giuliano

domenica 3 marzo 2013

IL PIONIERE (9)












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il Pioniere (10)










Ci avevano raccomandato di rivolgersi a un certo M. Williams che
aveva commerciato a lungo con gli Indiani Chippeways e che aven-
do un figlio residente a Saginaw, poteva fornirci utili informazioni.
Dopo aver percorso qualche miglio nei boschi e quando già temeva-
mo di aver oltrepassato senza vederla la casa che cercavamo, incon-
trammo un vecchio intento a lavorare un piccolo giardino.
Gli rivolgemmo la parola: era lui, M. Williams.
Ci accolse con grande cordialità e ci diede una lettera da consegna-
re al figlio.
Gli chiedemmo se avevamo qualcosa da temere dalle popolazioni in-
diane delle quali stavamo per attraversare il territorio. M. Williams
 reagì a quest'idea quasi con indignazione:
- No, no,
disse
- potete proseguire senza timore. Per conto mio, dormirei tranquil-
lo in mezzo agli Indiani che non fra i bianchi.




Riferisco questa risposta perché è il primo giudizio favorevole che
 abbia sentito sugli Indiani da quando sono arrivato in America.
Nei paesi molto abitati si parla di loro con un miscuglio di timore
e di disprezzo e probabilmente in quei luoghi meritano un simile a-
prezzamento.
Più sopra è stato evidente che cosa anch'io ne pensassi quando
li ho incontrati per la prima volta a Buffalo. A mano a mano che
procederete in questo diario e che mi seguirete in mezzo alle po-
polazioni europee di frontiera e alle tribù indiane vi farete un'idea
più rispettosa e più giusta dei primi abitanti dell'America....
....Sempre camminando, arrivammo in un luogo dall'aspetto diver-
so.




Il terreno non era tutto pianeggiante, ma intercalato da colline e
vallate. Molte di queste colline avevano un aspetto quanto mai
selvaggio.
Quando, in uno di questi luoghi pittoreschi, ci voltammo d'improv-
viso per contemplare l'imponente spettacolo che ci lasciavamo alle
spalle, scorgemmo con sorpresa fermo vicino alla sella dei cavalli
un Indiano che sembrava averci seguito passo passo.
Era un uomo di circa trent'anni, alto e ben proporzionato come lo
sono quasi tutti quelli della sua razza. I capelli neri e lucidi gli rica-
devano sulle spalle, meno due trecce trattenute in cima al capo.
Il viso era impiastricciato di nero e di rosso.




Indossava una specie di camiciotto azzurro cortissimo e 'mittas'
rossi, uno speciale tipo di pantaloni che arrivano a malapena a co-
prire la parte alta della coscia; ai piedi portava i mocassini. Un col-
tello gli pendeva al fianco, nella destra teneva una lunga carabina
e nella sinistra due uccelli appena uccisi.
Di primo acchito, la vista dell'Indiano ci riuscì sgradita.
Il luogo era poco adatto a parare un attacco: a destra, una foresta
di pini elevata a un'immensa altezza, a sinistra si apriva un profon-
do burrone e sul fondo scorreva un corso d'acqua che l'oscurità del
luogo ci impediva di vedere e verso il quale scendevamo alla cieca.




Imbracciare i fucili, voltarci di colpo e disporci sul sentiero di fron-
te all'Indiano fu affare di un attimo.
Anch'egli si fermò.
Per mezzo minuto regnò il più assoluto silenzio.
Il suo viso aveva le caratteristiche che distinguono la razza indiana
da tutte le altre. Negli occhi nerissimi brillava quel fuoco selvaggio
che sopravvive ancora nello sguardo dei meticci, ma che a poco a
poco va estinguendosi nella seconda o terza generazione di sangue
bianco.
Il naso era arcuato nel mezzo, lievemente schiacciato alla base, gli
zigomi assai sporgenti; la bocca molto larga lasciava intravedere due
file di denti di un candore abbagliante, prova evidente che il selvag-
gio, meglio abituato del suo vicino Americano, non trascorreva le
giornate a masticare tabacco.




Ho detto che nell'attimo nel quale ci eravamo voltati verso di lui
con le armi in mano, anche l'Indiano si era fermato. Si sottopose
al rapido esame della sua persona con assoluta impassibilità, lo
sguardo serio e immobile. Come si accorse che non vi era da par-
te nostra nessun senso di ostilità nei suoi confronti, si mise a sor-
ridere.
Per la prima volta potei osservare fino a che punto un'espressione
gioiosa poteva mutare radicalmente la fisionomia di questi selvag-
gi. In seguito potei constatarlo molte altre volte.
Il medesimo Indiano serio o sorridente  sono due uomini comple-
tamente diversi. Nell'immobilità del primo domina una maestà sel-
vaggia che esprime un sentimento involontario di terrore. Appena
comincia a sorridere, il suo viso assume un'espressione d'ingenui-
tà e di cordialità che emana un autentico fascino.




Vedendo che il nostro uomo si era rasserenato gli rivolgemmo la
parola in inglese.
Ci lasciò parlare fino in fondo, poi ci fece cenno che capiva.
Gli offrimmo un po' d'acquavite che accettò senza esitazione e sen-
za ringraziamenti.
Sempre intendendoci a gesti gli chiedemmo un baratto, poi una
volta fatta conoscenza, lo salutammo con la mano e partimmo al
gran trotto.
Dopo un quarto d'ora di rapida marcia mi voltai e mi stupii di ve-
dere ancora l'Indiano dietro al mio cavallo.
Correva con l'agilità di un animale selvaggio, senza pronunciare
parola né affrettare l'andatura.




Ci fermammo e si fermò; ripartimmo e ripartì.
Ci lanciammo a tutta corsa: i nostri cavalli abituati al deserto su-
peravano ogni ostacolo.
L'Indiano raddoppiò la velocità della corsa.
Lo scorgevo ora a destra, ora a sinistra del mio cavallo saltare
le siepi ricadendo a terra senza rumore. Si sarebbe detto uno di
quei lupi del nord Europa che seguono i cavalieri nella speranza
che cadano da cavallo e possono essere divorati più facilmente.
La vista di quel personaggio immutabile che sembra volteggiare
al nostro fianco, ora scomparendo nell'oscurità della foresta, ora
ricomparendo in piena luce, stava diventando intollerabile.
Non riuscendo a capire che cosa spingesse quell'uomo a seguir-
ci d'un passo così precipitoso - forse da molto tempo prima che
lo scoprissimo - ci venne l'idea che volesse tenderci un'imbosca-
ta.
Eravamo immersi in questi pensieri, quando scorgemmo nel bo-
sco davanti a noi la canna di un'altra carabina......
(A. De Tocqueville, Viaggio negli Stati Uniti)












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