giuliano

mercoledì 14 settembre 2022

LA CULTURA DEL BRANCO (24)










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Tanto per cominciare, la preoccupazione di essere, e di restare, ‘in anticipo rispetto alle mode del branco’, cioè del proprio gruppo di riferimento, degli ‘altri significativi’, degli ‘altri che contano’, coloro dalla cui approvazione — o dal cui rifiuto — dipende il successo, o il fallimento.

 

Per dirla con Michel Maffesoli, ‘io sono colui che sono perché gli altri mi riconoscono come tale’, mentre ‘la vita sociale reale non è che un’espressione di sensi di appartenenza, che si succedono l’uno all’altro’ (Maffesoli, 2000, pp. 40-41). Per chi non riesce, in un modo o nell’altro, a ottenere il riconoscimento degli altri, l’ammenda — ovvero l’unica alternativa — è una sequela di rifiuti, o comunque di esclusioni.

 

Occorre ricordare, però, che in una società di consumatori, in cui i legami umani passano generalmente per il mercato dei beni di consumo, il senso di appartenenza non si ottiene eseguendo le procedure stabilite e sanzionate dalle ‘mode del branco’ a cui uno aspira, bensì tramite l’identificazione dell’aspirante, per metonimia, con il ‘branco’ stesso; il processo di autoidentificazione dipende, nel suo svolgimento e nei risultati che esibisce, da ‘segnali di appartenenza’ ben visibili, che di solito si ottengono nei negozi.




Nelle ‘tribù postmoderne’ (come Maffesoli preferisce ribattezzare le mode del branco della società del consumo), le figure emblematiche e i loro segnali di identificazione (gli indizi evocati dal modo di vestire e/o dai codici di condotta) rimpiazzano i totem delle tribù originarie. Essere in anticipo, nell’ostentare i segni delle figure emblematiche, delle mode del branco, è l’unica ricetta sicura per convincersi del fatto che il branco prescelto ci riconoscerebbe e ci accetterebbe senz’altro, se fosse al corrente della nostra esistenza. Rimanere in anticipo, d’altro canto, è l’unico modo per essere sicuri che il proprio desiderio di appartenere duri per tutto il tempo desiderato (ossia per convertire un permesso d’ingresso provvisorio in un permesso di soggiorno a tempo determinato, ma rinnovabile). Dopotutto, l’idea di anticipare gli altri porta con sé una chance di sicurezza, di certezza, di certezza di essere sicuri; proprio quel tipo di esperienza di cui la vita di oggi ci priva in modo tanto evidente e sofferto, nonostante il nostro desiderio di acquisirla.

 

L’idea di anticipare le mode del branco rispecchia la promessa di un grande apprezzamento, e di una domanda diffusa, da parte del mercato. Questo si traduce nella certezza del riconoscimento, dell’approvazione e dell’inclusione; o forse in un’offerta all’asta, che di fatto si riduce a una sfilata di emblemi: dall’acquisto degli emblemi, al pubblico annuncio della loro titolarità, sino a che il loro possesso non è un dato di pubblico dominio (e si traduce, a sua volta, in un senso di appartenenza).




L’idea di continuare ad anticipare il branco rappresenta invece una saggia precauzione, onde non dimenticarci che prima o poi gli emblemi di appartenenza con cui oggi ci identifichiamo andranno fuori mercato, per essere rimpiazzati da altri emblemi più nuovi. Si previene, così, il rischio di perdersi per strada, che poi si tradurrebbe, nel caso delle offerte di appartenenza mediate dal mercato, in un senso di rifiuto, di esclusione, di abbandono e di solitudine, e in ultima istanza in un penoso senso di inadeguatezza personale.

 

Mary Douglas, la cui celebre teoria ha smascherato i significati nascosti degli atteggiamenti dei consumatori, ha suggerito ‘che la teoria dei bisogni dovrebbe muovere dall’assunto che qualsiasi individuo abbia bisogno di certi beni per motivare altre persone a aderire ai suoi progetti […], i beni servono proprio per mobilitare gli altri’ (Douglas, 1988, p. 24). O almeno per darci la gradevole sensazione che sia stato fatto tutto ciò che andava fatto per ottenere questa mobilitazione.

 

In secondo luogo, il messaggio che ci arriva ha sempre una data di scadenza: attenti, lettori, varrà ‘per i prossimi mesi’, e non di più. È un aspetto che si accorda bene con la visione del tempo del divisionismo, fatta di istanti, di episodi di durata determinata, e di nuovi inizi. È un aspetto che libera il presente (che andrebbe esplorato e sfruttato appieno) dalle distrazioni del passato e del futuro, che avrebbero impedito la concentrazione e rovinato l’euforia della libera scelta. Ne deriva un duplice risvolto positivo: si è al contempo aggiornati e al riparo dal rischio di rimanere indietro in futuro (almeno per quanto riguarda il futuro prevedibile, se esiste una cosa del genere…). I consumatori più esperti avranno senz’altro modo di cogliere il messaggio, che li spingerà ad affrettarsi, rammentando loro che non c’è tempo da perdere.




Questo messaggio implica anche un assunto che è ancora più rilevante: per quanto si possa guadagnare, rispondendo solertemente al richiamo, non durerà per sempre. Quale che sia la garanzia che si acquista, sarà comunque necessario rinnovarla, una volta trascorsi i ‘prossimi mesi’. È pur sempre, e solo, un intervallo. In un romanzo che reca come titolo (appropriato) ‘Elogio della lentezza’, Milan Kundera rivela l’intimo legame che esiste fra velocità e oblio: ‘Il grado di velocità è direttamente proporzionale all’intensità dell’oblio’.

 

Perché mai?

 

Perché ‘se per accedere alle luci della ribalta è necessario lasciare in disparte le altre persone’, per accedere a quella ribalta di peculiare importanza, nota come ‘attenzione dell’opinione pubblica’ (o meglio, come attenzione di una platea destinata a essere riciclata in forma di consumatori), è necessario estrometterne gli altri oggetti d’attenzione: gli altri personaggi, le altre trame, ivi compresa la trama che era appena andata in scena il giorno prima… La ‘ribalta — ci rammenta Kundera — è illuminata solamente nel corso dei primi minuti’. Nel mondo liquido moderno, la lentezza è il presagio della morte sociale. Come osserva Vincent de Gaulejac, ‘giacché tutti progrediscono, chi rimane fermo sarà inevitabilmente separato dagli altri, per effetto di una distanza sempre più incolmabile’ (de Gaulejac, 2005, p. 134). Il concetto di ‘esclusione’ suggerisce l’idea, infondata, dello spostamento di un oggetto dalla posizione originaria che occupava; in realtà, ‘è la stagnazione che esclude’.




In terzo luogo, giacché l’offerta di quella guida della moda non comprende un look soltanto, ma ‘una mezza dozzina’ di look diversi, si è veramente liberi (anche se — va aggiunta una nota cautelativa! — l’insieme delle offerte disponibili traccia un limite ben preciso, oltre il quale la scelta non può andare). Si può scegliere il look che si predilige. Ma la scelta in quanto tale — la scelta di un determinato look — non è in discussione, dato che è esattamente ciò che si deve fare e che non si può in alcun modo evitare di fare, se non si vuole rischiare l’esclusione. Né tanto meno si è liberi di influire sull’insieme delle scelte disponibili, dato che non esistono opzioni realistiche in alternativa a quelle che sono già state preselezionate, prestabilite e prescritte.

 

Tutte queste sfumature, però, non hanno poi grande importanza: che si tratti del poco tempo a disposizione; dell’esigenza di ingraziarsi i favori del ‘branco’ (qualora i suoi componenti, rivolgendoci lo sguardo, osservino i nostri indumenti e il nostro contegno, prendendone esempio); o del ristrettissimo numero di scelte a nostra disposizione (non più di mezza dozzina). Quello che importa veramente è che la responsabilità delle scelte è tutta nostra. E non potrebbe essere altrimenti: è possibile scegliere delle opzioni diverse, ma non è possibile fare a meno di scegliere. Ellen Seiter (1993, p. 3) osserva che ‘dai vestiti alla mobilia, dai dischi ai giocattoli’, tutte le cose che compriamo ci richiedono di prendere delle decisioni e di usare i nostri gusti e la nostra capacità di giudizio; come aggiunge la stessa autrice, però, ‘va da sé che non esercitiamo alcun controllo, ex ante, sull’insieme delle cose fra cui possiamo scegliere’. Rimane il fatto che ‘scelta’ e ‘libertà’, nella cultura del consumatore, sono praticamente sinonimi; e che è corretto trattarle come tali, quanto meno nel senso che si può fare a meno di scegliere soltanto nella misura in cui si rinuncia alla propria libertà.




L’avvento della libertà è visto sempre come un esaltante atto di emancipazione: che sia da doveri insopportabili e da irritanti proibizioni, o da abitudini ottuse e monotone. Ma non appena la libertà diventa una cosa abituale, e si trasforma nel pane quotidiano, subentra un nuovo orrore, in nulla inferiore a quello di cui ci si era appena liberati, e che fa addirittura impallidire i ricordi delle sofferenze e delle lamentele del passato: l’orrore della responsabilità. Le notti che seguono le giornate di routine obbligatorie sono piene di sogni di libertà dagli obblighi del passato. Le notti che seguono le giornate di scelte obbligatorie sono piene di sogni di liberazione dalla responsabilità.

 

Tutti e tre i messaggi sono l’annuncio, all’unisono, di uno stato di emergenza. In questo, di per sé, non vi è nulla di nuovo. Non è che l’ennesima reiterazione di quei principi, sovente ribaditi, per cui la vigilanza incessante, la costante disponibilità ad andare dove si deve, e i soldi e le energie da spendere a tale scopo, sono tutte cose buone e giuste. I segnali d’allerta sono visibilmente accesi (come un semaforo rosso? O giallo?), nuovi punti di partenza (carichi di promesse) e nuovi rischi (carichi di minacce) si presentano sul nostro cammino.




Da qualche parte, non lontano da dove ci troviamo, ci attendono tutti gli accessori necessari per fare le scelte giuste (ossia per onorare l’inalienabile responsabilità che abbiamo verso noi stessi e per noi stessi): i dispositivi e le procedure più idonei, insieme con le istruzioni su come meglio farne uso, a nostro vantaggio, sono senz’altro alla nostra portata, e non dovrebbe essere difficile trovarli, con un po’ di sforzi e di ingegno. La cosa più importante, però, è sempre la stessa: non perdere mai il momento giusto per intervenire, se non ci si vuole trovare — per un motivo o per l’altro — in ritardo rispetto alle ‘mode del branco’, invece di anticiparle. E non si può nemmeno distogliere lo sguardo dall’infinita varietà del mercato dei consumi, limitandosi a fare leva sulle esperienze e sulle abitudini che hanno funzionato bene in passato.

 

Nel suo importante studio sugli stravolgimenti che si producono, al giorno d’oggi, nella nostra percezione ed esperienza del tempo, Nicole Aubert sottolinea il ruolo cruciale rivestito dallo ‘stato d’emergenza’ e dal senso di urgenza che tale stato, una volta dichiarato, dovrebbe diffondere, disseminare e far attecchire. Secondo Aubert, lo stato e il senso di emergenza, nelle società attuali, soddisfanno tutta una serie di esigenze esistenziali che in altri tipi di società tenderebbero a essere soppresse e trascurate, o sarebbero realizzate attraverso stratagemmi del tutto diversi. I nuovi espedienti, che Aubert riconduce a una strategia di coltivazione intensiva del senso di urgenza, forniscono tanto agli individui, quanto alle istituzioni, un senso di sollievo illusorio, e nondimeno efficace, nella loro battaglia per mitigare le ricadute negative — potenzialmente assai gravi — della continua necessità di scegliere, propria del libero consumatore (Aubert, 2003, pp. 62-63).




Una delle illusioni principali è quella generata dalla condensazione momentanea di forme d’energia altrimenti disperse, provocata dai segnali d’allerta. Quando arriva alla soglia dell’autocombustione, l’accumulazione di queste energie è motivo di sollievo (sia pure effimero) a fronte del terribile senso di inadeguatezza che incombe sempre sulla vita quotidiana dei consumatori. Gli individui a cui Aubert parlava, e che osservava da vicino — individui, per inciso, ben allenati nell’arte di consumare la vita, e per questo ormai intolleranti verso ogni tipo di frustrazione, e non più capaci di fare fronte ad alcuna dilazione della gratificazione, che per loro non può non avere una valenza immediata —, questi individui, che si sono come rannicchiati nel momento presente, in una logica ostile a qualsiasi ritardo, si cullano nell’illusione di poter conquistare il tempo, abolendolo, o per lo meno mitigandone l’effetto di frustrazione.

 

Non si possono certo negare le potenzialità terapeutiche, e l’effetto tranquillizzante, di una siffatta illusione di padronanza del tempo: la capacità di dissolvere il futuro nel presente, e di richiuderlo tutto nell’hic et nunc. Se, come sostiene Alain Ehrenberg (1998) con dovizia d’argomenti, la sofferenza umana di oggi tende per lo più a scaturire dalla sovrabbondanza di possibilità, piuttosto che da un eccesso di divieti (come in passato), e se l’opposizione tra il possibile e l’impossibile è subentrata all’antinomia fra ciò che è consentito e proibito — come frame cognitivo e criterio essenziale di valutazione e scelta delle strategie di vita —, ebbene, non si può non aspettarsi che la depressione che scaturisce dal timore dell’inadeguatezza si sostituisca alla nevrosi provocata dal timore del senso di colpa (ossia di un’accusa di non conformità, a seguito di una violazione delle regole), come forma più caratteristica e diffusa di sofferenza psichica, fra i cittadini a metà (denizens) della società dei consumi.




Un importante servizio che può offrire una vita in condizioni di emergenza continua (anche se, magari, del tutto artificiose o retoriche), per la salute degli uomini del nostro tempo, è la versione aggiornata della ‘caccia alla lepre’ di Blaise Pascal, riadattata all’ambiente sociale odierno: una caccia che, al contrario di una lepre già uccisa, cucinata e consumata, lascia al cacciatore appena il tempo di riconoscere la brevità, la vacuità, l’inutilità dei suoi propositi d’azione, e più in generale di tutta quanta la sua vita terrena. I successivi cicli di recupero dall’ultimo allarme, di riadattamento e di recupero delle forze sino all’allarme successivo, di una vita che riattraversa il momento dell’emergenza e nuovamente si riprende dalle tensioni e dalla perdita d’energia che ha appena subito, ebbene, questi cicli riempiono tutti i potenziali buchi neri di una vita che potrebbe essere riempita, quale unica alternativa, della consapevolezza intollerabile — e solo provvisoriamente repressa — delle cose ultime: quelle cose che, per la propria salute e per amore della propria vita, si preferisce dimenticare. Per citare ancora una volta Aubert:

 

‘Gli affari incessanti, con un’urgenza che ne segue subito un’altra, diventano la garanzia di una pienezza di vita o di una carriera di successo, l’unica prova autentica di autoaffermazione, in un mondo da cui è assente ogni riferimento all’aldilà, e l’unica certezza è la dimensione finita dell’esistenza […]’.




‘Nel mentre agiscono, le persone pensano solamente al breve termine: le cose che andranno fatte subito, o nel futuro immediato […] fin troppo sovente, l’azione non è altro che una fuga dal proprio Sé, un rimedio per l’angoscia che ci prende (Aubert, 2003, pp. 62-63)’.

 

Potremmo aggiungere che quanto più l’azione è intensa, tanto più si potrà contare sui suoi effetti terapeutici. Quanto più ci immergiamo nell’urgenza di un compito immediato, tanto più allontaneremo l’angoscia da noi; o, quanto meno, essa ci risulterà un po’ meno intollerabile, se proprio non ci riuscirà di tenerla lontana.

 

Né l’apprendimento né l’oblio ci permettono di eludere gli effetti della tirannia del momento; dello stato di emergenza incessante; del tempo sprecato in una lunga sequela di nuovi inizi, apparentemente (e subdolamente) scollegati l’uno all’altro. La vita del consumatore è una vita di continuo apprendimento; e, parimenti, di rapido oblio.

 

L’oblio non è meno importante dell’apprendimento. Forse, anzi, è più importante. Per ogni ‘devi’ c’è un ‘non devi’, e quale dei due riveli l’autentico obiettivo dell’incessante processo di rinnovamento/rimozione, e quale, invece, non sia che uno strumento accessorio, rispetto al raggiungimento dell’obiettivo stesso, è questione inevitabilmente incerta e controversa. Il tipo di informazione che si potrebbe trovare più facilmente, in un’opera come la Guida alla moda citata poc’anzi, è che ‘il punto di riferimento di quest’autunno è la Carnaby Street degli anni Sessanta’; o che ‘l’attuale ripresa dello stile gotico è perfetta per questo mese’. Va da sé che ‘quest’autunno’ è qualche cosa di radicalmente diverso da ‘quest’estate’, e che ‘questo mese’ non assomiglia in nulla ai mesi appena trascorsi: ciò che era perfetto per il mese scorso è tutt’altro che perfetto per questo mese.




E gli esempi potrebbero proseguire a lungo. Nella stessa Guida alla moda, l’esortazione ad ‘aprire il beauty case e [a] dare dentro un’occhiata’ potrebbe essere seguita dall’indicazione ‘La prossima stagione sarà dominata dai colori forti’, e poi, magari, dall’avvertimento seguente: ‘Il beige e tutti i colori del genere, rassicuranti ma noiosi, hanno fatto il loro tempo… buttateli via, adesso!’. È naturalmente impossibile, in questa prospettiva, trovare un modo di combinare il ‘beige noioso’ con i ‘colori forti’. Una delle due tinte è condannata a lasciare il campo. È in sovrappiù. Un altro spreco, un altro effetto collaterale del progresso. Occorre sempre eliminare qualcosa, e bisogna farlo in fretta.

 

A che cosa serve, però, tutto questo? Occorre davvero buttare via il beige per poter usare delle tinte più vivaci, o sono forse queste ultime che, disposte in modo straripante sugli scaffali del supermercato, rispondono allo scopo di far buttare via subito l’offerta inutilizzata di beige?




Molte delle donne — dei milioni di donne — che scartano il beige, e si riempiono il beauty case di colori sgargianti, risponderebbero probabilmente che l’eliminazione del beige è uno sgradevole effetto collaterale del rinnovo e del miglioramento del loro make up; un sacrificio triste, ma necessario, che va fatto in nome del progresso. Fra le migliaia di responsabili di negozi di questo tipo, però, almeno qualcuno ci potrebbe forse rivelare che la scelta di riempire gli scaffali di trucchi dai colori sgargianti serviva ad abbattere i «tempi di vita» del trucco beige, e quindi a far andare avanti l’economia, ad aumentare i profitti. Non è forse vero che il PIL, la misura ufficiale del benessere della nazione, si misura in base alla quantità di denaro che le persone si scambiano le une con le altre? E la crescita dell’economia non è forse stimolata dall’energia e dell’attività dei consumatori? E un consumatore che non si liberi, a breve, di tutto ciò che ha già acquistato, è un po’ come un vento che ha smesso di soffiare…

 

A ben vedere, entrambe le risposte riportate poc’anzi sono corrette: si tratta di risposte complementari, e non contraddittorie. In una società abitata da consumatori, e in un’epoca di politiche della vita che vanno a sostituire la Politica di un tempo, quella che vantava la P maiuscola, l’autentico ciclo economico — l’unico che garantisca davvero il funzionamento dell’economia — è quello del compralo, goditelo, buttalo via…. Il fatto che due risposte simili, apparentemente contraddittorie, possano essere entrambe corrette, al medesimo tempo, è proprio l’impresa più straordinaria della società dei consumatori; quella che meglio spiega, a mio giudizio, la sua incredibile capacità di riprodursi e di espandersi nel tempo.


(Z. Bauman)








 

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