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Il bastone del Filosofo (13/4)
E
per questo occorreva ghigliottinare l’autore, quando intanto nulla si crea e
nulla si distrugge? O lo si è ucciso per farlo tacere su ciò che fingendo rivelava,
come Newton che tanta ala vi stese ma continuava a meditare sulla Gabbala e
sulle essenze qualitative?
La
sala Lavoisier del Conservatoire è una confessione, un messaggio cifrato, una
epitome del conservatorio tutto, irrisione dell’orgoglio del pensiero forte
della ragione moderna, sussurro di altri misteri. Jacopo Belbo aveva ragione,
la Ragione aveva torto. Mi affrettavo, l’ora incombeva.
Ecco
il metro, e il chilo, e le misure, false garanzie di garanzia. L’avevo appreso
da Agliè che il segreto delle Piramidi si rivela se non le calcoli in metri, ma
in antichi cubiti. Ecco le macchine aritmetiche, fittizio trionfo del
quantitativo, in verità promessa delle qualità occulte dei numeri, ritorno alle
origini del Notaríkon dei rabbini in fuga per le lande d’Europa.
Astronomia,
orologi, automi, guai a intrattenermi tra quelle nuove rivelazioni. Stavo penetrando
nel cuore di un messaggio segreto in forma di Theatrum razionalista, presto
presto, avrei esplorato dopo, tra la chiusura e la mezzanotte, quegli oggetti
che nell’obliqua luce del tramonto assumevano il loro vero volto, figure, non
strumenti. Su, attraverso le sale dei mestieri, dell’energia, dell’elettricità,
tanto in quelle vetrine non avrei potuto nascondermi. Man mano che scoprivo o
intuivo il senso di quelle sequenze ero preso dall’ansia di non aver tempo di
trovare il nascondiglio per assistere alla rivelazione notturna della loro
ragione segreta.
Ormai
mi muovevo come un uomo braccato – dall’orologio e dall’orrido avanzare del
numero.
La
terra girava inesorabile, l’ora veniva, tra un poco mi avrebbero cacciato. Sino
a che, attraversata la galleria dei dispositivi elettrici, giunti alla saletta dei
vetri. Quale illogica aveva disposto che oltre gli apparecchi più avanzati e
costosi dell’ingegno moderno dovesse esserci una zona riservata a pratiche che
furono note ai fenici, millenni fa?
Sala
collettanea, era questa, che alternava porcellane cinesi e vasi androgini di Lalique,
poteries, maioliche, faenze, muranerie, e in fondo, in una teca enorme, in
grandezza naturale e a tre dimensioni, un leone che uccideva un serpente. La
ragione apparente di quella presenza era che il gruppo figurava interamente
realizzato in pasta di vetro, ma la ragione emblematica doveva essere un’altra...
Cercavo
di ricordarmi dove avessi già scorto quell’immagine.
Poi
ricordai.
Il
Demiurgo, l’odioso prodotto della Sophia, il primo arconte, Ildabaoth, il responsabile
del mondo e del suo radicale difetto, aveva la forma di un serpente e di un
leone, e i suoi occhi gettavano una luce
di fuoco. Forse l’intero Conservatoire era un’immagine del processo infame per
cui, dalla pienezza del primo principio, il Pendolo, e dal fulgore del Pleroma,
di eone in eone, l’Ogdoade si sfalda e si perviene al regno cosmico, dove regna
il Male…
…Ma
allora quel serpente, e quel leone, mi stavano dicendo che il mio viaggio
iniziatico – ahimè à
rebours –
era ormai terminato, e tra poco avrei rivisto il mondo, non come dev’essere, ma
come è. E infatti notai che nell’angolo destro, contro una finestra, stava la garitta
del Periscope.
Entrai.
Mi
trovai davanti a una lastra vitrea, come una plancia di comando, su cui vedevo
muoversi le immagini di un film, molto sfocate, uno spaccato di città. Poi mi
accorsi che l’immagine era proiettata da un altro schermo, posto sopra il mio
capo, dove appariva rovesciata, e questo secondo schermo era l’oculare di un periscopio
rudimentale, fatto per così dire di due scatoloni incastrati ad angolo ottuso,
con la scatola più lunga che si protendeva a mo’ di tubo fuori della garitta,
sopra la mia testa e dietro le mie spalle, raggiungendo una finestra superiore da
cui, certo per un gioco interno di lenti che gli consentiva un grande angolo di
visione, captava le immagini esterne.
Calcolando
il percorso che avevo fatto salendo, capii che il periscopio mi permetteva di
vedere l’esterno come se guardassi dalle vetrate superiori dell’abside di Saint-Martin
- come se guardassi appeso al Pendolo, ultima visione di un impiccato.
Adattai
meglio la pupilla a quell’immagine scialba: potevo ora vedere la rue Vaucanson,
su cui dava il coro, e la rue Conté, che idealmente prolungava la navata. Rue
Conté sfociava su me Montgolfier a sinistra e me de Turbigo a destra, due bar
agli angoli, Le Week End e La Rotonde, e di fronte una facciata su cui spiccava
la scritta, che decifrai a fatica, LES CREATIONS JACSAM.
Il
periscopio.
Non
così ovvio che fosse nella sala delle vetrerie anziché in quella degli
strumenti ottici, segno che era importante che la prospezione dell’esterno
avvenisse in quel luogo, con quell’orientamento, ma non capivo le ragioni della
scelta. Perché questo cubicolo, positivistico e verniano, accanto al richiamo
emblematico del leone e del serpente?
In
ogni caso, se avessi avuto la forza e il coraggio di restare lì ancora per
poche decine di minuti, forse il guardiano non mi avrebbe visto. E sottomarino
rimasi per un tempo che mi parve lunghissimo. Sentivo i passi dei ritardatari,
quello degli ultimi custodi. Fui tentato di rannicchiarmi sotto la plancia, per
sfuggire meglio a un’eventuale sbirciata distratta, poi mi trattenni, perché
restando in piedi, se mi avessero scoperto, avrei sempre potuto fingere di
essere un visitatore assorto, rimasto a godersi il prodigio.
Poco
dopo si spensero le luci e la sala restò avvolta nella penombra, la garitta
diventò meno buia, tenuamente illuminata dallo schermo che continuavo a fissare
perché rappresentava l’ultimo mio contatto col mondo. La prudenza voleva che
restassi in piedi, e se i piedi mi dolevano, accovacciato, almeno per due ore.
L’ora
di chiusura per i visitatori non coincide con quella di uscita degli impiegati.
Mi colse il terrore delle pulizie: e se ora avessero incominciato a ripulire
tutte le sale, palmo per palmo?
Poi
pensai che, visto che alla mattina il museo apriva tardi, gli inservienti avrebbero
lavorato alla luce del giorno e non alla sera. Doveva essere così, almeno nelle
sale superiori, perché non sentivo passare più nessuno. Solo dei brusii
lontani, qualche rumore secco, forse porte che si chiudevano.
Dovevo
restare fermo.
Avrei
avuto tempo di raggiungere la chiesa tra le dieci e le undici, forse dopo,
perché i signori sarebbero venuti solo verso la mezzanotte. In quel momento un
gruppo di giovani usciva dalla Rotonde. Una ragazza passava in rue Conté, girando
in rue Montgolfier. Non era una zona molto frequentata, avrei resistito ore ed
ore guardando il mondo insipido che avevo dietro le spalle?
Ma
se il periscopio era lì, non avrebbe dovuto inviarmi messaggi di qualche
segreto rilievo?
Sentivo
venire il bisogno di orinare: bisognava non pensarci, era un fatto nervoso. Quante
cose ti vengono in mente quando sei solo e clandestino in un periscopio. Deve
essere la sensazione di chi si nasconde nella stiva di una nave per emigrare lontano.
Infatti la meta finale sarebbe stata la statua della Libertà, con il diorama di
New York. Avrebbe potuto sopravvenire la sonnolenza, forse sarebbe stato un bene.
No,
avrei potuto risvegliarmi troppo tardi...
La
più temibile sarebbe stata una crisi di angoscia: quando hai la certezza che
tra un istante griderai.
Periscopio,
sommergibile, bloccato sul fondo, forse intorno già ti navigano grandi pesci
neri degli abissi, e non li vedi, e tu sai solo che ti sta mancando l’aria...
Respirai
profondamente più volte.
Concentrazione.
L’unica
cosa che in quei momenti non ti tradisce è la lista della lavandaia. Riandare
ai fatti, elencarli, individuarne le cause, gli effetti. Sono arrivato a questo
punto per questo, e per quest’altro motivo...
Sopravvennero
i ricordi, nitidi, precisi, ordinati.
I
ricordi degli ultimi frenetici tre giorni, poi degli ultimi due anni, confusi
con i ricordi di quarant’anni prima, come li avevo ritrovati violando il
cervello elettronico di Jacopo Belbo. Ricordo (e ricordavo), per dare un senso
al disordine della nostra creazione sbagliata.
Ora,
come l’altra sera nel periscopio, mi contraggo in un punto remoto della mente
per emanarne una storia. Come il Pendolo. Diotallevi me lo aveva detto, la
prima sefirah è Keter, la Corona, l’origine, il vuoto primordiale. Egli creò
dapprima un punto, che divenne il Pensiero, ove disegnò tutte le figure...
Era
e non era, chiuso nel nome e sfuggito al nome, non aveva ancora altro nome che ‘Chi?’,
puro desiderio di essere chiamato con un nome...
In
principio egli tracciò dei segni nell’aura, una vampa scura scaturì dal suo
fondo più segreto, come una nebbia senza colore che dia forma all’informe, e non
appena essa cominciò a distendersi, al suo centro si formò una scaturigine di
fiamme che si riversarono a illuminare i zefiro inferiori, giù sino al Regno. Ma
forse in questo simsum, in questo ritiro, in
questa solitudine, diceva Diotallevi, c’era già la promessa del tiqqun, la promessa del ritorno…
(U.
Eco)
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