giuliano

giovedì 28 luglio 2022

ALLA 'GROTTA' DEI COSACCHI (il Generale) (2)

 









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Tratti dalla 'Grotta'






 

La città è completamente al buio perché da otto giorni si stanno svolgendo le grandi manovre giapponesi. Per una scaletta stretta, rigida e tutta sbocconcellata scendiamo in un antica cantina nella quale un vecchio cosacco di buona volontà e la sua donna hanno attrezzato una taverna notturna frequentata dai residui dell’Armata Bianca della Siberia. Il pavimento è stato arrangiato alla meglio con un po’ di cemento. Contro le pareti sono situati i tavoli, rozzi e pesanti, con intorno delle panche da caserma. Il soffitto è basso ed affumicato. Da molti anni le pareti sono state imbiancate e sono tutte piene di iscrizioni in russo, a lapis, a carbone, a sugo di pomodoro. Sono cognomi; evviva; insolenza; maledizioni; date di battaglia; nomi di donne; nostalgie di luoghi e di amori. Sulla parete di fondo un pittore ha abbozzato col carbone una vecchia veduta di Pietroburgo coi ponti sulla Nevà e le cupole di Santa Sofia.

 

Un pianoforte male in arnese, finito quaggiù chissà come, è il mobile principale del luogo. Un tipo altrettanto vecchio e scalcagnato quanto lo strumento siede sopra una cassa vuota dinanzi alla tastiera e ne estrae ballabili nord-americani o musiche russe a seconda delle preferenze della clientela. Tutto è povero nella ‘Grotta’, come la chiamano, povero e piuttosto sudicio, ma contigua allo stanzone principale vi è una piccola cucina dove la moglie del cosacco confeziona una squisita cucina russa, quale è difficile trovare altrove a Harbin; i prezzi sono estremamente modici e la vodka è di buona qualità.




Alla ‘Grotta’ sogliono raccogliersi la notte i cosacchi che non hanno sonno, qualche legionario calmucco o kirghiso che è rimasto a Harbin coi suoi compagni d’arme, cinque o sei colonnelli, due o tre generali, i musici dei ‘dancings’ di Harbin che sulle due chiudono i battenti, alcune donne anziane che sono anch’esse macerie dell’Armata Bianca, varie ragazze giovani, amanti od amiche degli avventurieri cosacchi. E vi fanno capo periodicamente tutti quei russi di Harbin che, maschi o femmine, giovani o vecchi, con soldi o squattrinati, sentono una data sera la nostalgia della vecchia Russia degli Czar e di Rasputin e sanno trovarla alla ‘Grotta’ con vodka e zabruski con musiche e canzoni, con allegrie chiassose e tristezze fonde.

 

Ogni tanto vi fanno capolino i pochi capi sopravvissuti alla tormenta, il vecchio generale Kislitzin, il filosofo Kunst, sicuri di trovarvi qualcuno dei loro antichi battaglioni o, se non altro, dei cosacchi della loro stessa pasta che hanno combattuto con Kolciak in Siberia, che hanno visto cadere Resiukin alla battaglia di Gobi, che hanno condiviso col barone Unzern-Stenberg i fastigi dell’effimero Regno cosacco di Mongolia che comunque hanno battagliato agli ordini del generale Bialov, del generale Dutov, del generrale Bakisc, del generale Kaigorodov, del generale Kazanev, del generale Annekov, del bizzarro generale Kazagrandi di origine lombarda, dei tanti altri improvvisati generali bianchi, morti in combattimento nelle steppe gelate della Siberia o fucilati dai tribunali rossi di Irkutsk, di Novo-Nicolaievsk e di Troitskosavsk.

 

- Nottata calda!




...mi dice il colonnello nel prendere posto all’unico tavolo ancora libero. Il locale è infatti pieno di gente e di fumo. Nell’atmosfera greve è sospeso un potente odore di  tabacco, di alcole, di olio bollente, di pesce in salamoia, di ascelle sudate. Il pianista - una faccia alla Beethoven, ma scolorata e scarnita dai digiuni - martella sul piano una canzonetta popolare russa che vari ubriachi accompagnano dai tavoli canticchiando. In un angolo della vecchia dal mento aguzzo e dalla pelle color sughero sgranocchia avidamente ceci arrostiti ed ogni dieci, dodici ceci si fa il segno ortodosso di croce. Alle pareti sono appese varie fotografie di generali russi in colbàc e pelliccia: ingiallite, affumicate, male incorniciate, preistoriche.

 

– Quello - mi dice il colonnello indicandomi un ritratto più grande degli altri, - è l’ammiraglio Kolciak, capo di tutte le forze bianche della Siberia, fucilato dai bolscevichi nel 1920 ad Irkustk.

 

- Viva Kolciak!

 

…grida qualcuno che ha inteso nell’ebrezza il nome dell’ammiraglio.

 

- Viva Kolciak! Ed ancora della vodka per me!

 

- E’ Ghisleief! precisa il colonnello. - Un valoroso che era aiutante di campo dell’ammiraglio. Aveva il grado di capitano ed era un tipo in gamba. Oggi la vodka lo ha abbrutito.




Scoppia uno schiamazzo d’inferno in un angolo tra un gruppo di Kolciakisti ed un gruppo di semionofisti. Tra Kolciak e Semionof i rapporti erano pessimi. La loro rivalità personale sopravvive alla loro morte, nei cuori e nelle ubbriachezze degli ex-dipendenti.

 

- Kolciak è stato tradito dal generale Sirowy!

 

urla un gigante biondo, tutto ciuffo, assestando un tremendo pugno al tavolo che vibra dolorosamente in tutti i suoi piatti sudici e le zuppiere vuote.  

 

Sirowy? chiedo. - Il cecoslovacco?

 

Sì mi spiega il colonnello, - Sirowy, l’ex Primo ministro di Cecoslovacchia. Egli è ben conosciuto da noi. Comandava in Siberia la Legione ceca ed ha combattuto i bolscevichi di Kolciak. I cosacchi non amavano i cechi i quali facevano la guerra con troppa ferocia, bruciavano i villaggi, uccidevano donne e bambini. Il ceco è un popolo feroce! Dove passavano i cechi seminavano il terrore e ciò contribuì a farci perdere molte simpatie in Siberia, fra i russi e fra i mongoli. 

 

– Che Dio lo stramaledica! urla la vecchia dei ceci.

 

– Rinunziammo all’attacco, continua il generale. – Fu un errore gravissimo che costò la vita dell’ammiraglio Kolciak e che determinò il crollo di tutta la resistenza bianca in Siberia. Tre giorni dopo eravamo attaccati noi dai bolscevichi con una schiacciante superiorità di artiglieria. Migliaia dei nostri caddero. Io fui ferito quel giorno cinque volte. L’ammiraglio fu catturato al tramonto e fucilato la notte stessa.




 – E i cechi? chiedo.

 

 – Durante la battaglia, la Legione ceca abbandonò la sua posizione scoprendo il nostro fianco all’avvolgimento nemico ed occupò per conto suo la stazione, dove si impadronì di diecimila vagoni vuoti. Sirowy avvertì laconicamente il Comando che, considerando la battaglia perduta, si ritirava il ferrovia prima che i bolscevichi diventassero padroni della linea. Era il tradimento vero e proprio! Sirowy si era messo d’accordo coi russi. le notti durante la battaglia, mentre i russi combattevano uno contro dieci, 40.000 cechi abbandonarono il campo di Sirowy.

 

– Che Dio lo maledica! ripeté la vecchia dei ceci.

 

– Il tradimento fu aggravato dal fatto che i cechi portarono via anche migliaia di vagoni vuoti, per cui quando il generale Voiciovski ordinò il ripiegamento sulla stazione, trovò che non v’era più un treno. I cechi s’erano portati via tutti i convogli. Fu per noi il disastro

 

 – Che Dio lo stramaledica! insisté la vecchia.

 

– Fu una ritirata spaventosa, a cavallo, in slitte, a piedi, per la campagna gelata. Migliaia di cosacchi morirono di freddo, di fame, di stanchezza sulla sterminata distesa bianca della Siberia. La ritirata era segnata sulla neve da una riga interminabile di cadaveri. Quei mille e mille morti russi, Sirowy li ha tutti sulla coscienza! L’ho dichiarato nettamente nel mio libro ‘Tra le fiamme della guerra civile’, perché resti un documento per la storia.




Un grande silenzio segue le ultime parole del vecchio generale. Sulle anime e sulle ubriachezze grava il peso di tutti quei mille e mille morti rimasti nella neve. Poi da uno dei tavoli si alza una voce ed intona un canto. Tutti i cosacchi balzano in piedi a far coro. E’ un canto nazionale cosacco: il ‘Sagustie Kazaki’: un po’ religioso, un po’ guerriero, un po’ barbaro: straordinariamente forte. Il vecchio generale lo ascolta in piedi, la mano alla fronte, nel saluto militare. Un soffio di poesia rinfresca e nobilita la taverna miserabile nella quale agonizza – grot-tesca e dolorosa – una epopea.

 

 Nel frattempo era entrata nella taverna una giovane donna – bellissima – e s’era seduta al tavolo della vecchia dei ceci. Non doveva avere più di vent’anni. Una di quelle straordinarie bellezze bionde che si trovano nei vicoli di Harbin.

 

– Ballaci qualche cosa, Maruscka! le dice qualcuno quando il coro è terminato e le anime sono tutte sospese verso l’Infinito.

 

– Ho altro per la testa che ballare, Vassili! risponde la ragazza. – Maestro, la ‘Glàsaia’, chiedono parecchi. Il pianista attacca il pezzo sulla tastiera gialla e sdentata che pare anch’essa un frantumo di guerra e di rivoluzione. Una donna che sta tutta raggomitolata in un angolo, canta  per conto suo la canzone senza abbandonare il suo angolo né il suo raggomitolamento. Ha una voce calda e dolce, con alcune note basse, aspre e dolenti. Dinanzi le fuma un piatto di cavoli lessi, tra due bottigliette di vodka, già vuote.

 

Di scatto, Màruscka s’alza, si strappa il cappello che libera una formidabile capigliatura bionda tutta ricci e baleni, si  punta le mani sui fianchi con un gesto mezzo lascivo mezzo guerriero, e fra gli applausi generali attacca la danza classica cosacca. E’ una danza di maneggio e di steppa che in certi momenti ha il ritmo dei trotti cadenzati ed in altri l’impeto dei galoppi a tutta briglia. La danza strappa agli avventori urla selvagge di entusiasmo. Altre bottiglie finiscono in pezzi sotto le gambe dei tavoli.




– Viva Kolciak! Viva Semionof! si grida. – Abbasso Sirowy! urla il gigante dal ciuffo. – Che Dio li maledica! aggiunge con costanza la vecchia dei ceci.

 

E l’esaltazione slava esplode nella bettola fumosa.

 

Tutti cantano, gridano, parlano, masticano, tracanna-no, litigano, si abbracciano, rompono piatti e bottiglie. Le fiamme dei fornelli avvampati intorno alle padelle proiettano bagliori spettrali sui volti degli uomini e delle femmine. Le mani battono con cadenza selvaggia il ritmo frenetico del finale della ‘cosacca’. Magnifica è la femmina con la bionda criniera sconvolta dalla danza, rosse le guance, fiammeggianti gli occhi, palpitante il seno, tutto fremente e sudato il corpo felino.

 

– Forza, Màruscka! Brava, Mu-ka! Avanti, Marka!…

 

(M. Appelius, Al di là della grande muraglia)









 

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