per cose spirituali; in Cicerone si legge per esempio: cultura animi philosophia est.

 

Si può dire che la parola Kultur possa incorporarsi senza sforzo in quasi tutte le lingue che ne sentano il bisogno. Kultur aveva un rapporto significativo con l’affine parola Kultus, derivata della medesima radice colere, che significa coltivare o piantare.

 

All’esame delle denominazioni usate per il concetto di civiltà va abbinato il quesito circa il contenuto del concetto stesso.




Che cos’è la civiltà?

 

A quali presupposti è legato questo fenomeno?

 

Come si può circoscriverne e definirne il concetto?

 

Noi parliamo tanto (fin troppo) di civiltà che raramente ci rendiamo conto di quanto sia difficile dire con esattezza che cosa intendiamo per civiltà e quali elementi essenziali ne costituiscano il fenomeno. Quasi sempre ci sentiamo ancora soggiogati dal tono risoluto con cui Jacob Burckhardt indicò la trinità di Stato, Religione e Civiltà quale somma delle potenze sociali che dominano e determinano la storia con la loro reciproca efficacia. Le Considerazioni sulla storia universale che il Burckhardt scrisse su questa traccia furono pubblicate solo nel 1905, dopo la morte dell’autore, e ricevettero il titolo dal curatore della pubblicazione. Ma la trinità di Stato, Religione e Civiltà ideata dall’autore è realmente così chiara e completa come pensava il grande svizzero?

 

 Queste tre forme fenomeniche dell’umana società sono davvero le componenti che nella loro azione reciproca costituiscono la realtà storica e, se questo è vero, hanno questi tre nomi ugual valore?

 

Non possiamo reprimere un dubbio.

 

Le parole Stato e Religione indicano indubbiamente due coefficienti ben delineati che riconosciamo subito dovunque li incontriamo. Civiltà invece è sempre un concetto fluttuante. Del resto neanche il Burckhardt ha tentato di precisare attraverso una definizione esatta che cosa voleva che s’intendesse per civiltà. Che nelle sue concezioni prevalga il fatto estetico, non sorprenderà nessuno; va notato però come egli trascuri quasi interamente il lato economico-sociale. Chiunque imprenda a determinare nei particolari il quadro che egli ebbe a fissare per una determinata civiltà troverà che anche per lui la civiltà consiste in un accordo armonioso di valori spirituali.




Sappiamo fin troppo bene che un alto livello di perfezione scientifica e tecnica non è affatto garanzia di civiltà. La civiltà esige un saldo ordine giuridico, una legge morale e una norma umanitaria come fondamenti di quella comunità che la civiltà rappresenta; oltre questo però la nostra idea di una data civiltà è dominata anzitutto dalle sue conquiste estetiche, dalle sue prestazioni sul terreno delle arti e delle scienze. Per quanto abbiam o respinto il pensiero arditamente predicato dallo Spengler, che cioè le civiltà siano da concepire e da descrivere come quantità mistiche con una vita propria, rimane pur sempre il serio quesito circa il grado di realtà che spetta al concetto di civiltà.

 

Una civiltà, come per esempio quella greca, è un fenomeno di ugual senso e di uguale determinatezza come, poniamo, lo Stato ateniese o il culto di Apollo?

 

Evidentemente no.

 

Per quanto il nostro concetto della civiltà greca sia un mosaico di molte e svariate cose concrete; visioni di opere architettoniche e di sculture, reminiscenze di versi sonori e di personaggi dell’Iliade e delle tragedie greche, di particolari insomma vivi alla vista e all’udito: tuttavia il nostro concetto di questa civiltà rimane impreciso e sbiadito. Benché il fenomeno di una civiltà che immaginiamo sia per noi una realtà che è esistita una volta o esiste magari ancora, non lo si può considerare come entità. La civiltà è e rimane un’astrazione, una denominazione che noi diamo a un fenomeno storico. Nemmeno con la parola idea possiamo ridare l’essenza della civiltà: idea infatti è l’espressione di una immagine spirituale non complessa che il pensiero può afferrare in un istante.




Di fronte a ogni civiltà noi sentiamo il bisogno di oggettivarla e di vederla come cosa concreta, come totalità storica; questo desiderio però, data la limitazione della nostra facoltà del pensiero e della nostra capacità di espressione, resta sempre insoddisfatto.

 

Qui vogliamo interrompere le nostre considerazioni sul concetto e sulle denominazioni della civiltà e dedicarci un poco alle questioni dell’ascesa e della decadenza delle civiltà. Anche a questo p u n to la lingua ci avverte che non potremo sottrarci mai al potere delle formule metaforiche. Senza immagini come salita, discesa e caduta non riusciamo a muovere un passo e ognuna di queste espressioni presuppone già quella concretezza e quella solidificazione nelle varie forme della vita organica che cerchiamo invano di evitare.

 

Il linguaggio comune usa senza scrupoli l’espressione ‘civiltà occidentale’ e noi abbiam o la tendenza a vedervi la civiltà di quell’ambiente in cui noi abitanti dell’Europa o dell’America viviamo. È chiaro che l’espressione ‘civiltà occidentale’ non può avere di fatto un significato utile,  come il contrario, la denominazione ‘civiltà orientale’, dev’essere priva di un preciso significato. Le civiltà sono sempre proprie di determinati regni o Stati o popoli o, quando si pensino nel tempo, sono legate a determinate epoche storiche; un punto cardinale, una zona terrestre o un continente non hanno mai costituito la cornice di una data civiltà.




Tuttavia è molto difficile staccarsi da questa contrapposizione concettuale di Oriente e Occidente. Essa si impone continuamente e, cosa strana, ci impressiona assai più che l’antitesi di Nord e Sud.  Benché il rapporto fra Oriente e Occidente non possa essere un ’opposizione di due civiltà omogenee, vale la pena di constatare per sommi capi come nel corso della storia sia sorta l’idea di un tale dualismo. La linea di frontiera fra Oriente e Occidente è sempre arbitraria e dipende in ogni caso dal luogo in cui il quesito è formulato. Anche le espressioni usate per l’Oriente e l’Occidente dipendono dal punto di osservazione.

 

[…] Il nome e il concetto di ‘Occidente’ assumono, per farla breve, un significato solo quando vi si comprenda la cristianità latina che durante il primo Medioevo si stacca da quei paesi che non vedevano in Roma il fondamento della Chiesa cristiana. Fino a un certo punto si può considerare un’unità quel gruppo di paesi occidentali che riconoscevano l’autorità di Roma. Questo Occidente non aveva però trovato i suoi limiti rispetto al resto del mondo in base a caratteri distinti naturali, geografici o etnografici. Cause fortuite invece fecero sì che i polacchi, gli ungheresi, i cechi e gli slovacchi, come pure i croati e gli sloveni cadessero dal punto di vista ecclesiastico sotto l’autorità di Roma e appartenessero quindi alla cristianità latina, mentre i serbi e i bulgari furono accolti nella Chiesa greca. Il processo di differenziamento culturale in Oriente e Occidente si trascinò per parecchi secoli prima di diventare un fatto compiuto verso la metà del secolo XI con la definitiva separazione della Chiesa romana dal patriarcato di Costantinopoli. La linea di divisione tra l’Oriente e l’Occidente passava dunque nel Medioevo attraverso il mondo cristiano.




[…] I concetti di ascesa e discesa della civiltà sono così ovvii al nostro metodo di studio che si direbbe di poter desumere dalla storia con certezza quasi matematica i fenomeni che essi esprimono. Ma quando si passa all’esperimento  e si confrontano alcuni periodi succedentisi si vede che la valutazione della civiltà mediante i concetti di salita e discesa non è facile come sembra. La cristianità latina o, se vogliamo, l’Occidente ha prodotto nei secoli che seguirono l’antichità una civiltà piena di giovanile energia creativa. Questa civiltà fu varia, secondo le diversità dei popoli che vi ebbero parte, ma fino a un certo punto poté considerarsi un’unità. Era un organismo spirituale omogeneo retto dalla Chiesa romana e fondato sulla sua lingua, il latino. Ogni importante creazione di questa civiltà era collegata con un dato paese o popolo; eppure il merito non fu, in fin dei conti, di quel dato paese o popolo, bensì di quegli uomini nella cui mente erano nate le idee creatrici affine simmetriche alla cultura.

 

Il secolo XVI ci sta davanti gli occhi sotto la luce di grandiose opere culturali attuate in quasi tutti i campi, il secolo reca l’impronta di innovazioni inaudite, di un’evidente maturazione spirituale, di un allargarsi dell’orizzonte del mondo conosciuto, di un sapere più approfondito e di un aumento della capacità di azione. Esso è talmente inondato dalla luce del Rinascimento e dell’Umanesimo, della Riforma e della Controriforma che vi scorgiamo istintivamente un’epoca di civiltà ascendente, citeremo  un altro elemento che, se non mancava del tutto prima del Cinquecento, era però rimasto nello sfondo della vita spirituale; lo studio appassionato dei segreti della natura che fece enormi progressi con Leonardo e si palesa chiaramente nelle visioni di un Paracelso e di un Cardano riboccanti di idee e fantasie.




Ma traendo questa conclusione non abbiamo ancora risposto al quesito che più importa nella constatazione di questa superiorità: gli uomini che nel loro complesso pur rappresentano la civiltà, erano allora più buoni, più savi, più giusti o più pietosi dei loro padri?

 

Erano meno crudeli, più fedeli e sinceri, e sapevano dominarsi meglio che i loro antenati?

 

Nessuno avrà il coraggio di rispondere di sì.

 

Il concetto di ascesa della civiltà ci sfugge appena ce ne serviamo riferendolo a tutta un’epoca. Se di questo concetto è lecito servirsi in qualche caso, lo si dovrebbe poter applicare almeno all'elemento più essenziale e nello stesso tempo più superficiale della comunità: alla vita statale. E proprio qui il secolo XVI segnerà alla prima occhiata un progresso innegabile rispetto al XV?

 

Se con altre parole gli Stati del Cinquecento e le comunità erano governati in modo più logico e razionale, arriviamo soltanto a risultati incerti e oscillanti.

 

[…] Nelle categorie di acquisto e perdita di civiltà si possono inserire senza difficoltà i fenomeni storici effettivi e visibili badando però che c’è una notevole differenza essenziale fra questi due gruppi. L’acquisto di civiltà si attua, per così dire, davanti ai nostri occhi in forma di singoli effettivi eventi. Le perdite di civiltà invece sono sempre una lenta trasformazione di situazioni. Esse appaiono soltanto al giudizio storico e questo le riconosce per perdite solo quando la modificazione è per chi giudica una diminuzione delle sue fonti spirituali.


(Prosegue...)









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