Precedente capitolo
circa l'onestà (1)
Prosegue con il
Come è noto, era il 1927 e a Londra
presso l’editore Benn il biologo Julian Huxley pubblicava un testo piuttosto
provocatorio già a partire dal titolo Religion without Revelation: in
quell’opera egli coniava un vocabolo al quale trent’anni dopo avrebbe riservato
un breve saggio specifico, transhumanism.
La sua concezione, dai contorni un
po’ visionari, cercava di far balenare un futuro della specie umana destinato,
anche nella linea dell’evoluzione, a trascendere molti limiti attuali, dando
origine a una sorta di nuovo fenotipo antropologico.
Dovevano trascorrere altri
quarant’anni per veder sorgere, su impulso di Nick Bostrom e David Pearce, nel
1998 la World Transhumanist Association, divenuta poi la Humanity Plus con la
sigla H+, che trasformava il neologismo huxleyano nel vessillo ottimistico di
un movimento, capace di prefigurare e di configurare un’evoluzione della
condizione umana guidata dall’uomo stesso attraverso le risorse delle nuove
conquiste scientifiche.
Frattanto, però, si andava coniando
un altro termine, postumanesimo, che si appaiava al precedente talora come
sinonimo, più spesso come cifra del fondamento teorico sotteso al
transumanesimo, del quale condivideva il superamento dell’umanesimo classico
fortemente antropocentrico, marcatamente etico e fieramente culturale.
Detto in altri termini, i due vocaboli
si collocherebbero in contrappunto armonico: il transumanesimo rimanderebbe a
un progetto scientifico, mentre il postumanesimo ne sarebbe la versione più
filosofica e quindi supporrebbe una visione più globale, segnata persino da
ipotesi escatologiche.
Tenendo conto della qualità un po’
nebbiosa della letteratura finora prodotta da e su questa concezione
antropologica, evochiamo in modo semplificato solo alcuni lineamenti che
potrebbero stimolare anche dialetticamente la filosofia e la teologia.
La visione transpostumanistica assume
e si colloca all’interno di tutti i dati che abbiamo precedentemente descritto.
Infatti, anche per questa concezione l’attenzione si concentra sulle
straordinarie potenzialità della scienza e della tecnica, sulle loro capacità
di modificare i dati biologici umani, senza però dedicarsi alle ricadute
etiche, senza indagare sulle implicazioni socio-esistenziali, senza elaborare
premesse teoriche che sappiano criticare la pura e semplice pratica coi
relativi esiti fisiologici.
Così, ormai abbastanza scontata
sembra l’ipotesi del citato cyborg; si rimanda ad alcune discipline e
strumentazioni sono entrate nei programmi della ricerca scientifica - pensiamo
agli acronimi diffusi come GRIN (Genetics, Robotics, Information technology,
Nanotechnology) o NBIC (Nanotechnology, Biotechnology, Information technology
and Cognitive science) - ; si accetta la chirurgia ricostruttiva ed estetica
dalla pratica sempre più acclamata; si è certi che l’intelligenza artificiale
si allargherà verso nuove frontiere con macchine abilitate a eseguire
operazioni prettamente umane; si è convinti che l’ibridazione tra uomo e
componente tecnica tenderà ad espandersi anche oltre la mera sostituzione o
riparazione di organi deficitari, aspirando a migliorare, a potenziare e a
trasfigurare la struttura somatica; si spera nel progresso delle neuroscienze
verso orizzonti sempre più vertiginosi.
Tendenzialmente l’atteggiamento del
transpostumano è omogeneo a questi progetti scientifici ed è proiettato a superare
l’homo faber trasformandolo in homo creator.
Si riesce, così, a intuire che sotto
l’ombrello del transpostumano si riuniscono effettive conquiste benefiche, ma
anche scenari dai profili fantascientifici che ereditano la celebre tradizione
ebraica del Golem, col suo sogno di creare un homunculus analogo all’homo
sapiens, dotato di una sua autonomia e di un’operatività non semplicemente
programmata, qualità negata all’attuale robot, pur sempre dipendente da impulsi
primari umani.
I fasti delle loro Chiese si celebrano con immagini allucinatorie: il cliente che denuncia l’impiegato e la sua ed altrui Storia (della rispettabile Compagnia posto fra la lunga storia detta e ripetuta, e quella negata, concernente un’altrettanta verità mai dispensata entro o fuori il loro laboratorio dell’eterna ricerca dell’eretico…), che a sua volta denuncia il collega, per ultimo il direttore che sprona a questa illuminante pratica, di modo che può esercitare maggior terrore, e con esso più potere, più nepotismo, più mediocrità. Ed infine l’intero sistema su cui poggia questa tribolazione nel dispensare ad ognuno Nessuno escluso, pane di arretratezza economica a cui l’industriale dall’alto del suo pulpito comanda ordine e disciplina e, come avete letto circa la sua ultima missiva, severa pulizia!
Con l’editto di non farvi più ritorno in codesti ed altri luoghi!
La mia infatuazione per lo studio
della natura animata si
trasformò rapidamente in
una vera e
propria storia d’amore.
Ho scoperto che
anche gli esseri
umani con cui
lo studio mi
ha messo in
contatto potevano essere
affascinanti. Il mio
primo mentore è
stato uno scozzese, non un
pastore si badi bene ed ancor meglio, ma dell’ordine della regola di Scozia, e quasi
un fratello di mezza
età che si
guadagnava da vivere
consegnando ghiaccio, ma che in
realtà era un
ardente mammifero dilettante.
In tenera età
aveva contratto la
rogna o la
lebbra, o qualche
altra malattia infantile
simile, e aveva
perso tutti i capelli,
per non recuperarli
mai più un po’ come quel noto
Benito di imprecisata perduta o riacquisita memoria. Una
tragedia che potrebbe
aver avuto a
che fare con
il fatto che,
quando lo conobbi,
lui aveva già
dedicato quindici anni
della sua vita
allo studio del
rapporto tra la
muta estiva e l’incipiente narcisismo
nei roditori tascabili.
Quest’uomo era
diventato così intimo
con i roditori tascabili che
poteva ammaliarli con
fischi sibilanti finché
non emergevano dai
loro rifugi sotterranei
e gli permettevano
passivamente di esaminare
i peli sulla
loro schiena. Né furono
meno interessanti i
biologi professionisti con
cui entrai in
contatto più tardi. Quando avevo diciotto anni trascorsi
un’estate lavorando sul campo
in compagnia di
un altro mammalogo,
settantenne, pieno di
lauree e la
cui imponente statura
nel mondo della
scienza era stata
guadagnata in gran
parte da uno
studio approfondito delle
cicatrici uterine nei
toporagni.
Quest’uomo, uno stimato professore
di una grande
università americana, sapeva
sugli uteri dei
toporagni più di
quanto chiunque altro
avesse mai saputo.
Inoltre potrebbe parlare di il suo
argomento con vero
entusiasmo. La morte
mi troverà molto
prima che mi
stanchi di contemplare
una serata trascorsa
in sua compagnia
durante la quale
ha affascinato un
pubblico misto composto
da un commerciante
di pellicce, una
matrona indiana Cree
e un missionario
anglicano, con un
monologo di un’ora
sulle aberrazioni sessuali
nelle donne. toporagni
pigmei. (Il commerciante
fraintese il tenore
del discorso; ma
il missionario, abituato
da anni a
dissertazioni prive di
senso dell’umorismo, presto
lo mise a
posto.)
Le mie predilezioni personali riguardavano gli studi sugli animali vivi nel loro habitat. Essendo un tipo letterale, ho preso la parola biologia – che significa studio della vita – al suo valore nominale. Ero molto sconcertato dal paradosso che molti dei miei contemporanei tendevano a rifuggire il più possibile dagli esseri viventi, e scelsero invece di limitarsi all’atmosfera asettica dei laboratori dove usavano materiale animale morto come materiale di consumo. Il loro argomento infatti, durante la mia permanenza all’università stava diventando fuori moda nell’avere a che fare con gli animali, anche quelli morti. I nuovi biologi si concentravano sulla ricerca statistica e analitica, per cui la materia prima della vita non diventava altro che foraggio per il nutrimento delle macchine calcolatrici.
(Farley Mowat)
Il cliente dell’eterna bottega di questo strano commercio ‘transumano’ litiga, e non più Dialoga, con il cliente d’una strana bottega da una diversa e più privilegiata mercanzia; il collega con il collega, il direttore con un altro direttore, e tutti assieme poi, come un quadro di Boschiana memoria, si godono lo spettacolo dell’eretico bruciato sul rogo.
Basta
una telefonata, un falso delatore, una ingiuria nuova e improvvisata, una
lettera anonima, un sottointeso, un cenno, un ammiccamento, uno sguardo…, e
l’inquisitore è servito. Tutti uniti poi, dallo spettacolo di un rogo nuovo ai
tribunali dei media, dove dal delatore fino al più elevato politico o
industriale di turno, si godono l’innocente barattato per colpevole nel tetro
teatro del regime.
Non
servono accertamenti o processi, basta ciò che la forza dei compromessi del
potente feudatario ha costruito dall’alto del suo castello. La condanna è già
pronta e stabilita dalla legge stessa, così come è stato nei secoli e nei secoli
sembra essere. K. non ha scampo in questa farsa del potere. È sufficiente quel
poco o quel tanto per vedere accessi i ceppi. Poi con sorrisi beffardi da
regime si sorseggiano il vecchio capitano che si spara fra gli occhi. Ma
defilati e il più delle volte nevrotici repressi nelle colpe, proseguono per la
loro strada attenti ad non inciampare su colpe mai commesse.
Noi,
straziati dal fuoco, dal tormento, dall’infamia, dalla calunnia, non possiamo
nulla eccetto che un riparo che nasconda il nostro male: un viso tumefatto,
occhi crateri spenti di vita, capelli rami secchi di un bosco dove è stata
seminata la morte, un’anima che vomita il suo dolore attraverso un occhio che è
costretto a guardare tanto orrore, tanto scempio, tanto inganno. L’anima va
martoriata, segnata, uccisa; affinché dalla sua grandezza per questa vita
terrena donata ma ora solo rubata, non possa traspirare più nulla; l’anima è
quella che va colpita, offesa, umiliata, degradata.
La
morale di questi esseri si propaga in questi termini.
Anni
dopo, quando le verità vengono trapiantate come alberi nuovi nel giardino,
dalla forma rettangolare di un loro giornale, gli stessi si defilano, perché
hanno in serbo una calunnia nuova che li dispenserà dai debiti dell’infamia.
Noi vaghiamo ammutoliti, e privati dei nostri diritti. Quelli ci furono letti,
o meglio ci furono inviati, con il sorriso beffardo del Domenicano di turno,
dell’inquisitore di turno, che per gradi e ruoli deve provare il piacere, deve
sentire il privilegio ed il gusto della tortura mentre dispensa
l’interpretazione della ‘sua’ legge…, mai la ‘legge’ quella gli è nemica. Ognuno
è chiamato sulla pubblica piazza al gusto antico del patibolo.
La
scuola (circa questa comune esistenza
divisa, seppur apparentemente condivisa, circa medesima ugual diritto alla vita)
ora può veder coronato il suo sogno, ed ad ogni inezia si sveglia per un urlo,
per una ingiuria, per una bestemmia che però bestemmia non è, ma preghiera per
taluni religioni. Si illuminano i visi, si affacciano dalle finestre spronati
dall’inquisitore di turno per il prologo della loro legge. Ignari gridano frasi
sconnesse, vengono comandati ed istruiti ad esse, vengono incitati
pubblicamente all’odio. Non conoscono il condannato. Ma la cultura insegna loro
che quello è il martirio, difendono solo il delinquente dalla legge.
Così
fra una missiva e l’altra, fra un Tomo e l’altro, fra un post e l’altro in
questo ed in ogni diverso paese in cui esiliato, debbo provare gli insulti e le
privazioni di chi abituato a dispensare
monolitiche verità. Di chi abituato ad asservire più padroni, per un po’ di
pane che chiamano potere. Con le loro armi affilate, con i loro telefoni pronti
a tutto, dispensano il pane quotidiano. Fra una missiva e l’altra ci inviavano
le loro sentenze, perché la materia, così dicono, è intelligente, e se la tassa
va pagata ogni giorno, qualcuno con cui sfogare il proprio malessere deve
materializzarsi per il bene spirituale della comunità. Ignari, scopriamo oggi,
come hanno asservito le logiche di quella mafia che veste di bianco e urla: ‘Ti
amo papà padrino padrone’.
Dicono che nota Compagnia si servano anche di tutti loro…
(Giuliano Lazzari, Storia di un Eretico)
Il dado fu tratto un giorno d’inverno quando ricevetti una convocazione dal Dominion Wildlife Service che mi informava che ero stato assunto con il munifico stipendio di centoventi dollari al mese e che mi sarei presentato immediatamente a Ottawa. Obbedii a quest’ordine perentorio con poco più di un sussulto di sommessa ribellione, perché se avevo imparato qualcosa durante i miei anni all’università era che la gerarchia scientifica richiede un elevato standard di obbedienza, se non di sottomissione, da parte dei suoi accoliti.
Due giorni dopo arrivai nella capitale
del Canada, spazzata
dal vento e dall’anima grigia,
e mi ritrovai
nello squallido labirinto
che ospitava il
Wildlife Service. Qui
mi presentai al
Capo Mammalogo, che
avevo conosciuto come
compagno di scuola in tempi più spensierati. Ma ahimè, ora si era
trasformato in uno scienziato
in piena regola,
ed era così
avvolto nella dignità
professionale che non
potevo fare altro
che astenermi dal
fargli un profondo
omaggio.
Nei giorni successivi
fui sottoposto a
qualcosa chiamato “orientamento”, un
processo che, per
quanto potevo vedere,
era progettato per
ridurmi a uno
stato malleabile di
depressione senza speranza. In ogni caso, le
legioni di burocrati
danteschi che visitavo
nei loro antri
tetri e odorosi
di formalina, dove
trascorrevano ore interminabili
compilando dati tetri
o creando promemoria
senza senso, non
fecero nulla per
risvegliare in me
molta devozione al
mio nuovo impiego.
L’unica cosa che ho davvero imparato durante questo
periodo, rispetto alla
gerarchia burocratica di
Ottawa, la gerarchia
scientifica era una
confraternita dell’anarchia.
Ciò
mi venne chiaro
in un giorno
memorabile quando, dopo
essere stato finalmente
certificato idoneo all’ispezione, fui
condotto nell’ufficio del
Vice Ministro, dove mi comportai così
indecorosamente tanto di
chiamarlo ‘Signore’. La mia scorta del
momento, tutta pallida e tremante, mi portò immediatamente fuori dalla sua presenza
e mi
condusse per vie
subdole al bagno
degli uomini.
Dopo essersi inginocchiato e
sbirciato sotto le porte
di tutti i cubicoli
per essere assolutamente sicuro
che fossimo soli
e che non
potessimo essere ascoltati,
spiegò in un
sussurro agonizzante che
non dovevo mai,
pena l’esilio, rivolgermi
al vice come
altro se non ‘Capo’, o,
salvo ciò, con
il titolo di
“Colonnello”.
I titoli militari
erano di rigore.
Tutti i promemoria erano firmati
Capitano, o Tenente, tutti nessuno escluso erano graduati, o al peggio,
semplici Colonnelli. Quei membri
dello stato maggiore che
non avevano avuto
la possibilità di
acquisire nemmeno uno
status quasi militare
furono ridotti all’espediente di
inventare gradi adeguati:
gradi di campo
se erano uomini
anziani e gradi
subalterni per i giovani. Non tutti hanno preso la questione
con la dovuta
solennità, e ho
incontrato un nuovo impiegato
nella sezione pesca che si è
distinto brevemente inviando
una nota al
capo firmata ‘J.
Smith, caporale ad interim’. Una settimana dopo questo
temerario giovane era in viaggio
verso la punta
più settentrionale dell’isola
di Ellesmere, per
trascorrervi il suo
esilio vivendo in
un igloo mentre
studiava la storia della vita dello spinarello a nove spine, una per chilowattora!
Il mio capo sedeva dietro un’enorme
scrivania la cui superficie polverosa
era ricoperta di
teschi di marmotta
ingialliti (aveva studiato
i tassi di
carie nelle marmotte
sin da quando
era entrato al
Dipartimento nel 1897).
Alle sue spalle era appeso il
ritratto barbuto e
accigliato di un
mammifero estinto che
mi lanciava uno
sguardo minaccioso. L’odore
della formalina vorticava
qua e là
come l’alito fetido
del salotto di un’impresa di
pompe funebri. Dopo un lungo
silenzio, durante il
quale giocò prodigiosamente con
alcuni dei suoi
teschi, il mio
capo iniziò il
suo discorso. C’era
una solennità nell’occasione che
avrebbe reso giustizia
all’incarico di un
agente speciale che
stava per essere
spedito all’assassinio di
un capo di
Stato.
“Come
lei sa, tenente
Mowat”, iniziò il
mio capo, “il
problema del Canis
lupus è diventato
di importanza nazionale.
Solo nell’ultimo anno
questo Dipartimento ha
ricevuto non meno
di trentasette memorandum
da membri della
Camera dei Comuni,
tutti esprimenti la
profonda preoccupazione dei
loro elettori che
dovremmo fare qualcosa
per il lupo.
La maggior parte delle denunce sono arrivate da gruppi civici e disinteressati come vari club di Caccia & Pesca, mentre i membri della comunità imprenditoriale - in particolare i produttori di alcune note marche di munizioni - hanno dato il loro peso al sostegno di questi legittime lamentele del pubblico votante di questo Grande Dominio della Compagnia, perché la loro lamentela è il lamento che i lupi uccidono tutti i cervi, e sempre più nostri concittadini tornano da sempre più caccie con sempre meno cervi.
(Farley Mowat)
A Chignolo, frazione di Oneta, in valle del Riso, i lupi hanno attaccato domenica, in pieno giorno, gli animali custoditi, a poche centinaia di metri da un’azienda che alleva ovicaprini e una trentina di vacche da latte. La comunicazione è arrivata dalle associazioni Pastoralismo Alpino. Tutela Rurale e il Comitato Valseriana-tutela persone e animali dai lupi. Secondo le tre associazioni i lupi sono poi tornati nella scorsa nottata, tra lunedì 11 e martedì 12 dicembre: il risultato è la morte di due capre, il ferimento di un becco, una pecore e due capre, per le quali non si sa ancora se esista una possibilità di recupero.
Va precisato che le reti utilizzate sono quelle
“alte”, dichiarate “anti-lupo” dai servizi regionali. Gli allevatori sostengono
da tempo che queste reti che, secondo gli amici dei lupi (e le istituzioni)
dovrebbero difendere efficacemente gli animali, servono a ben poco perché il
lupo le salta in scioltezza -spiegano le associazioni in una nota-.
L’episodio rappresenta l’ennesima conferma
dell’espansione del lupo in Val Seriana. Oltre ai casi dell’alta valle se ne
aggiungono altri che indicano una rapida discesa dei predatori verso la media
valle.
Veronica Borlini, la giovane allevatrice vittima
della predazione, riferisce che anche lo zio ha già subito dei danni a Gorno
sul monte Grem. Come Comitato per la tutela delle persone e degli animali dal
lupo non possiamo non stigmatizzare la persistente tendenza a minimizzare il
problema della presenza del lupo da parte delle istituzioni, in primis della
Polizia provinciale che a lungo ha negato che fossero avvistati i lupi.
Per discutere della situazione e delle iniziative
da intraprendere in tema di lupi, si terrà, alla presenza di alcuni esponenti
della Regione Lombardia, un convegno ad Ardesio il 26 gennaio.
In Val Seriana il 2023 sarà ricordato come quello
del ritorno ufficiale del lupo nel territorio. In particolare, l’ultima
segnalazione è quella della fine di ottobre, quando furono visti, grazie alle
fototrappole della Polizia provinciale, 4 piccoli lupi, figli della coppia
avvistata a Gandellino all’incirca un anno fa. Si è trattato così del primo
branco accertato dalle forze dell’ordine provinciali.
Ed il povero braccato lupo futuro Eretico condannato con la sua umile Storia senza più Memoria, spinto fra un ‘carcere’ e l’altro, per la salvezza dell’anima, viene macchiato da una nuova stele di infamia. Oggi come ieri tuonano le loro sentenze, per un mancato funzionamento di un motore a tribordo del panfilo dello slavo, o per una incompleta compilazione mod. P2, o per una insoddisfacente compilazione mod. G8 a beneficio del turismo senza confino e controllo:
“…Al riguardo, valutate attentamente le giustificazioni da lei addotte a sostegno con le note…. non abbiamo ravvisato nelle argomentazioni dedotte utili a Sua discolpa per quanto espressamente contestatoLe. In ragione della gravità del fatto di cui Ella si è resa responsabile, Le intimiamo la sanzione disciplinare dell’ammonizione scritta con sollecitato licenziamento di questa nobile Compagnia! …”.
ESSERE ONESTI CON SE STESSI E GLI ALTRI
Chi
non vuole implodere nell’esercizio della propria funzione nella schizofrenia
incompresa fra la mano destra con quella sinistra, per una unica funzionalità
di un apparato repressivo e falso, ad uso degli interessi del malaffare, deve
fuggire come il peggiore dei banditi. Come fu, come è, e come sempre sarà.
Così
scrivevano sentenza e condanna ancor prima dell’accertamento del fatto che da
luogo a procedere (falso ed irrazionale). La cultura dell’inquisizione del
rogo, dell’approssimazione, della mafia, del delinquente legittimato
dall’ultimo indulto del politico di turno, perché fa compagnia assieme ad un altro
sul Golgota al Cristo crocefisso, sono il fondamento ed il pane, scoprimmo
presto, di questa loro società civile, timorosa della legge apparente vittima
di una nuova modernità.
Gli
stati allucinatori di queste barbare nefandezze non mi hanno abbandonato fino
ad oggi. Sogni ad occhi aperti che non auguro a nessuno. Perché l’esercizio del
potere se viene contraddetto o peggio ancora beffeggiato, non perdona e non
lascia scampo.
Se
la comunità ha impropriamente esercitato la sua violenza, perché violenta e
corrotta, deve far uso del suo potere per reprimere ogni forma di dissenso.
Nella manifestazione dell’estensione della sua logica, che li vuole accomunati
tutti assieme, ancora a distanza di anni sotto il medesimo rogo, sotto la
medesima scuola, braccano la loro preda, evocando quel potere persecutorio che
li può far parlare ancora per una nuova sentenza peggiore della prima, così da
adombrarne l’infamia.
Questa
cultura inciampa sugli stessi suoi piedi.
Ed
abbisogna di violenza e calunnia per essere legittimata. Quando di noi non
rimarrà altro che cenere, si scriveranno altri libri neri, dove con tutta
probabilità, si descriveranno gli stessi riti, le stesse piazze, le stesse orge
di potere, occulto o manifesto. Dove si leggeranno le stesse sentenze, dove si
trascineranno le stesse vittime sacrificali, dove verranno invitati e coinvolti
gli stessi ragazzini e aguzzini, per il monito di tutti coloro che videro
qualcosa in quell’anima che esala l’ultimo respiro. Dove grideranno frasi
sconnesse, dove con l’illusione e l’ausilio della modernità, si celebrerà
l’antico rito del rogo. Dove i colpevoli vengono protetti e legittimati e le
loro vittime pagano l’umiliazione di una nuova gogna.
Poi
gli inquisitori si defilano, i veri colpevoli, abbiamo scoperto, scrivere libri
e manuali per salvare la carne e lo spirito, con metodi di ospedali
psichiatrici da regime.
Vestono
camici bianchi, dispensano pensioni e favori, proteggono dal potere delle
tenebre e della storia, camminano tranquilli e beffardi verso una nuova gloria.
Osannati dalla folla delirante, come lo fu il Barabba, barattato per un Cristo.
Per la loro ‘infallibilità’ muoiono sempre gli stessi perfetti, che nella
ciclicità della storia odono ieri come oggi le medesime sentenze. Il quadro è
immutato nella sua perfetta ciclicità. Se poi possediamo il dono di saperli
indicare, perché li vediamo imbattuti nella loro infamia, invocheranno per questo
dono di ubiquità nella continuità dei loro mondi, il potere.
…Quando quel giorno fui battezzato, gridavo così forte che anche due miglia di distanza non c’era bisogno di aguzzare l’orecchio per sentire la mia voce… Oramai sei entrato in questa chiesa e devi essere battezzato col fuoco e con l’acqua bollente prima che tu possa uscire, ti piaccia o non ti piaccia devi aspettare che finisca il battesimo. Ma quando sentii questo, esclamai con voce terribile: Io morirò in questa chiesa. E tutti quanti loro esclamarono: Puoi anche morire se vuoi, qui nessuno ti conosce. …E il reverendo Diavolo continuò il battesimo con l’acqua bollente e col fuoco. Dopo il battesimo, fu lo stesso Reverendo Diavolo a predicare ancora per qualche minuto, mentre fu Traditore a leggere il testo. Tutti i membri di quella chiesa erano - malfattori - . Cantarono il canto dei malvagi sul motivo melodioso dei malvagi poi – Giuda - concluse la cerimonia.
(A. Tutuola)
Qualcuno
impropriamente chiama urgenza di pensiero e quello che da esso si genera
(libertà, correttezza, diritto, democrazia), manie di persecuzione. Scopriamo
con maggior orrore che anche il mal di vivere in questi termini persecutori
diventa per taluni business e successo: salvatore per tutte le anime perse nei
meandri di una nuova conquista economica. Ho combattuto cinici ed epicurei da
secoli, e non torno sui miei passi. I loro mezzi e metodi li ho patiti per
anni. Con l’ausilio della loro scienza ci hanno trascinato per secoli in boschi
di terrore, per ricreare a tavolino nuove e sconosciute malattie sul nostro
corpo in compagnia dell’anima già fiaccata dalla loro solerzia. Cavie di
laboratorio, fummo, per troppo tempo in nuovi campi di lavoro, così nominano
gli obblighi giornalieri con la società. Mentre il grande accademico della
banchina ‘Uno’ si diletta ad appagare i clienti di oltre cortina, sempre per lo
Stato che chiede la sua moneta.
Fummo
seviziati al di qua e al di là del muro che avevano eretto con il nome nuovo di
una malattia, di una condizione, di una punizione, di una futura morte. Una
parola nuova per una pratica antica. Se al di là del muro prendevamo coscienza
del nostro essere, le condizioni di vita divenivano pessime. La casta non
ammette privilegi e pensieri impropri. La presa di coscienza per enorme beffa
di tutti deve avvenire al di là del muro che frappongono fra la vittima e il
politico, il corrotto, il violento, il burocrate e tutti i rimanenti nomi che
riserva il vocabolario che solo appena riesce ad assolvere il compito cui
incaricato in questa biblioteca che chiamano società civile.
Chi,
guardandosi riconosce ancora il proprio volto riflesso su uno specchio d’acqua
che non sia una nuova vetrina, conoscerà la punizione e la condanna certa. Chi,
canta questo mal di vivere, che non sia un accademico, è spacciato dallo stesso
virus, da lui cercato e combattuto con un ‘farmaco nuovo’. L’esperimento è
gioia e diletto nella pratica del campo. Non vi era possibilità di ripresa
fisica. Si veniva colpiti nello spirito e nell’anima, con il compiacente consulente
prestato alla facile pensione.
Si è mortificati con la pratica della calunnia e dell’umiliazione pubblica. Si deve essere colpevoli di tutto il malfunzionamento burocratico e contabile della baleniera. Quando c’è da far bella mostra di sé, il possente accademico, nonché direttore, ci dispensa delle sue visite in cella. Altrimenti delega i suoi fidi per la gogna pubblica. Per la maggior parte dei casi, i polveroni sollevati, debbono solo appagare il gusto sadico di qualche idiota impotente, che deve avere la sua rivincita attraverso questa antica usanza del regime.
(Giuliano Lazzari, Storia di un Eretico)
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