giuliano

domenica 11 novembre 2018

...E GLI ALTRI CHI SONO? (12)




















































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Ti sei lì e sei tu! (11/1)

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Il bastone del Filosofo (13/4)













E per questo occorreva ghigliottinare l’autore, quando intanto nulla si crea e nulla si distrugge? O lo si è ucciso per farlo tacere su ciò che fingendo rivelava, come Newton che tanta ala vi stese ma continuava a meditare sulla Gabbala e sulle essenze qualitative?

La sala Lavoisier del Conservatoire è una confessione, un messaggio cifrato, una epitome del conservatorio tutto, irrisione dell’orgoglio del pensiero forte della ragione moderna, sussurro di altri misteri. Jacopo Belbo aveva ragione, la Ragione aveva torto. Mi affrettavo, l’ora incombeva.

Ecco il metro, e il chilo, e le misure, false garanzie di garanzia. L’avevo appreso da Agliè che il segreto delle Piramidi si rivela se non le calcoli in metri, ma in antichi cubiti. Ecco le macchine aritmetiche, fittizio trionfo del quantitativo, in verità promessa delle qualità occulte dei numeri, ritorno alle origini del Notaríkon dei rabbini in fuga per le lande d’Europa.




Astronomia, orologi, automi, guai a intrattenermi tra quelle nuove rivelazioni. Stavo penetrando nel cuore di un messaggio segreto in forma di Theatrum razionalista, presto presto, avrei esplorato dopo, tra la chiusura e la mezzanotte, quegli oggetti che nell’obliqua luce del tramonto assumevano il loro vero volto, figure, non strumenti. Su, attraverso le sale dei mestieri, dell’energia, dell’elettricità, tanto in quelle vetrine non avrei potuto nascondermi. Man mano che scoprivo o intuivo il senso di quelle sequenze ero preso dall’ansia di non aver tempo di trovare il nascondiglio per assistere alla rivelazione notturna della loro ragione segreta.

Ormai mi muovevo come un uomo braccato – dall’orologio e dall’orrido avanzare del numero.

La terra girava inesorabile, l’ora veniva, tra un poco mi avrebbero cacciato. Sino a che, attraversata la galleria dei dispositivi elettrici, giunti alla saletta dei vetri. Quale illogica aveva disposto che oltre gli apparecchi più avanzati e costosi dell’ingegno moderno dovesse esserci una zona riservata a pratiche che furono note ai fenici, millenni fa?




Sala collettanea, era questa, che alternava porcellane cinesi e vasi androgini di Lalique, poteries, maioliche, faenze, muranerie, e in fondo, in una teca enorme, in grandezza naturale e a tre dimensioni, un leone che uccideva un serpente. La ragione apparente di quella presenza era che il gruppo figurava interamente realizzato in pasta di vetro, ma la ragione emblematica doveva essere un’altra...

Cercavo di ricordarmi dove avessi già scorto quell’immagine.

Poi ricordai.

Il Demiurgo, l’odioso prodotto della Sophia, il primo arconte, Ildabaoth, il responsabile del mondo e del suo radicale difetto, aveva la forma di un serpente e di un leone, e i suoi  occhi gettavano una luce di fuoco. Forse l’intero Conservatoire era un’immagine del processo infame per cui, dalla pienezza del primo principio, il Pendolo, e dal fulgore del Pleroma, di eone in eone, l’Ogdoade si sfalda e si perviene al regno cosmico, dove regna il Male…




…Ma allora quel serpente, e quel leone, mi stavano dicendo che il mio viaggio iniziatico – ahimè à rebours – era ormai terminato, e tra poco avrei rivisto il mondo, non come dev’essere, ma come è. E infatti notai che nell’angolo destro, contro una finestra, stava la garitta del Periscope.

Entrai.

Mi trovai davanti a una lastra vitrea, come una plancia di comando, su cui vedevo muoversi le immagini di un film, molto sfocate, uno spaccato di città. Poi mi accorsi che l’immagine era proiettata da un altro schermo, posto sopra il mio capo, dove appariva rovesciata, e questo secondo schermo era l’oculare di un periscopio rudimentale, fatto per così dire di due scatoloni incastrati ad angolo ottuso, con la scatola più lunga che si protendeva a mo’ di tubo fuori della garitta, sopra la mia testa e dietro le mie spalle, raggiungendo una finestra superiore da cui, certo per un gioco interno di lenti che gli consentiva un grande angolo di visione, captava le immagini esterne.




Calcolando il percorso che avevo fatto salendo, capii che il periscopio mi permetteva di vedere l’esterno come se guardassi dalle vetrate superiori dell’abside di Saint-Martin - come se guardassi appeso al Pendolo, ultima visione di un impiccato.

Adattai meglio la pupilla a quell’immagine scialba: potevo ora vedere la rue Vaucanson, su cui dava il coro, e la rue Conté, che idealmente prolungava la navata. Rue Conté sfociava su me Montgolfier a sinistra e me de Turbigo a destra, due bar agli angoli, Le Week End e La Rotonde, e di fronte una facciata su cui spiccava la scritta, che decifrai a fatica, LES CREATIONS JACSAM.

Il periscopio.




Non così ovvio che fosse nella sala delle vetrerie anziché in quella degli strumenti ottici, segno che era importante che la prospezione dell’esterno avvenisse in quel luogo, con quell’orientamento, ma non capivo le ragioni della scelta. Perché questo cubicolo, positivistico e verniano, accanto al richiamo emblematico del leone e del serpente?

In ogni caso, se avessi avuto la forza e il coraggio di restare lì ancora per poche decine di minuti, forse il guardiano non mi avrebbe visto. E sottomarino rimasi per un tempo che mi parve lunghissimo. Sentivo i passi dei ritardatari, quello degli ultimi custodi. Fui tentato di rannicchiarmi sotto la plancia, per sfuggire meglio a un’eventuale sbirciata distratta, poi mi trattenni, perché restando in piedi, se mi avessero scoperto, avrei sempre potuto fingere di essere un visitatore assorto, rimasto a godersi il prodigio.




Poco dopo si spensero le luci e la sala restò avvolta nella penombra, la garitta diventò meno buia, tenuamente illuminata dallo schermo che continuavo a fissare perché rappresentava l’ultimo mio contatto col mondo. La prudenza voleva che restassi in piedi, e se i piedi mi dolevano, accovacciato, almeno per due ore.

L’ora di chiusura per i visitatori non coincide con quella di uscita degli impiegati. Mi colse il terrore delle pulizie: e se ora avessero incominciato a ripulire tutte le sale, palmo per palmo?

Poi pensai che, visto che alla mattina il museo apriva tardi, gli inservienti avrebbero lavorato alla luce del giorno e non alla sera. Doveva essere così, almeno nelle sale superiori, perché non sentivo passare più nessuno. Solo dei brusii lontani, qualche rumore secco, forse porte che si chiudevano.




Dovevo restare fermo.

Avrei avuto tempo di raggiungere la chiesa tra le dieci e le undici, forse dopo, perché i signori sarebbero venuti solo verso la mezzanotte. In quel momento un gruppo di giovani usciva dalla Rotonde. Una ragazza passava in rue Conté, girando in rue Montgolfier. Non era una zona molto frequentata, avrei resistito ore ed ore guardando il mondo insipido che avevo dietro le spalle?

Ma se il periscopio era lì, non avrebbe dovuto inviarmi messaggi di qualche segreto rilievo?

Sentivo venire il bisogno di orinare: bisognava non pensarci, era un fatto nervoso. Quante cose ti vengono in mente quando sei solo e clandestino in un periscopio. Deve essere la sensazione di chi si nasconde nella stiva di una nave per emigrare lontano. Infatti la meta finale sarebbe stata la statua della Libertà, con il diorama di New York. Avrebbe potuto sopravvenire la sonnolenza, forse sarebbe stato un bene.




No, avrei potuto risvegliarmi troppo tardi...

La più temibile sarebbe stata una crisi di angoscia: quando hai la certezza che tra un istante griderai.

Periscopio, sommergibile, bloccato sul fondo, forse intorno già ti navigano grandi pesci neri degli abissi, e non li vedi, e tu sai solo che ti sta mancando l’aria...

Respirai profondamente più volte.

Concentrazione.

L’unica cosa che in quei momenti non ti tradisce è la lista della lavandaia. Riandare ai fatti, elencarli, individuarne le cause, gli effetti. Sono arrivato a questo punto per questo, e per quest’altro motivo...

Sopravvennero i ricordi, nitidi, precisi, ordinati.




I ricordi degli ultimi frenetici tre giorni, poi degli ultimi due anni, confusi con i ricordi di quarant’anni prima, come li avevo ritrovati violando il cervello elettronico di Jacopo Belbo. Ricordo (e ricordavo), per dare un senso al disordine della nostra creazione sbagliata.

Ora, come l’altra sera nel periscopio, mi contraggo in un punto remoto della mente per emanarne una storia. Come il Pendolo. Diotallevi me lo aveva detto, la prima sefirah è Keter, la Corona, l’origine, il vuoto primordiale. Egli creò dapprima un punto, che divenne il Pensiero, ove disegnò tutte le figure...

Era e non era, chiuso nel nome e sfuggito al nome, non aveva ancora altro nome che ‘Chi?’, puro desiderio di essere chiamato con un nome...

In principio egli tracciò dei segni nell’aura, una vampa scura scaturì dal suo fondo più segreto, come una nebbia senza colore che dia forma all’informe, e non appena essa cominciò a distendersi, al suo centro si formò una scaturigine di fiamme che si riversarono a illuminare i zefiro inferiori, giù sino al Regno. Ma forse in questo simsum, in questo ritiro, in questa solitudine, diceva Diotallevi, c’era già la promessa del tiqqun, la promessa del ritorno… 

(U. Eco)

















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