PROSEGUE CON LA
TRACOTANZA
SECONDO ATTO
Sono
uomo di Dio, banchiere della sua Divina Parola, nonché custode del Sacro Regno.
Quando inganno la natura lo faccio con il sorriso, quando preparo una guerra lo
faccio con un bicchiere di vino, lo divoro con l’agnello, sono io il lupo nel
folto del bosco. Lo perseguitiamo per insegnare al popolo chi è il Diavolo in
codesto reame, e con lui anche l’uomo che forse l’ha nutrito, Diavolo o
Bandito, qui tutto l’esercito schiero per debellare il male.
Tutto
il popolo rassicuro quando osservo il panorama da questa grande loggia; la
povera serva lo sa, per questo si aggrazia ogni mattina per non essere da meno
della giumenta cui godo il latte della vita. Affinché ogni mia voglia desiderio
e credo, si possano deliziare e soddisfare così come Dio intende volere e piacere accompagnati all’istinto
appagato, nel nome del peccato da me e per sempre perseguitato.
Sono
anche Giudice, e quando condanno il pover’uomo sulla forca, quello che cercò la
sua sposa in un’anima prigioniera della stessa sventura, e di lei si impossessò
liberandola dalla tortura…, recito la mia preghiera affinché Dio allontani
codesta malsana e deviata natura. Io lo giudicai reo di assassinio nei
confronti di un contadino a cui aveva rubato il quotidiano peccato: moglie
sposata o bestia accudita non fa differenza nell’arcana mia scienza, per la
legge è serva di Dio e anche del villano nominato nella sentenza, mai di certo
il cuore suo batteva per un Trovatore in cerca di una diletta.
Si raccontò poi,
molti anni dopo,
che i due furon rivisti
in cima alla pietra…,
d’una antica collina.
Due lupi animano la piazza,
ululando la loro pena
ad una città interdetta.
Illuminano così le notti
di troppi bigotti,
perché nel parlare di queste
povere bestie,
confondono ragione e fede.
Convinti che la coscienza
mal riposta del loro peccato,
riposa ora in un nuovo latrato.
Incubi e sudori tutte le sere,
mentre i due lupi vegliano
la strana fede,
nel perimetro di un recinto
di bestie sommesse,
che al belare della preghiera
han fatto la loro promessa…,
di una sicura difesa.
Contro i due diavoli e le loro notti,
contro le tenebre ed oscure
promesse.
Strane passioni in strane parole,
che vagano ora alla luce del
sole.
Il popolo è pecora nell’ora
dove l’anima cammina
e non più implora.
L’uomo è lupo
con la donna sua sposa,
nella corsa di una lupa,
donna mai morta.
Gli occhi loro fin troppo
belli,
e felici di nuovo.
La lingua fra i denti
non implora perdono.
Parlare della loro storia
e cantarne in silenzio..,
il fuoco mai spento.
Perché un altro Dio
li ha restituiti al vento,
di un’antica eresia…,
…..senza tempo.
Il gregge si unisce…,
così come è suo dovere,
e il buon pastore lo conta
come pecunia
del ricco padrone,
…così come si deve!
Nella notte profonda
che ora diviene
solo tormento,
il pastore comanda
al fedele cane..,
di navigare nello scuro mare.
La sua Terra deve liberare
da chi la vuol azzannare.
Per un lupo che non è più bestia,
ma solo un incubo
che attende vendetta.
Sarà che son io che li ho creati
e poi anche allevati.
I loro racconti mai morti
son diventate rocce nascoste
di tante anime sospese,
sacrificate nel folle momento
di un terremoto figlio
del loro tempo.
Sarà che son io,
che li ho visti parlare,
l’ululato muto è spirato,
soffocato nell’urlo violento
di un intero popolo
che grida contento.
Sarà che son io,
che ho visto quel vile,
sommesso chiuso nell’ovile,
e nel perimetro ristretto
vicino ad un tempio.
Di guardia solo un pastore,
cane fedele a tutte le preghiere,
…a contare i miseri agnelli,
rubati e pascolati
come tanti denari.
Pecunia di Dio
e di un cane pastore,
ora non morde ma conta le ore
mentre veglia la croce.
Mentre i due lupi
mi han ricambiato
la cortesia,
parola appena intuita
dalla pecunia assopita.
Ora restituita alla memoria.
Giammai il perdono
di un peccato mai celebrato,
ma solo la rima
che ridona parola,
ad una vita senza onore e gloria.
Sacrificata sulla piazza
come bestia braccata,
senza nemmeno un’ultima speranza
per la pecora
….che ora avanza.
Muta pecunia che conta l’ora,
sogno di un Dio
…..e la sua parola.
(Giuliano Lazzari; Frammenti in Rima)
A partire dal Rinascimento l’individuo si muove con maggiore autonomia, fisicamente e spiritualmente. Holbein contribuì molto all’affermarsi di questa tradizione nell’arte dell’Europa settentrionale. Difficilmente ciò sarebbe stato possibile senza la finezza e gli artifici di una nuova tecnica pittorica, capace tra l’altro di dare profondità all’immagine come là dove Holbein raffigura uno dei due diplomatici con un piede più vicino all’osservatore, il quale avrà ancora di più l’impressione di essere di fronte a persone reali in uno spazio tridimensionale; tutti sintomi di indebolimento dell’antico ordine sociale.
Dipinto
quando l’artista aveva tra i trenta e i quarant’anni, e al culmine della forza
creativa, ‘Gli ambasciatori’ è una magnifica illustrazione della discontinuità
tra vecchio e nuovo ordine sociale.
I
due uomini del dipinto erano i rappresentanti della Francia presso la corte
inglese, e in questo senso il titolo attuale è corretto. Alcuni lo contestano
per le stesse ragioni per cui gli appassionati di Mozart si oppongono all’uso
di termini non scelti dal musicista per denominare le sue composizioni. Nessuno
si aspetta che un titolo possa dire tutto il dipinto, ma almeno non dovrebbe
essere fuorviante.
Chiamare l’imponente quadro di Holbein semplicemente ‘Gli Ambasciatori’ significa presentarlo prima di tutto e soprattutto come un ritratto, e sollevare questioni che non hanno mai avuto una risposta soddisfacente – perché in realtà il dipinto rappresenta anche molte altre cose.
Se
l’opera sembra suggerire innumerevoli commenti e interpretazioni non è tanto a
causa delle biografie dei due uomini che essa raffigura, quanto per gli
strumenti che affollano lo scaffale e occupano il centro della composizione,
senza contare il teschio fortemente deformato e inclinato che è in primo piano
vicino al bordo inferiore.
Senza dubbio, le allusioni al mondo della cultura e alla transitorietà della vita umana intendono illuminare le personalità, i precedenti e le aspirazioni dei due diplomatici; eppure, per ragioni tutt’altro che ovvie, Holbein sembra aver dato loro uno speciale risalto. Perlopiù, le prime spiegazioni di questo fatto singolare sono state di tipo generale.
[…..]
Ciò che viene affermato esplicitamente dalla scuola di Marburgo costituisce lo spirito del pensiero rinascimentale, e tutta la storia della cultura è in gran parte occupata da una sorta di guerra contro la vita, per costringerla interamente entro un sistema di schemi. Ma va anche rilevato, e merita una grandissima risata interiore, che l’uomo moderno cerca tenacemente di spacciare questa alterazione, questa deformazione del naturale modo umano di pensare e di sentire, questa rieducazione nello spirito del nichilismo come una sorta di ritorno alla naturalità, come la liberazione da chissà quali pastoie che chissà chi gli avrebbe imposto, con l’esito non secondario che, a forza di voler raschiar via dall’anima umana tutte le tracce della storia, si finisce con il cancellare l’anima stessa.
Da
quanto detto fin qui si capisce che le premesse di una concezione realistica
della vita sono sempre state e sempre saranno le seguenti: ci sono delle
realtà, ci sono cioè dei centri dell’essere, dei grumi di essere che sono
soggetti a leggi loro proprie e che hanno perciò, ciascuno, una propria forma;
per questo nulla di ciò che esiste può essere considerato alla stregua di un
materiale indifferenziato e passivo, destinato a rientrare a ogni costo in un
qualche schema e, tanto meno, ad adeguarsi allo schema dello spazio
euclideo-kantiano; per questo, ancora, le forme devono essere concepite in base
alla loro vita e devono essere raffigurate in sé e per sé, secondo il modo in
cui sono state concepite, e non in base alle angolazioni di una prospettiva
predeterminata sin dall’inizio.
Ne dobbiamo dedurre che, quale che sia il nostro giudizio circa la prospettiva nella sua sostanza, non abbiamo alcun diritto di considerarla come un modo semplice e naturale di vedere il mondo, intrinsecamente proprio all’occhio umano in quanto tale. Il fatto che nel corso di tanti secoli tutta una serie di grandi pensatori e di pittori di vastissima esperienza, con la collaborazione di matematici di prim’ordine, abbia sentito la necessità di elaborare una dottrina della prospettiva, e ancor di più il fatto evidente che ciò sia avvenuto dopo aver individuato i tratti fondamentali della proiezione prospettica del mondo, ci induce a pensare che, quando si parla di storia dell’elaborazione della prospettiva, non si tratti affatto della semplice sistematizzazione di una qualche psicofisiologia umana già presente, ma della rieducazione forzata di tale psicofisiologia nel senso delle esigenze astratte di una nuova concezione del mondo, la quale è essenzialmente antiartistica, cioè in buona sostanza esclude da sé l’arte, e in particolare l’arte figurativa.
Ma l’anima del Rinascimento, e in generale
l’anima dell’Età moderna, è un’anima divisa, scissa, dualistica nelle sue idee.
[…]Comunque sia, persino i teorici della prospettiva non hanno rispettato e non hanno ritenuto necessario rispettare l’unità prospettica della raffigurazione.
E,
dopo questo, come si potrebbe parlare ancora del carattere naturale
dell’immagine prospettica del mondo?
In
che cosa sarebbe naturale questo carattere, che prima bisogna carpire quasi
spiandolo e che poi, solo a prezzo di grandissimi sforzi e di una continua tensione
della coscienza, si può sviluppare in modo da non commettere errori che
trasgrediscano le regole appena apprese?
Non
ricordano piuttosto, queste regole, un complotto basato su convenzioni, e
organizzato in nome di intenti teorici, contro la percezione naturale del mondo
e a favore di un quadro fittizio della realtà che, secondo la concezione del
mondo umanista, bisogna vedere, ma che l’occhio umano, nonostante tutto il suo
allenamento, non vede affatto, e che l’artista si confessa incapace di vedere
solo quando passa dalle costruzioni geometriche a ciò che effettivamente
percepisce?
Fino a che punto il disegno prospettico non sia qualcosa di immediatamente comprensibile, ma al contrario sia piuttosto il prodotto di tutta una serie di complesse convenzioni artificiali, è una cosa di cui ci si può rendere conto in maniera assolutamente convincente se si considerano gli strumenti che lo stesso Albrecht Dürer ha splendidamente raffigurato nelle xilografie delle sue Istruzioni sulle misurazioni.
Gli
storici della pittura, dunque, ma anche i teorici delle arti figurative,
cercano, o per lo meno cercavano ancora fino a poco tempo fa, di convincere il
loro pubblico che la raffigurazione prospettica del mondo sia l’unica corretta,
in quanto sarebbe l’unica corrispondente a una percezione autentica, dato che
la percezione naturale sarebbe appunto quella prospettica.
Se
si accetta una simile premessa, lo scostamento dall’unità prospettica verrà
sempre considerato un tradimento della verità della percezione, cioè una
deformazione della realtà stessa, dovuta vuoi all’incompetenza grafica
dell’artista, vuoi al desiderio di adattare il disegno a un qualche obiettivo
cosciente: ornamentale, scenografico o, nel migliore dei casi, compositivo. In
un caso o nell’altro, nel tipo di giudizio appena descritto, lo scostamento
dalle norme dell’unità prospettica viene visto come una forma di irrealismo.
Va però notato che sia la parola sia il concetto di realtà sono troppo importanti perché i fautori dell’una o dell’altra concezione del mondo restino indifferenti di fronte alla possibilità che la realtà cessi di essere dalla loro e passi invece ai loro avversari. E, prima di fare una simile concessione, occorre valutare bene se essa sia proprio inevitabile.
E
lo stesso vale per la parola naturale.
A
chi non farebbe piacere vedere la propria posizione considerata reale e
naturale, cioè come qualcosa che deriva, senza alcuna ingerenza intenzionale,
dalla realtà stessa?
I
sostenitori della concezione rinascimentale della vita, dopo aver sottratto al
platonismo e ai suoi eredi medioevali queste parole preziose, le hanno fatte
proprie, usandone e abusandone. Ma a nostro avviso non è questo un motivo
sufficiente per lasciare i valori della lingua in bocca a quanti ne abusano: la
realtà e la naturalità vanno mostrate nei fatti e non basta avanzare nei loro
confronti delle vuote pretese. Il nostro compito è quello di restituire queste
parole ai discendenti dei loro legittimi detentori.
Come abbiamo precedentemente spiegato, per disegnare e dipingere in maniera naturale, cioè secondo le leggi della prospettiva, bisogna imparare a farlo, e questo vale per interi popoli e per intere culture, esattamente come vale, ogni volta da capo, per le singole persone. Un bambino non disegna secondo le leggi della prospettiva; e non disegna secondo le leggi della prospettiva neppure un adulto che prenda in mano una matita per la prima volta, per lo meno finché non viene addestrato a farlo in base a modelli ben precisi. Ma anche chi ha studiato, e persino chi ha studiato molto, cade facilmente in errore o, per essere più esatti, con la sincerità che viene dalla spontaneità, qua e là accantona le rigide convenzioni dell’unità prospettica.
In
particolare, saranno ben pochi quelli che si metteranno a disegnare una sfera
con un contorno ellittico, o un colonnato, parallelo al piano del quadro, con
le colonne che si allargano progressivamente, benché sia proprio questo che
esige una proiezione prospettica.
È
forse così raro il caso di grandi artisti accusati di aver commesso errori di
prospettiva?
Errori di questo tipo sono sempre possibili, in particolare quando si tratta di disegni complessi dal punto di vista compositivo, e di fatto possono essere evitati solo quando il disegno viene sostituito da un disegno tecnico nel quale siano tracciate linee di riferimento ausiliarie. Ma allora il disegnatore rappresenta non ciò che vede fuori di sé o dentro di sé – delle figure immaginate e tuttavia presenti, e non soltanto astrattamente concepite –, ma ciò che esige il calcolo delle costruzioni geometriche, che, secondo il parere di questo disegnatore (basato su una concezione troppo ristretta della geometria), è un calcolo naturale e, quindi, anche l’unico tipo di calcolo ammissibile.
Ma
si possono davvero definire naturali dei procedimenti figurativi che, senza le
stampelle del disegno geometrico, non riesce pienamente a padroneggiare neppure
chi su di essi, per lunghi anni e con grande rigore, ha cercato di plasmare il
proprio occhio e la propria concezione del mondo?
E,
in questo senso, gli errori di prospettiva non stanno forse a indicare, più che
la debolezza dell’artista, la sua stessa forza, la forza della sua autentica
percezione che sa infrangere le pastoie della pressione sociale?
In effetti l’apprendimento delle leggi della prospettiva è davvero una sorta di indottrinamento, persino quando chi inizia a disegnare si sforza volontariamente di assoggettare il proprio disegno a queste leggi, ciò non sempre significa che egli ne abbia capito il senso, cioè che abbia capito il senso artistico-figurativo delle esigenze della prospettiva: ripensando ai tempi della loro infanzia, molti non ricorderanno forse che il carattere prospettico del disegno appariva come una convenzione incomprensibile, pur essendo imposta a tutti per un motivo misterioso, come un usus tyrannus al quale ci si sottomette non certo in forza della sua verità intrinseca, ma perché così fan tutti.
(Pavel Florenskij)
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