giuliano

venerdì 15 agosto 2014

IL RITORNO DEL FOLLE... SIMEONE (Eretici 6)


















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Il ritorno del folle... Simeone (Eretici 5)












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... Dell’anima non consiste nella sua resurrezione con il corpo, ma nella sua resurrezione dal corpo’.
Nell’abbandono di ogni rigido dualismo tra spirito e materia – e nella conseguente forte interdipendenza di anima e corpo tale da garantire anche a quest’ultimo, a prezzo di severissime privazioni, la beatitudine promessa – consisteva l’originalità del monachesimo cristiano così come nella sintesi operata tra pratiche spirituali filosofiche e motivi penitenziali di tradizione ebraica, rivissuti in forme nuove sia per il soccorso che essi presumevano della grazia divina, indispensabile alla crescita spirituale, sia per il potente valore salvifico loro attribuito.
Una salvezza da non intendersi limitata ai singoli anacoreti, ma che acquistava un più ampio e profondo significato sociale di testimonianza cristiana proficua a sé e agli altri, in cui si prefigurava, a ben vedere, una possibile ripresa di relazioni tra i solitari monaci del deserto e quelle città e campagne, sedi del male e del peccato, da dove erano fuggiti. 




A ciò si aggiunga che ad alcuni eletti il modello anacoretico non parve corrispondere abbastanza alla loro ansia di ascesi: solitudine e rinuncia ai beni mondani, tanto più se accompagnate dall’ammirazione del mondo cristiano, non sembravano sufficienti; per un più alto grado di santità occorrevano riso e disprezzo altrui nei loro riguardi. Donde la scelta assoluta di recitare la parte del ‘folle’ con il conseguente abbandono dell’eremitismo e il ritorno nella società, intenzionati – come affermava Simeone il Folle – ‘a prendersi gioco del mondo’ per liberarsi dell’ultima debolezza umana, la ‘vanagloria’.
Per molti cristiani la vita monastica divenne la via maestra verso la perfezione, tanto più auspicabile in quanto la Chiesa istituzionale appariva lacerata da contrasti, incline a compromettersi col secolo e bisognosa più che mai di intercessori di benedizione e di perdono, pronti a bilanciare con il rigore della propria penitenza, preghiere e digiuni un flusso di conversioni sovente superficiali.




Ma l’ascesi solitaria non fu la sola forma di monachesimo sperimentata in Egitto. Accanto a questo, per opera di Pacomio si affermò a partire dagli anni Venti del secolo IV, e con un successo immediato, un modello di vita cenobitica basato sull’abbandono della libertà individuale propria degli anacoreti a favore di un’organizzazione di tipo comunitario sotto la stretta obbedienza ad un abate che secondo rigide regole ne disciplinava minuziosamente l’esistenza spirituale e materiale.
Da allora i cenobi si moltiplicarono per tutto l’Egitto così come in Palestina, in Siria – sebbene in quest’ultima regione continuasse a prevalere l’anacoresi vissuta spesso con estremo rigore – e infine in Asia Minore dove, sotto l’impulso di Basilio di Cesarea, si accentuò il significato del vivere in comunione concepito come quadro normale dell’esperienza monastica. 




Suo presupposto principale fu che il monachesimo dovesse combinare la rinuncia ascetica con l’esercizio della carità evangelica, donde l’opportunità di sostituire alla vocazione eremitica, pericolosa per i tanti eccessi ed errori in cui il monaco poteva incorrere, il modello cenobitico in cui più fedelmente si rispecchiava l’ideale della primitiva comunità di Gerusalemme, quale erra presentata dagli ‘Atti degli Apostoli’, generosamente aperta verso i fratelli. 
Attraverso un’ampia serie di riflessioni e insegnamenti elaborati per garantire la ‘quiete’ esteriore e interiore dei monaci, Basilio si propose così di propugnare un equilibrio ideale di purificazione e di perfezione da raggiungere in cenobi di modeste dimensioni, grazie ad una vita rafforzata dalla preghiera e dall’umile accettazione delle attività manuali e arricchita dall’interesse per i classici della…. Filosofia Antica…..

(M. Gallina, potere e società a Bisanzio; Fotografie di  Alvaro Sanchez-Montanes)
















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