giuliano

sabato 8 gennaio 2022

8 GENNAIO






















Precedenti capitoli:


Dogmatismo e Dogmatica  (1/2)


Prosegue con il...:


Riconciliare gli inconciliabili  (4)  &  [5]







Le fotografie che illustrano il presente 'post' non hanno un preciso

ordine con il testo rappresentato, solo la volontà circa la pace a 

cui Paolo aspirava, ed in cui anch'io spero e credo! 







All’inizio dell’estate andai con mio padre a Kutaisi, dove egli aveva trascorso quell’ultimo anno venendoci a trovare solo per le feste. Là, nella quiete, solo con mio padre o completamente solo, molto lessi e molto osservai con un interesse che, tuttavia, scivolava sulla superficie e non mi forzava a dare risposte.

 

A Kutaisi, inoltre, viveva Vladimir Egorovič Vorob’ëv, mio ex insegnante e ora ispettore presso le scuole popolari. Tra noi non si instaurarono rapporti di sorta, però Vorob’ëv mi riforniva di libri. Potei dunque leggere alcune annate del ‘Mir iskusstva’, di ‘Russkaja mysl’’ ecc. Era per me una lettura lieve, che recepivo solo con l’ingegno, mentre nel profondo ero intento ad altre riflessioni. Non colsi nemmeno l’acume dello studio di Merežkovskij su Tolstoj e Dostoevskij, al quale di lì a un anno avrei riservato un’attenzione estrema, quasi spasmodica. Nella biblioteca cittadina trovai alcuni libri di fisica e di spiritismo. L’abitudine mi costrinse a leggere gli uni e gli altri, ma dai primi interiormente cominciavo già a prendere le distanze, mentre il timbro spirituale dei secondi, pur senza negare l’autenticità dei fenomeni stessi, mi era estraneo.




Più allettante mi parve un libro che da allora non vidi più, un libro di Dale Owen che riportava lunghe descrizioni di alcuni casi misteriosi: di come Emélie Sagée, governante baltica, avesse una sosia, di una spinetta appartenuta all’amante di Enrico IV ecc.; l’autore raccontava in modo alquanto ingenuo di come, passo dopo passo, egli si fosse accostato allo spiritismo.

 

A Kutaisi era venuto anche mio fratello Šura, che allora aveva anni. Dato che nostro padre era spesso assente, era stato affidato a me. Talvolta mi si faceva carico di alcune incombenze domestiche e di varie disposizioni, quali ordinare il pranzo, consegnare i soldi alla servitù ecc. I privilegi del potere mi inibivano alquanto, ma andavano comunque sopportati. Poco tempo dopo l’arrivo si organizzò un’escursione nella zona di Rača che durò dal 9 al 16 luglio. Per un tratto di strada mio fratello e io saremmo stati scortati da un nostro vecchio amico che lavorava per mio padre, il falegname Amiran, mentre il restante tratto avremmo dovuto percorrerlo da soli.




Per prima cosa prendemmo la ferrovia a scartamento ridotto di Tkvibuli, accanto ai monasteri di Motsamet e di Gelati. I miei appunti dell’epoca registrano prevalentemente impressioni geologiche e fisico-geografiche, e lo stesso dicasi delle immancabili fotografie scattate durante il viaggio: raffreddatomi riguardo alla fisica, tornavo all’infanzia ripercorrendo all’inverso le mie passioni infantili e la geologia mi forniva le basi per rivolgermi alla natura col pretesto di una scientificità dubbia – quanto la geologia, del resto.

 

Oltre i finestrini del vagone si scorgevano dei calcari grigio-azzurri, talvolta coperti da una coltre d’argilla. Gli strati erano deformati, confusi, spesso si presentavano dei corrugamenti. Di tanto in tanto si intravedevano le escrescenze di una specie eruttiva di sienite. Verso le dieci e mezza raggiungemmo Tkvibuli, il più importante bacino carbonifero del Caucaso, e ci fermammo in un duchan, una trattoria locale. In attesa del pranzo annotai delle riflessioni sul panteismo, con alcuni teoremi che svelavano le deduzioni di Spinoza; ci giocavo, provavo per loro una certa ostilità, ma non avevo la forza di ammetterlo.




Dopo pranzo il ragazzo che ci faceva da guida ci portò alle cave di carbone. Dovemmo percorrere quasi cinque verste a piedi. La strada tagliava dapprima gli scisti, poi l’arenaria giurassica; è su di essi che poggia lo strato di lignite. I binari arrivavano fino alla fornace, che allora non era in funzione, così come abbandonate erano anche le cave; di lì, su per la miniera, correva una funicolare per il trasporto del carbone. Salimmo su, verso la miniera e, prese con noi delle lampade di sicurezza Davy – un nome che sin dall’infanzia mi turbava parendomi simile a Faraday –, entrammo. Dalla volta gocciolava dell’acqua, che avvolgeva di una scorza bianca di depositi calcarei la volta e le pareti della miniera; ne penzolavano diverse stalattiti che però, vuote all’interno, erano molto fragili e si sfaldavano tra le mani.




Per terra c’era un fango impenetrabile che ci costrinse a fermarci presto. Ci sentivamo sepolti vivi. ‘Piuttosto che lavorare qui, farei la fame’ disse Amiran da parte sua. Lasciammo la miniera con un senso di liberazione e cominciammo a scendere raccogliendo le more e i mirtilli di cui era coperta l’intera pendice del monte. La cima della catena del Nakeral, con gli abeti che svettavano come setole di cinghiale, era avvolta dalla nebbia. Il giorno dopo, il 10, partimmo a cavallo e, per scorciatoie quanto mai impervie, raggiungemmo il crinale in tre ore. Di tanto in tanto dovevamo smontare da cavallo e tirarlo per le redini.

 

Io disegnai il susseguirsi delle stratificazioni.




Dopo il valico il paesaggio mutò bruscamente. L’aria era pregna di umidità. Tra gli abeti scuri si scorgevano felci simili a grossi cespugli e non c’era alcuna possibilità di farsi largo tra il fitto dei rododendri. Il tempo scorreva senza che ce ne rendessimo conto; ci avvicinammo al laghetto tondo di Charis-Tvali, che si schiudeva come una visione celestiale. Non era grande, cinque sagene in tutto di diametro, ma era molto profondo: stando alle misurazioni del principe Georgij Aleks[androvič], la profondità doveva essere pari a 35 sagene,10 ma c’era chi sosteneva che arrivasse a 60. Il lago era alimentato da affluenti sotterranei; l’acqua era gelida e gradevole al gusto. Era di uno straordinario colore azzurro; non dell’azzurro del cielo, però, che sui monti tende al viola, ma di un verde-azzurro opalescente che ricordava l’acquamarina.

 

Che la fonte che lo alimentava venisse da un ghiacciaio?




Quel pozzo naturale era particolarmente bello quando il respiro dell’aria lo faceva fremere di un’increspatura lucente. Il suo nome georgiano ha lo stesso significato dell’epiteto greco di Era, βωσμίς: occhio di bue. La probabile spiegazione è la presenza lì accanto di un altro laghetto, ancora più piccolo, che però non incanta né quanto a profondità né quanto a colore. L’azzurro misterioso di quel pozzo senza fondo è, ovviamente, la conseguenza di sedimenti minutissimi.

 

Ma di dove venivano quelle particelle che parevano trito di ghiaccio?

 

E ancora: come erano finite lì le trote che vi sguazzavano e che ci mangiammo per colazione nel duchan successivo?

 

Sorse spontaneo il pensiero di un fiume sotterraneo.




Un’idea simile mi faceva battere forte il cuore fin da che ero bambino e avrei dimenticato ogni altra cosa pur di vedere con i miei occhi i fiumi sotterranei di cui mi aveva parlato mio padre. Ora mi trovavo in una zona carsica, dove in un piccolo spazio se ne rinveniva una serie di esempi caratteristici e fulgidi. Pur dedicando loro la debita attenzione, però, pur disegnandoli, fotografandoli e – fedele alla mia disciplina di pensiero – osservandoli in quel museo geologico naturale, non ne ero più turbato con tutto me stesso, anche se non capivo che cosa fosse a distrarmene.

 

Da Charis-Tvali il paesaggio diventava brullo, e l’altopiano calcareo, piuttosto alto, era ingentilito solo da qualche sparuto cespuglio. Allontanatici di circa sette verste dal valico, ci fermammo presso il dirupo del fiume Šaora. Fiume considerevole quanto a dimensioni, esso nasce dalla catena di Nakeral e nel punto in cui ci fermammo scompare completamente sotto terra in alcune crepe calcaree. Sotto l’apertura principale era stato eretto un mulino, e una piccola parte dell’acqua passava attraverso l’argine e scompariva molto più avanti. Nelle pietre calcaree bianche e compatte di quel luogo trovammo molti fossili, conchiglie e coralli simili a rami d’albero; tuttavia non riuscimmo a cavarne dei begli esemplari.

 

Proseguimmo.




Il terreno era scavato da affossamenti di diversa grandezza. Paiono imbuti e durante le piene primaverili, quando lo Šaora straripa tumultuoso e carico d’acqua, servono da deflusso sotterraneo delle acque. Tali buche si formano ogni anno, all’improvviso: tutta la località era un colabrodo di crepe interne e piene. Osservai una delle buche, formatasi – a detta di Amiran – quello stesso anno e perciò non ancora intasata, e addirittura mi ci calai. Era un imbuto nel calcare con un distaccamento lastriforme. La base dell’imbuto era allungata e con il lato maggiore lungo circa tre sagene; la profondità, per quanto era dato di capire, era di un paio di sagene. Il fondo della buca era ben visibile e da esso si dipanavano dei passaggi per il deflusso delle acque. A una mia ispezione quell’affossamento risultò completamente asciutto, così come gli altri.




Nel villaggio di Nikor-Tsminda trovammo altri fenomeni carsici curiosi che vennero ispezionati, disegnati e fotografati anch’essi. La cosiddetta Gola-di-Ghiaccio, di cui mi aveva parlato mio padre, era un vasto ambiente sotterraneo con un accesso a forma di fenditura in superficie, oltre il quale si apriva un pendio impervio. Volendo, la forma della gola può essere definita come un tetraedro con la base rivolta verso l’alto. In basso, presso la parete di fondo, c’erano due o più uscite laterali verso le quali non mi decisi a dirigermi, non avendo con me delle lampade. Le pareti della gola erano bagnate e coperte di un deposito scivoloso, forse di allumina amorfa. All’aria e alla luce esterne l’accesso alla gola era alquanto difficoltoso, perciò, nonostante l’afa di luglio, vi regnavano una penombra e un freddo maggiori di quanto solitamente accada nelle gole.




Ancora di recente, come mi aveva raccontato mio padre, al suo interno restavano per tutto l’anno la neve e il ghiaccio dell’inverno, tanto che le truppe di stanza poco lontano ne avevano usato la neve durante tutta l’estate. Con ogni probabilità, erano state proprio loro a portarla via tutta, cosicché al tempo della nostra visita la gola non giustificava più il suo nome. Era, però, quanto mai interessante, poiché mostrava l’uscita dei fiumi sotterranei: non c’era dubbio che rappresentasse lo sbocco ormai prosciugato sia dello Šaora che di un suo affluente minore.

 

Il riaffioramento dello Šaora è più pittoresco e più interessante del suo affossamento, ed è situato a quattro verste da quest’ultimo. Il fiume sbuca da un’enorme grotta con una rupe a strapiombo di calcare bianco e all’uscita forma un lago di un verde-azzurro strabiliante: pare uno smeraldo, uno smeraldo che risplende per tutta la sua profondità, dando l’impressione di una fluorescenza diffusa per tutto il suo volume. Quanto a sfumature di colore, il lago è molto simile a quello di Charis-Tvali, ma è un po’ più verde: evidentemente nello Šaora, che sbuca più in basso, ci sono dei depositi più sottili di tindalo.

 

L’acqua è freddissima e vi sguazzano trote in quantità.




Limpido e cinto di rocce che lo difendono dal vento, il lago riflette il paesaggio circostante come uno specchio perfettamente levigato, e i raggi del sole, colpendone la superficie a specchio, ne illuminano la volta semibuia in pietra. Quando una trota turba con i suoi cerchi lo specchio color smeraldo dell’acqua, il riflesso provoca un favoloso gioco di luce. Lo stesso accadde quando Šura gettò un sasso nell’acqua. L’intensità del colore verde era tale, che anche i riflessi di luce sulle pareti della grotta di calcare erano verdi. Sullo specchio dell’acqua si riflettevano persino le ombre. In quello spazio chiuso si era avvolti da un silenzio sacrale, e si aveva timore a dire alcunché ad alta voce. Ma quel lago era tremendo anche in senso primo: l’acqua, che all’uscita dello Šaora è bassa, nel lago ha una profondità che a tutt’oggi non è stato possibile misurare. Lo Šaora ricordava un’enorme gola, tipo quella che avevamo visto poco distante. Ma bastava allontanarsi di qualche sagena da quella profondità di smeraldo, che minacciava di una morte immediata chiunque osasse violare la sua purezza, che il paesaggio mutava bruscamente. Lo Šaora dalle acque basse gorgogliava d’argento lungo lo scosceso pendio roccioso, più oltre sorgeva un piccolo mulino, sulle rive si scorgevano dei placidi alberelli, idillicamente placidi sull’acqua fredda e cristallina con le trote che rilucevano al sole.

 

Non lontano c’era un’altra grotta simile, dalla quale sbucava un ruscelletto d’acqua freschissima. Anch’esso affluiva nello Šaora.




Passammo la notte a Nikor-Tsminda. Il giorno dopo, l’11 luglio, mi alzai alle quattro di mattina. La vallata era inondata da un mare di nebbia, che però si dissipò presto. L’antica cattedrale locale l’avevo visitata la sera prima e ne avevo copiato un’iscrizione. Partimmo alle sei meno un quarto; la strada risultò essere di scarso interesse: colline spoglie, neanche un filo d’ombra. Camminammo lungo il corso dei torrenti e, dopo il paesino di Ambrelauri, in cui sorgeva una vecchia torre di guardia, incontrammo il Rion; Ambrelauri non è lontano da Abastuman. Accanto a Tsessi il Rion scorre attraverso uno stretto dirupo a strati di calcare rovesciati. Quel posto pittoresco si chiama Chidekari, che in georgiano significa portone.

 

Sul Rion gorgogliante era stato gettato un ponte di legno e ai due capi, tra le rocce, si ergevano due fortezze.

 

Erano le porte per la conquista del Caucaso e al loro interno si erano svolte non poche battaglie. Se non vado errato, una leggenda ancora viva tra la gente del luogo vuole che proprio a quelle rocce fosse stato incatenato Prometeo.




In quei luoghi, pur senza troppo riflettere su quanto ti circonda, ti senti parte dei centri nevralgici della storia, della natura, degli dei e degli uomini. Attraversato il ponte, ci ritrovammo sulla Strada militare ossetina e ci avvicinammo alla stazione di Tsessi; di lì facemmo dietrofront, ma questa volta sulla riva destra del Rion, a favore di corrente. Dopo una scarpinata difficile e impervia sotto l’afa giungemmo al villaggio in cui si trovava la casa di Amiran. Lì ci attendeva un’accoglienza allegra e riguardosa fino all’imbarazzo. La famiglia di Amiran era composta da suo padre, un vecchio di 82 anni, dalla madre, dal fratello, da sua moglie, dallo stesso Amiran e dai suoi figli. Tutto lasciava intendere che fossero persone pacifiche e affiatate; gli anziani erano arzilli e avevano una bella cera. Nella loro quotidianità si coglievano le tracce di una civiltà antica e ormai quasi dimenticata.

 

In Caucaso non si possono non notare l’autocontrollo e la cortesia anche della gente più semplice. Nonostante la curiosità, infatti, nessuno si permetterebbe mai di chiedere notizia delle circostanze che hanno condotto fin lì e finanche del nome di coloro che incontrano o che accolgono in casa propria.




Lasciato Šura a casa di Amiran, il giorno dopo, il 12, iniziai l’ascesa verso la Svanetija con Amiran e due guide. Era una strada difficile e mi scoprii più volte a pensare di aver fatto bene a non prendere con me mio fratello. Del resto, non se ne rammaricò troppo neanche lui, preso com’era dalle susine e dalle pere dell’orto di Amiran.

 

Andavamo a piedi, con un cavallo da soma carico, tra l’altro, di otri di vino bianco. Dei preparativi si era occupato Amiran e lungo la strada mi convinsi che ogni cosa era stata presa a proposito. Salimmo su per un sentiero molto bello e altrettanto impervio, risalendo la corrente del fiume Ritseuli. Più che fiume, tra l’altro, sarebbe più corretto chiamarlo cascata. C’era acqua in quantità: ruscelli, fiumiciattoli, sorgenti.

 

La natura era rigogliosa: abeti e altri alberi giganteschi, felci più alte di me, boschi di equiseto che si sarebbero potuti arditamente fotografare e spacciare per un quadro di vegetazione in carbon fossile.




Lungo la strada ci capitò anche una roccia con dei cristalli neri, evidentemente un granato. Continuammo a salire [....], superando la cascata tumultuosa del Ritseuli, e man mano che salivamo la vegetazione mutava considerevolmente. Alcune fantasiose supposizioni vogliono che la forza di gravità abbia luogo per via di un flusso etereo che tende incessantemente verso la terra. Muovendosi su una superficie piana o effettuando delle brevi salite, solitamente non sentiamo la gravità, ma durante un’ascensione prolungata e impervia sono pronto a credere all’esistenza di questo flusso etereo che pare volerti spazzar via dal pendio; salendo, ti senti come in un fiume che scorre rapido e di cui devi vincere la corrente con sforzi continui.

 

Nonostante la difficoltà, però, in quella lunga salita c’era qualcosa di liberatorio.




E con quella sensazione, alle otto della sera giunsi alla confluenza del Ritseuli con il fiume Žrinavi, dove avevamo stabilito di passare la notte. Lì, in una gola, in un bosco di abeti secolari, accendemmo un falò e cenammo. Non penso che altri vi avessero mai passato la notte. Sul fiume mormorante svolazzavano le lucciole, e il suono delle cascate si fondeva con gli scricchiolii del falò, acceso tutta la notte. In quei luoghi la notte fa molto freddo e stare senza un fuoco è pericoloso, anche per via degli animali selvatici. Di notte quel bosco faceva paura per l’ondeggiare delle lunghe barbe bianche del muschio spagnolo che penzolavano per qualche sagena dagli alberi. E a quelle paure si univano degli sgradevoli imprevisti, in forma di grilli e di altri grossi insetti che ti saltavano inaspettatamente sul viso. Quella notte, che mi ha lasciato un’impressione molto forte, schiacciai giusto qualche pisolino, tremante per il freddo e sobbalzando ogni momento per la paura.




Il giorno dopo, il 13 luglio, ci rimettemmo in cammino alle cinque meno un quarto. Camminammo per un bosco fitto; certo non dovevano essere stati in tanti a visitare quei luoghi. Dapprima ci fu una salita ripida, poi una più dolce. Le conifere cominciarono a prevalere, e sul finire rimasero solo abeti e picee. Più oltre ci furono prati alpini e di nuovo un’altra salita ripida. Salimmo tra le rocce ricoperte di muschi e licheni. Solo di tanto in tanto capitava dell’erba. Giungemmo al limite delle nevi perenni. Nei burroni biancheggiava del ghiaccio granuloso a grossi cristalli e ci toccò spesso camminare sulla neve, che cricchiava sotto i piedi come pietrisco sottile. Incontrammo una sorgente che dicevano acida, ma al gusto l’acidità era appena rilevabile e non era confermata né dalle cartine al tornasole né da quelle alla curcuma.

 

L’ascesa si faceva via via più difficoltosa.

 

Ci muovevamo a stento, fermandoci di continuo. Chi mi accompagnava mescolava in un bicchierino ghiaccio e vino bianco; un sorso di quella miscela brucia la sete e ti fornisce l’energia per opporti alla forza di gravità terrestre, che lì si sentiva non come qualcosa di ovvio, ma come una forza a sé stante, alla Newton. Chi vive a valle vede nella gravità del proprio corpo una peculiarità da esso inscindibile; lassù, in alto, ci si rende conto in modo assai convincente che la gravità è causata da una forza esterna viva e con la quale si richiede una lotta consapevole.




Nonostante la consapevolezza dello sforzo, però, il mal di montagna fa il suo corso: apatia, e una debolezza tale che a stento ti riesce di sollevare i piedi. Il respiro è affrettato, le ginocchia si piegano e ti senti in uno stato prossimo al malessere. Io ero abituato alle scalate, ma mai l’altitudine si era fatta sentire a tal punto. Alla fine, all’una e un quarto, raggiungemmo il valico di Utini, il confine tra la Rača e la Svanetija. Di lì si può abbracciare con lo sguardo il paese degli Svani, a cui si ha accesso solo tre mesi l’anno. Di fronte a noi c’erano i monti svaneti del Ganga, una catena spoglia e rocciosa con una serie di picchi coperti un po’ ovunque di neve scintillante.

 

Sotto i nostri piedi c’erano ardesia e scisti cristallini.

 

Una lastra di ardesia era stata messa in verticale e così fissata. Era ritenuta sacra, nessuno osava abbatterla. Sulla lastra c’era un sistema di ellissi concentriche con vicini gli archi di un altro sistema. Le ellissi sporgevano in linee a bassorilievo. Raffigurazioni analoghe si incontrano su antichissimi monumenti preistorici dell’Egitto e nelle rovine di Creta; d’altro canto, però, talvolta bassorilievi come quelli si formano anche su rocce sedimentarie lamellari come l’arenaria. Perciò né mentre disegnavo quella pietra, né a tutt’oggi, sono riuscito a spiegarmi l’origine di quelle linee.




Il cielo era di un blu profondo, quasi nero. Si aveva la sensazione di un’armonia perfetta. La mente si apriva in quell’estasi, e tra me e il mondo esterno non c’era più un confine definito. Così capita di solito a una grande altitudine: vuoi per l’aria, vuoi per qualcos’altro, si assiste a una fuoriuscita estatica oltre se stessi, a contatto con la Grande Ragione e perciò alla conquista della pienezza universale. Ci si sente compenetrati dalla gioia ultraterrena che qui scorre. Le meschinità, le angosce, le incombenze sono infinitamente lontane, non sono più parte di te, sono come immondizia spazzata via. Non esiste più la memoria inquieta del domani, e tutti i malintesi della valle, insignificanti, scompaiono. Ogni preoccupazione terrena è accantonata, e dentro di te scorre un ampio flusso di etere azzurro. In quel momento tanto varrebbe vivere o morire. Si prova una sensazione di grande leggerezza di tutto il proprio essere: il corpo non ha più peso. È una sensazione che si può paragonare solo a quando si sogna di volare, a quando è la volontà a far muovere il corpo.




Non so che cosa indicherebbe una bilancia se mi pesassi in questo stato di estasi; nessuno ha mai fatto questo esperimento, ma non escluderei la possibilità di un’autentica levitazione, di una diminuzione di peso che anche la fisica ammette; ad ogni modo, se mai interessasse a qualcuno, un tale esito dell’esperimento non mi meraviglierebbe. Là, sui monti, ha luogo una fuoriuscita astrale da se stessi che, però, non ha nulla di doloroso e non contraddice l’ambiente circostante, come a valle, ma è, invece, legittima e gioiosa. Nonostante la stanchezza, lassù non si cammina, ma si vola, si ha una falcata impensabile a valle, si è quasi portati da un flusso comparso premurosamente per assecondarti. Su per il pendio riesci a fare dei balzi a cui a valle – pur senza il rischio di cadere – avresti paura anche solo a pensare. Dopo una salita spossante, lassù non hai voglia di sederti nemmeno per un attimo e continui a vagare senza meta tra le rocce.

 

Scesi, dunque, per i pendii opposti del passo di Utini, nell’altopiano montuoso della Svanetija, e vidi un laghetto. L’acqua era limpida, ma molto bassa; era circondato da frantumi, macerie e rocce di arenaria.




Non so quanto tempo avrei potuto rimanere lì, felice, ma la nebbia avvolse tutto il circondario; non c’era motivo di restare oltre, e per di più c’era pericolo che piovesse. Alle quattro del pomeriggio iniziammo la discesa, che si rivelò relativamente agevole. Non scendevamo, rotolavamo giù, tanto più che dovevamo affrettarci per la nebbia, sempre più fitta e minacciosa di pioggia. Alla fine ci rendemmo conto che non saremmo riusciti a rincasare in giornata, perciò alle sette di sera ci fermammo a pernottare in una capanna di rami che trovammo al confine degli alpeggi con il bosco di abeti e picee. In quella capanna si poteva stare solo accartocciati, ma servì a proteggerci almeno un po’ dalla pioggia.

 

Le guide accesero un fuoco.




Poi una di loro scomparve e di lì a poco mi stupì riportando dei funghi che, a suo dire, crescevano tra i faggi. Erano funghi lamellati giallo-grigi e bianchi, come scoprii in seguito dal disegno che ne feci [...]. Le guide mi dissero che sarebbero stati la nostra cena. Probabilmente anche quella capanna era opera loro: sotto le foglie secche trovarono facilmente delle stoviglie di argilla fatte a mano, una sorta di sottovasi assai rudimentali simili a vasellame dell’età della pietra. In quei sottovasi cossero i funghi, cospargendoli abbondantemente di sale. Erano assai gustosi, o per lo meno così parevano. Non avevo mai pensato, fino ad allora, che i funghi del legno fossero commestibili. Passammo la notte sonnecchiando nella capanna e la mattina, con la nebbia che continuava a incombere, ricominciammo a scendere a valle. Il cammino era facile e, partiti alle sei e un quarto, a mezzogiorno eravamo già al villaggio di Amiran.




Il giorno dopo, il 15 luglio, alle dieci e mezzo lasciammo quella famiglia ospitale. Scortati da Amiran, raggiungemmo a cavallo la stazione di Črepali, affittammo una carrozza e ci congedammo dal nostro amico. Da quel momento ero solo con me stesso, e con Šura sotto la mia responsabilità. Mi sentivo in tremendo imbarazzo a lasciare una mancia ai postiglioni che avevano scaricato i cavalli, e in imbarazzo ancor maggiore a rifiutare le sigarette che mi offrivano e che avevo comperato su loro richiesta. Imboccammo la strada militare dell’Ossetija. Tra Črepali e Alpani, vicino a Saerim, di colpo si ersero di fronte a noi delle splendide terminazioni calcaree a forma di piramidi, colonne e torri. Difficile non pensare che si trattasse di una splendida città in uno stile sconosciuto, ma simile al medievale, per dirla in modo vago. Una leggenda locale voleva che quelle rocce fossero una città incantata.

 

Più avanti la strada proseguiva per la gola del Rion, che girava continuamente in curve assai strette. Il paesaggio era pittoresco, ma monotono. Era una gola stretta. C’erano rocce calcaree ovunque, scure all’esterno, ma con molte inclusioni, strati e bitorzoli di selce rossa. Era molto probabile che si trattasse di fossili; per lo meno una delle selci risultò essere belemnite. Passammo la notte ad Alpani e il giorno dopo, il 16 luglio, giungemmo a Kutaisi verso l’una del pomeriggio.




 Poco tempo dopo mio padre partì per qualche giorno alla volta di Kvišchety e prese con sé Šura, lasciandomi a Kutaisi, dove rimasi per un paio di settimane. Feci diverse gite fuori città, sia da solo che con mio padre. Più di frequente prendevo per la strada militare ossetina, per la gola del Rion, costeggiando le rupi di calcare bianco con le loro erosioni e le loro gole sul declivio della strada, verso le rovine della cattedrale di Bagrat. I cespugli di melograno selvatico, con le loro foglie lucide color verde scuro e i fiori rosso corallo, la vite selvatica che avviluppava gli alberi alti, e in genere la vegetazione rigogliosa risvegliavano in me ricordi di quand’ero bambino. Vi sentivo una corrispondenza con la mia vita interiore, quando da solo, e non senza timore, mi addentravo tra le imponenti vestigia di quella chiesa grandissima con le volte crollate, quando vagavo tra gli enormi massi che ne ingombravano l’interno, quando saltavo tra i capitelli mastodontici delle sue colonne. Se ci andavo con mio padre, lui restava seduto all’ingresso a osservare il corso del Rion, non avendo voglia di saltellare con me in quel bailamme di massi.




Sulle pietre si scorgevano ancora diversi ornamenti e figure misteriose. Agli angoli dei capitelli tetraedrici erano appollaiati degli uccelli, una sorta di enormi gufi, mentre sui quattro lati erano incise delle misteriose composizioni con figure di animali o di strani esseri. Per quanto potevo, cercavo di disegnare nel mio album quei segni di un mondo spirituale, senza capirli, ma turbato come dal contatto con qualcosa di a me affine. Ogni tanto mi arrampicavo in alto, fino alla finestra dell’abside di una navata laterale, e di lì osservavo quella costruzione imponente. Diritto di fronte a me c’era l’abside opposta, ben conservata. L’edera scura che cresceva ovunque aveva avviluppato il lato esterno del muro e, raggiunta quella stretta finestra, era penetrata dentro l’edificio e aveva letteralmente inondato tutto il suo lato concavo.




Un giorno, in equilibrio su un fastigio del tetto e col rischio di cadere giù, riuscii a fotografare la coltre d’edera. Tra quelle rovine nulla mi ricordava la visione del mondo con cui lottavo dentro di me; anzi, quei muri cadenti emanavano gli effluvi spirituali di un’altra cultura, alla quale, senza rendermene conto, io tendevo con tutta l’anima. Quelle pietre vivevano e continuavano a vivere, e io non potevo non sentire le forze spirituali che vi aleggiavano e che di sé dicevano, in beffa alla fisica, molto più di quanto si potesse dire con elucubrazioni filosofiche e teologiche. Lì la mia educazione natural-scientifica officiava, come officiò molte altre volte in seguito, una liturgia contro il pensiero scientifico che avrebbe dovuto onorare: mi costringeva a fare i conti con quanto recepito senza mediazioni di sorta più che per il tramite di concetti astratti.

 

Compresa l’indubbia per me, seppur incompatibile per la fisica, vita spirituale di quelle rovine, in armoniosa unione con la vita della natura.

 

Inoltre ero lì con mio padre, come quando ero piccolo, e ciò portava al risveglio della mia percezione infantile del mondo.




Un giorno andammo nell’antico monastero di Gelati, che era stato anche una fortezza e dove si trovava la Madonna di Chachul’. È un angolo pittoresco di medioevo georgiano che risveglia il sentimento di un’altra cultura persino in assenza di concetti che orientino l’attenzione in quel senso. Il mio essere era troppo intento alla sua lotta interiore e la mia mente troppo satura di concetti fisici perché fossi in grado di osservare veramente quel monumento. Non degnai della meritata attenzione nemmeno la famosa icona della Madonna di Chachul’, con i suoi smalti su oro e pietre che avevano lasciato basiti gli archeologi. Avendo avuto fin dall’infanzia interesse e gusto per l’archeologia e l’arte, ero ovviamente interessato a quanto vedevo, ma di fatto sentii solo i più flebili effluvi della vita di quelle antichità, mentre il resto venne presto dimenticato.




Con mio padre ci spingevamo anche più lontano, quando così voleva il suo lavoro. Un giorno, infatti, mi propose di punto in bianco di andare con lui a Batumi. Ci preparammo in dieci minuti e partimmo. Era il 21 di luglio. Già giungeva il rumore della risacca lontana che ti faceva fremere il cuore. Batumi mi parve più piccola di come me la rammentavo e ancora più cara di quanto mi fosse parsa negli anni della mia passione per la fisica. La città era squallida, ed era diventata ancora più squallida di un tempo, ma era mia, e la mia anima era legata a ogni strada e a ogni casupola. Tanto estranea ho sempre sentito Tiflis, che rifuggivo con ostilità, come un nemico, scacciandola da me, tanto entravo a Batumi come nel mio stesso corpo, pronto a riservarle un’affettuosa accoglienza. Camminavo per la città, mi sedevo sul viale, facevo il bagno in mare. Con mio padre andammo più di una volta anche nella casa degli ingegneri dove un tempo abitavano i Novomajskij. Quella casetta a due piani era sempre là, nascosta e difesa dalla batteria all’angolo del viale, con lo stesso ampio balcone dal quale un tempo il bel mondo di Batumi aveva osservato lo zar Alessandro III che passava in rassegna le truppe. Ricordo che allora, dopo tanto attendere, avevo sentito i morsi della fame, e il pezzo di pane francese e formaggio svizzero che mi porsero mi era parso oltremodo gustoso.




A suo tempo quella casa era stata per me il rifugio fatato delle muse e delle grazie. Lì abitava Marija Sergeevna Novomajskaja, che ai miei occhi era una creatura ammaliante, degna di rivaleggiare coi colibrì. Minuta, con gli occhi azzurri e i capelli biondi, le piaceva vestirsi bene e le piaceva piacere; sapeva essere elegante, ma ancor più sapeva di ammaliare con un’amabilità che le veniva dal milieu polacco in cui era cresciuta. Ero in continuo visibilio per l’affetto che mi dimostrava. E tutto ciò che la circondava pareva affascinante e splendido come nelle fiabe. Guardavo alla sua vetrinetta con le porcellane e i soprammobili come a un sacrario inaccessibile a mano umana, sebbene non ignorassi che alcune cose, compreso un vaso con uno stelo e delle foglie di palma che aveva catturato la mia immaginazione, erano state un nostro regalo.




Ma l’atmosfera di malia che avvolgeva Marija Sergeevna era talmente grande ai miei occhi che, se solo ella avesse avuto un semplice ciottolo, mi sarebbe parso colmo di eleganza e di significato. Mi attirava soprattutto il fatto che fosse così nervosa, segno di una finezza ultraterrena che la avvicinava alle principesse e alle fate. Ascoltavo sempre compiaciuto i racconti dei grandi su come Marija Sergeevna si era di nuovo sentita male per via della tale o della tal altra emozione sgradevole. Un piacere ancora maggiore me lo procurò il caso in cui Marija Sergeevna punse con una spilla d’oro la figlioletta Eva mentre le faceva il bagnetto, tanto che la piccola perse i sensi. Alla vista della goccia di sangue, Marija Sergeevna cadde svenuta anch’ella, come comunicai estasiato a destra e a manca, e per finire anche il figlioletto Feliks diede compimento – allo stesso, degnissimo, modo – a quella pienezza di raffinati sensi.

 

Pare che il di lei marito Severin Feliksovič avesse trovato tutta la sua famiglia riversa a terra priva di sensi. In casa nostra una finezza di tal sorta era ritenuta esecrabile; da noi il tono era più severo, più inglese. Nei Novomejskij, invece, tramite la Polonia si erano fatti largo dei rivoli della Francia prerivoluzionaria, e i loro rapporti reciproci, il loro stile di vita erano un po’ alla Luigi XVI. Da noi vigevano la serietà e il culto del vero, mentre in casa dei Novomejskij si tendeva a una parvenza di eleganza e frivolezza, celando i propri sentimenti dietro una coltre di cortesia e di splendore.

 

E io ero attratto dall’una e dall’altra cosa.




Per questo casa loro mi affascinava e mi pareva incomparabile con la mia; ne amavo l’irrazionalità, la vedevo sterminata, imponente ed elegante, tanto più che quel che vi conoscevo e vi avevo visto mi pareva un piccolo frammento di un tutto enorme e ignoto, così come le raffinatezze cui avevo avuto accesso erano solo una piccola parte di ciò che ancora essa conteneva. Quella casa, e in particolare Marija Sergeevna, divenne il punto di cristallizzazione e d’appoggio delle mie brame verso il bello. Vi entravo con il cuore in gola, e ogni volta che incontravo Marija Sergeevna provavo una segreta ammirazione e non riuscivo a smettere di guardarla, di osservare la sua mano guantata di pelle di daino e dalle dita strane ed eleganti.

 

Ora, a più di dieci anni da quella passata fascinazione, stavo camminando proprio accanto a quella casa all’angolo del viale, vicino alla batteria; mio padre aveva certe faccende da sbrigare in veste di superiore, e io ci andai in parte su sua indicazione (un ingegnere che ci abitava, un nostro vecchio conoscente di cui non riesco proprio a ricordare il nome, desiderava vedermi), in parte per mia volontà: volevo rinverdire le impressioni dell’infanzia. Ci attendevano un’accoglienza cordiale e – me in particolare – una profonda delusione. Invece di un’infilata senza fine di sale enormi arredate con ogni possibile sfarzo, mi ritrovai in un normalissimo appartamento, decoroso ma piccolo, con della mobilia altrettanto normale. La batteria, che mi era sembrata una catena montuosa, risultò essere un basso terrapieno. Non c’era nulla di fiabescamente elegante, né di fiabescamente misterioso. Come in un sogno, quella casa mi era parsa un quadro di Rembrandt, dove le superfici illuminate del primo piano sembravano sporgere per l’ombra infinita e insondabilmente misteriosa che celava in sé innumerevoli misteri.




Ma poi mi capitò quel che accade a un’ulteriore conoscenza con Rembrandt: l’ombra ammaliatrice si rivela essere un inganno, una mera allusione al mistero e, quando si cerca di addentrarsi in essa, invece che con l’infinità si incoccia in uno steccato o in un muro. Allo stesso modo i misteriosi puntini di sospensione con i quali si spezzava la parte a me accessibile della casa furono come le ombre di Rembrandt, poiché altro non contenevano che corridoi e tinelli. Non mi piacque constatare che quel rifugio della poesia era vuoto e malconcio. Me ne andai appena possibile, nonostante le insistenze dell’affabile padrone di casa, e non vi tornai una seconda volta.

 

Ciò nonostante, essendoci ricapitato anche in seguito, pensai e continuo a pensare che a essere vera fosse la mia prima impressione di bambino, per la maggiore capacità che avevo allora di entrare in contatto con la poesia viva e per la presenza tra quelle mura dell’anima vivificante della casa: Marija Sergeevna. Sono convinto che allora l’atmosfera di quella casa fosse diversa dall’attuale. E la sensazione di enormità e di imperscrutabilità di quel luogo, penso, era frutto di una mia disposizione d’animo verso una certa atmosfera interiore e significativa della casa e di una mia incapacità di comprenderla.

 

Non accade forse lo stesso con l’ombra di Rembrandt, che cela qualche aršin di profondità e un muro tutt’altro che incomprensibile, ma che rimane comunque misteriosa e, una volta scoperta, continua ciò nondimeno a essere impermeabile all’analisi?

 

Forse che la piccola stanza che conosciamo come le nostre tasche, al buio più totale non acquista una misteriosa immensità che non può essere dissipata né dal ricordo di quanto dentro di essa si era visto con la luce, né dal tastare le pareti e gli oggetti che vi si trovano?

(Ai mei figli)








 

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